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Primum scindere (perché il Pd deve tornare ai Ds, alla Margherita, al Partito di Renzi, se nascerà)
A qualcuno era abbastanza chiaro da prima. Ora lo dicono un po’ tutti, dopo la sconfitta del 4 marzo, che il Pd deve ritrovare la propria identità.
Domanda: ce l’ha mai avuta, un’identità, il Pd? Un’identità che andasse oltre il sostegno al leader di turno (non solo Renzi, attenzione, il “problema” c’era anche con Veltroni e Bersani) o il riconoscersi in una cerchia di potere (veltroniani, bersaniani, renziani) piuttosto che nelle altre che stavano di volta in volta in minoranza (dalemiani, bersaniani e chissà, da domani, renziani); un’identità che irrobustisse le idee di futuro invece che scioglierle dietro formule (dalla “vocazione maggioritaria” della campagna del 2008 al “senza di me” odierno, riferito al no secco a qualsiasi governo); un’identità che magari riducesse il bacino elettorale ma che consentisse, a chi vi si riconosceva, di dire “sì, cazzo, sono del Pd per questo, questo e quell’altro”.
La mia opinione? No, non l’ha mai avuta.
La prova? Nei primi anni della propria storia, molto prima che arrivasse Renzi, il Pd si ritrovò a fare i conti col radicale cambio delle relazioni industriali impresso dai nuovi contratti Fiat di Marchionne. Uno avrebbe detto: “Che colpo di cu.o, nasce un partito del lavoro e ha già l’occasione storica di dire la sua su un cambiamento drastico nel mondo del lavoro”. E invece nulla. A distanza di anni non ho capito come la pensasse il Pd su quell’aspetto decisivo del rapporto tra capitale e lavoro, tra padrone e operaio. Ma questo è solo uno dei mille esempi che si potrebbero fare.
Semplificare due tradizioni – quella post-comunista e quella cattolica popolare – in una sigla, Pd, doveva essere la molla per provare a prendere più voti. Invece, fate bene i conti, il Pd è stato uno dei partiti più perdenti della storia dei partiti. E persino la sua più grande vittoria, quella delle Europee, s’è rivelata più dannosa della peggiore delle sconfitte.
E adesso? Chi nasce tondo non può morire quadrato, dicono in Sicilia. A un partito nato e cresciuto senza identità, un’identità non gliela puoi dare ora che ha dieci anni e più. Convivono due o più identità nel centrosinistra? Bene, che ciascuno ritorni da dov’era venuto o che si piazzi dove ritiene di dover stare ora. E che poi ci si allei alle elezioni, se ciò che unisce è superiore a ciò che divide.
Tutto il resto sono cose magiche. Formule magiche, cerchi magici, gigli magici. Ma la magia, in politica, non funziona.
(Altrimenti Silvan avrebbe guidato più governi di Andreotti).
#direzionePd
«Fassina ha la voce di Cristiano Malgioglio». Il libro Cuore del Pd arriva su Twitter
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 marzo 2012)
Il primo sussulto arriva quando Paola Concia rompe una narrazione armoniosa scrivendo che «Ichino fa Ichino» e «non dice nulla sull’articolo 18». Per il secondo tocca aspettare una somiglianza fonica scovata e postata su Facebook da Pina Picierno. «Oh, ma Fassina ha la stessa, identica voce di Cristiano Malgioglio!».
Nel giorno dell’unità ritrovata attorno alla linea «Monti cambi la riforma del lavoro», il quartier generale piddì del Nazareno si trasforma nella casa del Grande Fratello. E l’eco della direzione del partito, che va in scena dentro, arriva magicamente fuori. Siamo al «dentro ma fuori dal Palazzo», come recita lo storico slogan di Radio Radicale? E soprattutto, i Democratici sono diventati come il partito di Pannella? Più o meno. I secondi si fanno sentire dai vicini di casa anche (e soprattutto) quando litigano. Il primi alzano la voce in tempo di pace.
Sia come sia, quando Bersani apre la riunione del parlamentino, la deputata Concia inizia a torturare l’Ipad. Lasciando messaggi in bottiglia verso l’esterno. «Parla Bersani: abbiamo un profilo europeo ok», «Bersani: Monti non è venuto dopo i partiti ma dopo Berlusconi», «Bersani: basta con la stucchevole differenza tra tecnica e politica». E poi, quando tocca a «Walter», «Veltroni: dobbiamo lavorare insieme, dobbiamo confrontarci ma sentirci di stare insieme». Il deputato lucano Salvatore Margiotta, che le siede accanto, non vuole essere da meno. Twitta pure lui. Eccome se twitta. «Ottimo Franceschini sull’articolo 18: stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili». E ovviamente «anche da Veltroni emerge una sostanziale unità del partito sulle cose che contano. È un bene». Roberto Speranza, il giovane segretario regionale della Basilicata, se la ride di gusto. «Salvato’, tra te e la Concia mi pare di stare dentro la casa del Grande Fratello». Appunto.
In tarda mattinata arriva il turno di Massimo D’Alema. Uno che ancora gli tremano le gambe tutte le volte che racconta di quando nel 1975, al suo debutto nella direzione nazionale del Pci, venne “cecchinato” da Arturo Colombi, presidente della Commissione centrale di controllo del Pci e grande nome della Resistenza, perché aveva osato prendere appunti durante la riunione («Prese i miei foglietti e li stracciò davanti a tutti dicendo: “Ricordati, solo le spie prendono appunti”»). Al presidente del Copasir, ’o presepe della direzione via Twitter, non piace. Ma il suo contributo all’happy end non lo nega. Anzi. «Il presidente dell’Assemblea, Rosy Bindi, iscrivendomi a parlare dopo Veltroni, ha costruito una strana trama da libro Cuore. Ecco, lo dico: sono totalmente d’accordo con Walter», dice «Massimo» applaudendo l’intervento del nemico-amico che l’aveva preceduto. L’account twitter di Concia pare Radio Londra in tempi di guerra. «D’Alema: non stiamo scrivendo il libro Cuore. Non ho capito cosa volesse, dire ma forse sono scema».
A Roberto Giachetti, rimasto a presidiare il fortino di Montecitorio, i conti non tornano. Soprattutto visto che, sull’articolo 18, Bindi aveva minacciato di andare in piazza. «Rosy, quindi scenderemo in piazza unitariamente?», le scrive. Lei non risponde. «Tutti magicamente d’accordo», annota il deputato Fausto Recchia. Mentre Pina Picierno, prima di scovare quella strana somiglianza fonica tra Fassina e Malgioglio, aveva avvertito baracca e burattini: «Sono alla direzione del Pd. Volemose bene è il sottotitolo della giornata. Ma al prossimo che parla sui giornali, je meno io». Così. Senza eufemismi.
Più d’uno storce il naso quando il tesoriere del partito Antonio Misiani mette ai voti il preventivo di bilancio. Sulla base dell’accordo pre-elettorale, 200mila euro vanno ai Radicali (che dal 2008 hanno preso dal Pd 630mila euro, hanno 9 eletti nelle liste democrat) e 70mila all’area degli Ecodem. Cifre a parte, i tesoriere è applaudito da tutti: «Ricordo quando nella Margherita approvavamo i bilanci di Lusi. Il Pd, per fortuna, ha Misiani…», cinguetta Margiotta.
Restano le divisioni sulla legge elettorale. Perché lo schema Violante fa discutere. E litigare. «Una riforma che punti sui partiti è essenziale per noi», sostiene D’Alema. «Non mi convincono né la bozza Violante né l’impostazione di D’Alema», replica Bindi.
Ma la relazione del segretario, quella sì, è approvata all’unanimità. «Monti non rischia. Però la riforma del lavoro va modificata». E quando il presidente del Consiglio parla dall’Asia citando il Divo Giulio («La riforma va approvata in tempi brevi. Non sono come Andreotti…») e minaccia di fare le valigie («Se il Paese non è pronto il governo potrebbe non restare»), il segretario del Pd replica: «Non sopravvaluto le parole dette oggi da Monti. Gliele ho sentito dire una ventina di volte». La ventunesima è servita.
«Monti ha fregato Bersani», «Non è vero». Le urla nell’anticamera della scissione del Pd.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 22 marzo 2012)
«Il Pd? È un partito finito. Monti ha fregato Bersani. E noi siamo stati dei fessi», dice il deputato Stefano Esposito attraversando nervosamente il Transatlantico.
Lo sfogo del parlamentare torinese, che è un bersaniano doc, offre la rappresentazione plastica di un partito diviso di due tronconi. Che, dopo la svolta del governo sull’articolo 18, hanno le pratiche di divorzio in mano. E che, alla fine dell’iter parlamentare della riforma del welfare, potrebbero davvero prendere due strade diverse. «I patti non erano quelli», prosegue la riflessione di Esposito. «E anche noi, ripeto, siamo stati dei fessi. Ci siamo concentrati sull’attacco a Corrado Passera. Ma non avevamo capito che il vero pericolo sarebbe stata la Fornero».
Tra martedì e ieri, i fedelissimi di Bersani l’hanno ripetuta all’infinito, la storia dei «patti» non rispettati da Monti. E prima di andare a Porta a Porta (troppo tardi per darne conto sul Riformista), il segretario dei Democratici l’ha spiegato privatamente fino allo sfinimento: «Ci era stato garantito che nella riforma dell’articolo 18 sarebbe stata prevista la possibilità del reintegro anche nei casi di licenziamento per motivi economici. Come previsto dal modello tedesco. E io l’avevo assicurato alla Cgil, che avrebbe firmato. Invece…».
Invece, martedì al tramonto, questo comma esce dai radar di Palazzo Chigi. E Monti si precipita in conferenza stampa a dichiarare «chiusa» la questione dell’articolo 18. Aprendo quella resa dei conti che Bersani pensava di poter rinviare a dopo le amministrative.
È furibondo, il leader del Pd. Col governo, certo. Ma anche con chi, come il vicesegretario Enrico Letta e l’ex ministro Beppe Fioroni, aveva già anticipato a caldo il «sì scontato» al provvedimento del governo. «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni», scandisce Massimo D’Alema inviando – dalle telecamere del Tg3 – un messaggio all’ala iper-montiana del Pd. Non foss’altro perché, nell’analisi del presidente del Copasir, il testo della riforma Fornero «è confuso e pericoloso».
Anche le aree di Dario Franceschini e Rosy Bindi annunciano battaglia. Il capogruppo, che invita il governo a fermarsi, esce a prendere una boccata d’aria del cortile di Montecitorio dopo il voto di fiducia sulle liberalizzazioni. «Il governo sta sottovalutando l’impatto che questa riforma avrà nell’opinione pubblica», dice. «Non vorrei che Monti trascurasse il fatto che gli italiani sono un popolo abituato ad avere una rete di garanzie che non può essere smembrata integralmente», aggiunge.
È l’esatto opposto di quello che pensano lettiani e veltroniani. «Lasciamo perdere l’articolo 18 e insistiamo sulla necessità di estendere le tutele ai precari», sottolinea il deputato-economista Francesco Boccia. «In Parlamento dobbiamo impegnarci a migliorare il testo, puntando ad esempio a estendere il reddito d’inserimento a molte più persone», aggiunge.
Giorgio Napolitano prova a gettare acqua sul fuoco dello scontro tra le forze politiche e sindacali. «Attendiamo di vedere come va giovedì (oggi, ndr)», dice il capo dello Stato dalle Cinque Terre. Ma la guerra tra i «due Pd», nel frattempo, s’è già trasformata in uno psicodramma.
Nella sala di Montecitorio che porta il nome di Enrico Berlinguer, dove di solito si riunisce l’assemblea dei parlamentari del Pd, nel pomeriggio va in scena un seminario a porte chiuse sul lavoro. Era in programma da tempo. Il destino ha voluto che si celebrasse proprio ventiquattr’ore dopo la riunione decisiva di Palazzo Chigi sulla riforma del welfare. «Non è detto che voteremo a favore. Questo provvedimento è un errore», dice il parlamentare Paolo Nerozzi, già uomo-macchina della Cgil. «Anche se dovessero mettere la fiducia, il mio voto non sarebbe scontato», gli fa eco l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. A favore del tandem Monti-Fornero intervengono invece Tiziano Treu e Pietro Ichino. «Non avete capito. Fatemi spiegare meglio», insiste quest’ultimo nel tentativo di mettere a fuoco i vantaggi che la riforma porterà ai lavoratori italiani. È il momento in cui arrivano le urla. La deputata Teresa Bellanova, arrivata in Parlamento nel 2006 dopo trent’anni nel sindacato di Corso d’Italia, perde la pazienza: «Allora, caro Ichino, non è che noi non abbiamo capito. È che non siamo d’accordo né con quello che dici né con la riforma del governo. Te lo vuoi mettere in testa oppure no?». E il fantasma della scissione sembra avvicinarsi. Sempre di più.
Quel «Forza Riformista» che seppellisce Gasparri e quella zona grigia che sta tra la categoria del «nero» da quella del «rosicone»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 10 marzo 2012)
«Forza Riformista». E la Rete si tinge d’arancione. Perché è «una voce libera per la democrazia», scrive su Twitter il presidente della Camera Gianfranco Fini. Perché «se chiude il Riformista non me ne farò una ragione», aggiunge Pier Luigi Bersani. E poi, in ordine sparso, intervengono Franco Frattini e Walter Veltroni, Dario Franceschini ed Enrico Letta, Anna Finocchiaro, Fabio Granata, Roberto Rao, Carmelo Briguglio. E altri ancora. Prima decine, poi centinaia. E forse di più. Tutto il Pd, tutto il Terzo Polo, un pezzo del Pdl, la Cgil, la Fnsi. Insieme contro il visto si chiuda indirizzatoci giovedì da Maurizio Gasparri. Col silenzio complice del segretario del suo partito, Angelino Alfano.
Avesse cantato Una carezza in un pugno, o potuto contare su una platea di dieci milioni di telespettatori, lo avremmo paragonato ad Adriano Celentano. Invece con Maurizio Gasparri bisogna sempre sempre scavare tra le tante tonalità di grigio che separano la categoria del «nero» da quella del «rosicone».
Come l’Adriano che nella prima serata di Sanremo aveva caldeggiato la chiusura di Famiglia Cristiana e Avvenire, salvo poi sostenere nell’ultima che «dire andrebbero chiusi non significa esercitare una forma di censura», anche Gasparri si cimenta nell’esercizio semantico tipico di chi lancia la pietra e poi fa ciao ciao con la manina. Giovedì sera, intervenendo ai lavori della scuola di formazione del Pdl, il capogruppo del partito «dell’amore» (sic!) e «della libertà» (idem) ha messo a verbale che «quando chiude un giornale ci si dovrebbe rammaricare». Al contrario, ha aggiunto, «quando chiuderà il Riformista ce ne faremo una ragione».
Ieri – dopo essere stato attaccato da Pd, Terzo Polo e persino da esponenti del suo partito, senza dimenticare la Fnsi e la Cgil – Gasparri è passato alla fase due. «Non mi sono augurato la chiusura di un giornale», ha detto. Poi ha aggiunto: «Ho criticato la vergognosa campagna contro Alfano e il Pdl condotta da un quotidiano notoriamente in crisi per mancanza di lettori». E quindi ha tirato le somme: «La polemica, nata dalle errate interpretazioni alle mie parole, ha creato pubblicità a un giornale che così potrà aumentare il numero delle copie vendute, temo comunque poche».
Fatto salvo il suo diritto di critica, si scopre che nel Favoloso mondo di Gasparrì, che è in fondo lo stesso in cui bazzica da quando portava la camicia nera, se osi criticare è meglio che la tua bocca finisca per chiudersi. O ancora, se scrivi che nel Pdl di Alfano si celebrano congressi truccati con iscritti reclutati financo al cimitero e pacchetti di tessere false, e lo fai da una «notoria» posizione di crisi da «mancanza di lettori», allora ti meriti l’adesivo «vergognoso». Ci sfugge il nesso, ma tant’è.
Certo è che dal virus della vergogna, evidentemente, è immune Angelino Alfano. Lesto nel disertare il supervertice con Monti accampando scuse che lontanamente avevano a che fare col rapporto tra politica e informazione (il suo «Non parlo di nomine Rai» riferito al premier avrebbe nobilitato anche la campagna del tandem Scilipoti-Sara Tommasi contro il signoraggio bancario), di fronte all’attacco del presidente dei senatori del suo partito al Riformista ha preferito tacere. Un silenzio complice. Nenti sacciu. Nenti vitti. Anzi, se c’è qualcosa che «Angelino» ha saputo o visto dell’intervento di «Maurizio» a Orvieto, quella – citiamo dal suo Twitter – è la conferma che «il Pdl deve aprirsi alla tecnologia e diventare il partito della rete». Per cui, ha cinguettato il segretario, «bene Gasparri».
Non la pensano come loro i tanti che, di fronte al «ce ne faremo una ragione» che Gasparri ha legato alla possibile chiusura del Riformista, hanno avuto qualcosa da ridire. A cominciare dalla terza carica dello stato, Gianfranco Fini. «Forza Riformista. Una voce libera per la democrazia», ha scritto su Twitter il presidente della Camera, aggiungendo il suo messaggio a quello delle centinaia di persone che hanno dato vita sul web a una campagna perché questo giornale si salvi. «Quando si chiude un giornale è sempre un problema per la democrazia», mette nero su bianco Franco Frattini. «Se poi si chiama Riformista», aggiunge l’ex ministro degli Esteri, «è un problema ancor maggiore, perché si occupa anche di problemi di politica italiana e internazionale». E ancora, sempre Frattini: «Mi auguro che si possa ancora evitare la chiusura. Quando una testata scompare è sempre un problema. E direi la stessa per Liberazione o manifesto». «Spero che Gasparri si renda conto della gravità delle sue parole», dice Giorgio Stracquadanio. «Per il Riformista vale la massima di Voltaire: non condivido le tue idee ma difendo il tuo diritto a esprimerle», spiega Isabella Bertolini. «Forza Riformista», scrivono le deputate pidielline Nunzia De Girolamo e Barbara Saltamartini. Si fa sentire anche un leghista, l’ex sottosegretario all’Interno dell’ultimo governo Berlusconi, Michelino Davico: «A tutti i redattori e ai collaboratori. Forza Riformista».
Col Riformista si schiera, compatto come non lo era da tempo, tutto il Partito democratico. Che risponde in massa alla provocazione di Gasparri. Pier Luigi Bersani si fa fotografare iPad alla mano mentre twitta che «a differenza di Gasparri, se chiude il Riformista non me ne farò una ragione. Forza, tutti assieme». E tutti assieme è stato. Da Walter Veltroni («Con il Riformista contro chi, come Gasparri, auspica la chiusura dei giornali che non gli piacciono») a Enrico Letta («Gasparri contro il Riformista? Forza Riformista), da Dario Franceschini («Aspettiamo l’intera “lista Gasparri” dei giornali da chiudere. Ed è stata ministro delle comunicazioni…») ad Anna Finocchiaro («Forza Riformista per il diritto all’informazione di tutti. Anche di Gasparri»). E poi, Matteo Orfini e Francesco Verducci, Marina Sereni, Francesco Boccia, Pina Picierno, Antonello Giacomelli, Katia Pinotti, Vincenzo Vita e Michele Meta.
Anche il Terzo Polo stronca l’intervento del capogruppo del Pdl al Senato. «Gasparri è molto più oscurantista che riformista», sostiene Roberto Rao. «Se chiude il Riformista sarà una perdita per la democrazia», aggiunge il finiano Carmelo Briguglio. Arrivano anche Fabio Granata («Da Gasparri parole gravi»), l’associazione Articolo 21, l’indipendente italvalorista Pancho Pardi e il segretario della Fnsi Franco Siddi («Sulla chiusura dei giornali, Gasparri ha rigurcito fascista»). E anche la Cgil. «La chiusura del Riformista sarebbe inaccettabile e assolutamente da scongiurare», afferma a nome del sindacato di Corso d’Italia il segretario confederale Fulvio Fammoni. Secondo cui il nostro quotidiano è «una voce preziosa per la democrazia di questo Paese, soprattutto per l’attenzione posta sul mondo del lavoro, visti i trascorsi del suo direttore Macaluso».
Ma a Gasparri, che comunque afferma di leggere il Riformista tutti i giorni, tutto questo interessa poco. Forse nulla. Se si chiude, se ne farà una ragione. «Vola come una farfalla, pungi come un’ape», diceva Muhammad Ali. «Maurizio», se lo punge l’ape, grida aiuto e invoca soccorsi dall’alto. Come quando nell’ottobre del 2010, dopo che il Riformista aveva raccontato di una violenta lite (con tanto di bestemmia volante) tra Fabrizio Cicchitto e Ignazio La Russa – e sì che all’Hotel de Russie c’era anche Gasparri, che parteggiava per per il primo – il Nostro ci aveva archiviati alla voce «giornale disinformato e mentitore». Avvertendoci che, testualmente, «siamo stanchi di replicare a dei bugiardi professionali». Infine, evidentemente evocando un intervento dell’onorevole pidiellino Antonio Angelucci (al Riformista, all’epoca, c’era un’altra proprietà), aveva concluso: «Credo che l’editore, il direttore e il giornalista di quel giornale debbano vergognarsi e chiedere scusa». Non disturbare il manovratore ché sennò ti fai male. Non levarmi il pallone altrimenti te lo buco. Sempre là, in quella zona grigia che parte dalla categoria del «nero» e arriva a quella del «rosicone».
Di conseguenza sì, l’abbiamo capito e abbiamo provato a spiegarlo perché Gasparri si farà una ragione se il Riformista chiude. Peccato per il senatore, e per chi dentro il Pdl “copre” le sue minacce, che questo giornale continuerà a pungere come un’ape. E, se possibile, a volare come una farfalla. Sugli spalti ci sono quelli che sulla Rete gridano «Forza Riformista». E anche chi, come la cantante Nina Zilli, conclude la nostra giornata dedicandoci su Twitter il ritornello scritto della sua ultima hit sanremese. Testuale: «Per sempreeeeeeeeeeee politically correct».
Lo spettro del bis di Napoli. Palermo apre l’ultima conta nel Pd.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 marzo 2012)
«Leoluca Orlando vuole candidarsi a sindaco. Là finisce male». Il peggiore degli incubi di Pier Luigi Bersani prende forma alle 8 di sera, prima che a Palermo finiscano di controllare i verbali del voto che ha premiato Fabrizio Ferrandelli.
Per il leader del Pd è il giorno più duro da quando è alla guida del partito. Il giorno in cui la resa dei conti sul futuro della «ditta» – si va col centrosinistra alle elezioni del 2013 oppure si punta sul replay del governo Monti? – entra ufficialmente nel vivo.
Quando guadagna l’ingresso del centro congressi di Piazza Montecitorio per partecipare insieme a Pierferdinando Casini alla presentazione di un libro su Angelo Vassallo, Bersani prova un estremo tentativo di mediazione. «Le primarie vanno fatte», certo. «Ma si devono fare meglio». Segue citazione presa in prestito dal mastodontico bouquet di Mao, «le primarie non sono un pranzo di gala». Fino alla stoccata con cui prova a rispondere a chi – dai veltroniani ai lettiani – aveva chiesto sin dalla mattinata l’archiviazione definitiva dell’alleanza con Italia dei Valori e Sinistra e libertà. «Non so cosa c’entri la foto di Vasto con Palermo», mette a verbale «Pier Luigi».
Tutto inutile. Neanche un’ora dopo, in un’intervista rilasciata al Tg3, il vicesegretario riapre la contesa. «Dopo il Governo Monti nulla sarà più come prima», scandisce Letta. «Il tema di Vasto è messo da parte come tutto ciò che appartiene alla fase precedente al governo Monti. A mio avviso l’errore della Borsellino è stato quello di dire chiaramente che lei stava dentro quello schema politico. Penso si debba essere molto più attenti e molto più larghi».
È l’apertura ufficiale di una crisi che, nella migliore delle ipotesi, porterà il partito a una conta. E, nella peggiore, a una scissione. Veltroni, che gioca di sponda con Letta, per adesso tace. Ma ai suoi collaboratori più stretti l’ex segretario ha affidato parole chiare: «Non possiamo andare avanti in questo stato di incertezza. Ma vi pare normale che il Pd non sia riuscito a sciogliere una volta per tutte il tema del sostegno del governo Lombardo in Sicilia? Serve un chiarimento immediato». La convocazione della Direzione, che Giorgio Tonini chiede di buon mattino. Oppure, è la soluzione indicata da «Walter», quella «di un’assemblea nazionale».
Impossibile, dopo Palermo, nascondere la polvere sotto un tappeto. «Vasto, non Vasto… Al tempo giusto le alleanze nella politica di domani non potranno non farsi sui sì e sui no alle varie politiche di governo oggi», insiste Letta. «Il Pd chiuso a sinistra perde la sua sfida riformista», incalza il veltroniano Walter Verini. «Il problema del Pd è nazionale. Discutiamone», aggiunge Paolo Gentiloni.
I bersaniani provano a reagire colpo su colpo. «È indecente che si cerchi di strumentalizzare i risultati delle primarie di Palermo per vicende nazionali», è la replica piccata del giovane responsabile Cultura Matteo Orfini. Bersani, tolta l’apparizione pubblica alla presentazione del libro su Vassallo, sceglie il silenzio. Ma gli uominidella sua segreteria ne hanno per tutti. Per Sergio D’Antoni e per il segretario siciliano Giuseppe Lupo, che avrebbero minato alle fondamenta «ogni possibilità di accordo con l’ala del Pd che sosteneva Ferrandelli» (e il governatore Lombardo). Per Enrico Letta, che avrebbe dirottato «i suoi voti nel capoluogo al candidato che ha sconfitto la Borsellino». E soprattutto per Leoluca Orlando, che «in queste ore starebbe meditando di candidarsi a sindaco».
Fossero confermati i più oscuri presagi del segretario e della sua cerchia ristretta, il Pd si troverebbe di fronte a uno scenario addirittura peggiore di quello che si materializzò a Napoli l’anno scorso, quando la sfida tra Cozzolino e Ranieri venne annullata per far spazio alla candidatura del prefetto Morcone, scalzato poi da Luigi de Magistris al primo turno. E i segnali che arrivano dall’Isola vanno in questa direzione. Bersani dice che il Pd sosterrà il vincitore delle primarie? Orlando, intervistato dalla trasmissione di RaiTre Agorà, insiste sulle «primarie truccate» e rilancia: «Comunque vada noi sosteniamo e sosterremo Rita Borsellino». È l’inizio dell’ultima grande guerra. Il tutto mentre, a Palermo, la vittoria di Ferrandelli sta per essere ufficializzata. Anche se, ammettono dal comitato del giovane candidato, Borsellino potrebbe impugnare l’arma dei ricorsi. «Magari rivolgendosi direttamente al Tar…».
Passera vuole l’accordone, la Confindustria pure. Sul welfare Bersani ora spera nell’happy end.
di Tommaso Labate (dal Riformista di del 24 febbraio 2012)
Quando Pier Luigi Bersani varca il portone di Palazzo Chigi per il faccia a faccia con Mario Monti (terminato poco prima della chiusura del Riformista), sul dossier «lavoro» tra i suoi fedelissimi trapela un ottimismo forse imprudente ma tutt’altro che cauto. È come se, all’improvviso, il leader Pd si sia convinto che il presidente del Consiglio non arriverà alla rottura.
Nel braccio di ferro con l’esecutivo, il segretario del Pd non molla di un millimetro. Certo, Bersani si muove con la consapevolezza di chi non può permettersi di aprire la crisi con Monti. Ma il messaggio che invia al premier di buon mattino, rivolto anche al fronte grancoalizionista del Pd (da Walter Veltroni a Enrico Letta, passando per la new entry Dario Franceschini), è chiaro. «Trovo del tutto assurdo, immotivato e infondato il tema Monti sì-Monti no», scandisce il leader dei Democratici. «Monti sì. L’abbiamo detto e voluto», aggiunge. Ma, conclude, sul «patto di lealtà» che lega il Pd a Super Mario, almeno dal punto di vista di Bersani, c’è anche la data di scadenza: 2013. «Abbiamo intenzione di aiutare questo governo, rispetto al quale c’è un patto di lealtà che non verrà meno» e «che deve durare fino alla fine della legislatura». Sottotesto, “non un minuto di più”.
Il segretario del Pd nega le divisioni interne. «Non ci sono spaccature nel Pd». E lo stesso fa Rosy Bindi, altra nemica della Grande Coalizione, che camminando nel Transatlantico di Montecitorio scandisce: «Noi non ci di-vi-de-re-mo». Entrambi, però, sanno che il grande elemento di divisione riguarda il 2013. Ma tutti e due sono, nelle ultime ore, molto più tranquilli sul grande fronte che riguarda la riforma del Welfare e soprattutto l’articolo 18. Domanda: perché sperare in una riforma sottoscritta da tutti i sindacati (Cgil compresa) quando le premesse – soprattutto dopo gli ultimi interventi di Monti e della Fornero – vanno nella direzione opposta?
Tra i fedelissimi del segretario circola voce di uno o più contatti telefonici in cui il presidente del Consiglio, nel preparare il faccia a faccia di ieri sera, avrebbe rassicurato Bersani sull’happy end di tutta la trattativa. In fondo, si tratta della stessa tesi del pidiellino Guido Crosetto, convinto che «alla fine si tratterà di una riforma light, in cui magari si deciderà che il numero minimo di dipendenti delle aziende per cui verrà applicato l’articolo 18 passa da 15 a 18, al massimo 20».
Ma c’è dell’altro. A quartier generale del Pd hanno fiutato che, proprio sulla riforma del lavoro, c’è una spaccatura dentro l’esecutivo. Una spaccatura tra chi, come Elsa Fornero, è disposta ad andare avanti anche senza il consenso di tutte le parti. E chi, come Corrado Passera, insiste sull’importanza di trovare – come ha detto il titolare dello Sviluppo economico in una riunione – «l’accordo con tutti i sindacati, a cominciare dalla Cgil».
Strana la partita di Passera. È considerato il più vicino al centrodestra di tutti i ministri; eppure, come ha confidato a qualche amico il leader della Cgil Susanna Camusso, «è l’unico membro del governo con cui si può parlare serenamente». E non è tutto. A molti è sfuggito che, alla fine della delicata vertenza della Fincantieri di Genova, risolta grazie all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, l’ex capo operativo di Intesa-Sanpaolo ha incassato (insieme a Giorgio Napolitano, naturalmente) nientemeno che l’applauso della Fiom.
Non c’è soltanto Passera a tranquillizzare i sonni del Pd su welfare e articolo 18. Anche Giorgio Squinzi, il favorito nella corsa (l’altro competitor è Alberto Bombassei) alla presidenza della Confindustria, è molto cauto sul dossier. Al punto che ieri ha messo a verbale che sì, «l’articolo 18 è un’anomalia tutta italiana». Ma, ha concluso, «non è l’unico problema né quello più importante».
Basteranno i dubbi di Passera e la posizione di Squinzi a blindare una riforma che non provochi una frattura tra governo e parti sociali? Chissà. Di certo c’è che Monti metterà mano all’articolo 18 perché, come ha spiegato agli altri ministri, «ce lo chiede l’Europa». In fondo, per il momento, anche Bersani si fida: «Il presidente del Consiglio ha davvero l’intenzione di trovare una soluzione condivisa da tutti».
La guerra sulla Grande Coalizione. Nel Pd s’aggira l’incubo della scissione.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 22 febbraio 2012)
Evidentemente l’argomento non è più tabù. Infatti anche un veterano come Pierluigi Castagnetti, passeggiando in Transatlantico, ammette che «i presupposti» di una scissione nel Pd «ci sono tutti». Perché altro che articolo 18. Il vero scontro tra i Democratici è sulla Grande coalizione.
L’ex segretario del Ppi ne parla con la cura di chi comunque evita di pronunciarla, la parola «scissione». Eppure basta un’ordinaria giornata a Montecitorio per capire come il Pd sia ormai diviso in due partiti. Che difficilmente continueranno a marciare uniti. Il primo, guidato da Pier Luigi Bersani, è pronto a negare al governo Monti il sostegno a qualsiasi riforma del mercato del lavoro che non abbia il disco verde della Cgil. Lo dice, senza nemmeno troppi giri di parole, il segretario stesso al Tg3: «Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo», tesi che però rappresenta l’orientamento messo nero su bianco da Mario Monti. Di conseguenza, aggiunge, il «sì alla riforma è tutt’altro che scontato».
E poi c’è l’altro Pd. Quello di Walter Veltroni e di Enrico Letta, che lavora a un progetto di Grande coalizione costruito attorno a Monti anche nella prossima legislatura. Uno schema che, però, comincia a fare breccia anche in altre aree del partito.
Dario Franceschini, ad esempio, è un altro di quei dirigenti che sta per mostrare le sue carte. Prima di Natale il capogruppo a Montecitorio era stato il primo ad “aprire” a una riforma elettorale di tipo proporzionale, la stessa che consentirebbe alle forze politiche di imbastire una Grande coalizione attorno a Monti anche dopo le elezioni. Adesso l’ex segretario si spinge oltre. E, pur senza entrare nelle disputa aperta da Walter Veltroni domenica su Repubblica, fa un altro passo nella direzione di SuperMario. «Da qualche tempo», confidava ieri Franceschini a Montecitorio, «quando vado alle iniziative del Pd in cui so che non ci saranno giornalisti, mi metto a fare alcuni test. Dico sul governo delle cose che non penso, per vedere come reagiscono i nostri. Credetemi, stanno tutti con Monti. La sua popolarità tra la nostra gente è alle stelle». È il segnale che «Dario» sta per accodarsi all’area “grancoalizionista” di cui fanno parte, tra gli altri, «Enrico» e «Walter»? Chissà.
Massimo D’Alema rimane defilato. Ieri mattina, a margine di un convegno, ha archiviato alla voce «disputa priva di senso» il dibattito sul tema «Monti è di destra o di sinistra?». Eppure, nella cerchia ristretta dei dalemiani (di cui non fa più parte Matteo Orfini, ormai convertito al bersanismo ortodosso), c’è chi discute apertamente dell’ipotesi di lasciare che Monti rimanga a Palazzo Chigi per qualche anno ancora. È il caso del deputato lucano Antonio Luongo, dalemiano di lungo corso, che immagina per il 2013 un remake del film andato in scena nel 1946. «Parliamoci chiaro, la politica deve rendersi conto che nella prossima legislatura ci dev’essere l’Assemblea costituente. I partiti devono occuparsi della grande riforma istituzionale lasciando che Monti lavori almeno fino al 2015 per superare definitivamente la crisi economica».
Senza saperlo (oppure no?), Luongo cita quello stesso schema su cui i “grancoalizionisti” di Pd, Pdl e Terzo Polo (Berlusconi compreso?) stanno lavorando. Una strategia che parte dalla riforma elettorale ispano-tedesca. Si scardina l’attuale bipolarismo e le coalizioni si presentano alle urne sapendo già che il presidente del Consiglio sarà uno dei Professori attualmente in sella. In pole position c’è Monti. In subordine, visto che SuperMario potrebbe essere coinvolto nella corsa al Quirinale, Corrado Passera (gradito soprattutto al centrodestra) o qualche «Mister X» che alcuni (leggasi Veltroni) avrebbero già individuato in Andrea Riccardi.
Fantapolitica? Tutt’altro. Non a caso Rosy Bindi, che nella partita sta con Bersani, lascia l’assemblea del gruppo parlamentare del Pd furibonda come non mai. «No alla Grande coalizione. Un anno e mezzo di Monti è più che sufficiente», mette a verbale alla fine della riunione. E visto che la tela dei grancoalizionisti parte proprio dalla riforma elettorale, ecco che «Rosy» si oppone. Il sistema ispano-tedesco? «Se è questo l’accordo, allora è contrario alla nostra storia e alle deliberazioni del nostro partito, che verrebbe così mortificato in maniera inaccettabile».
Da dove comincerà la causa di divorzio tra le due anime del Pd? Dall’articolo 18 e dal «no» di Bersani a Monti. Oltre alla rissa sull’annunciata (durante la trasmissione Omnibus, su La7) partecipazione di Stefano Fassina alla manifestazione della Fiom del 9 marzo. «Non è in linea col sostegno del Pd a Monti», dice il veltroniano Stefano Ceccanti. «Il Pd non è con chi contesta Monti», aggiunge Andrea Martella. «Fassina non può stare col governo e con la Fiom», conclude il lettiano Marco Meloni. E la ruota continua a girare.
Bersani anticipa la candidatura a premier con un tour per l’Italia. Nel Pd s’affaccia lo spettro della scissione.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 21 febbraio 2012)
Il tempo della sfida a colpi di interviste, dicono i suoi, è finito. La risposta di Bersani a Veltroni su Monti, l’articolo 18 e il futuro del Pd arriverà tra pochi giorni. E non sarà su un giornale. Perché il segretario, di fatto, è pronto ad anticipare la sua candidatura a premier nel 2013. Con un «viaggio in Italia».
Forse l’intervista rilasciata domenica da Veltroni a Repubblica – in cui l’ex leader dei Democratici ha praticamente esplicitato l’ipotesi di replicare lo schema Monti anche nel 2013, oltre ad “aprire” alle modifiche dell’articolo 18 – sarà ricordata come l’«incidente di Sarajevo» che darà il la all’ultima guerra mondiale del Pd. Anche perché ormai dietro le quinte è rimasto ben poco. È tutto sulla scena. Bastava vedere la prima pagina dell’Unità di ieri, con quel titolo a caratteri cubitali, «Duello nel Pd». Oppure studiare come la mappa dei poteri interni al partito s’è modificata. Bersani, i suoi fedelissimi, probabilmente Rosy Bindi, quelli del Pd «modello Pse», insomma, da un lato. Walter Veltroni, Enrico Letta e i sostenitori del «progetto Monti bis», dall’altro. E in mezzo quell’enorme zona grigia di chi per i motivi più disparati – da Dario Franceschini a Massimo D’Alema, fino a Matteo Renzi – sta aspettando il momento giusto per posizionarsi sulla scacchiera.
Bersani non ha intenzione di farsi logorare. Perché sa benissimo, come ha sottolineato Veltroni via Twitter, che «il problema non è l’articolo 18». Il problema è «il giudizio su Monti». E il giudizio che dà «Pier Luigi» dell’esperienza dei Professori è molto diverso da quello di «Walter» o «Enrico». Infatti domenica, dopo aver smaltito la collera che gli derivava dalla lettura dell’intervista veltroniana, il segretario ha rotto gli indugi. «Qualcuno non s’è reso conto che questo Paese è ancora nei guai. Siamo in piena emergenza», è stato il ragionamento svolto prima di “autorizzare” la piccata replica di Stefano Fassina a Veltroni. E ancora: «Altro che modifiche all’articolo 18. Al di là di quanto dicono alcuni dei nostri», secondo riferimento alle parole dell’ex sindaco di Roma, «la situazione non è migliorata. Da una crisi del genere non si esce mica in tre mesi».
Da qui l’idea di passare dalle parole ai fatti. Di passare dal dibattito interno alimentato a colpi di documenti o interviste a una vera e propria campagna elettorale. Questione di ore, forse di giorni: sta di fatto che prima del week-end Bersani annuncerà le tappe di un suo «viaggio in Italia», che potrebbe cominciare già la settimana prossima. Chi ha visto i suoi appunti anticipa che il leader del Pd andrà di persona «nei luoghi della crisi»: dai paesini colpiti dalla recente alluvione in Liguria alle città più sensibili all’emergenza economica (Piombino, Torino, Venezia), passando per le industrie che rischiano la chiusura. Il senso della missione, che dice molto del giudizio che il leader del Pd dà dell’operato del governo Monti, è più o meno questo: «Andrò dove l’esecutivo non s’è fatto mai vedere».
Il «viaggio in Italia» di Bersani non è una semplice marcia d’avvicinamento alle amministrative di quest’anno o alle politiche dell’anno prossimo. No. Si tratta della mossa con cui il leader del Pd renderà evidente oltre ogni ragionevole dubbio la sua intenzione di correre alla guida del centrosinistra alle elezioni del 2013. «E coi galloni di candidato premier», sottolineano i suoi. Una mossa che, ovviamente, è destinata a scatenare un putiferio.
Perché basta vedere l’incendio innescato dal botta e risposta Veltroni-Fassina su Monti e l’articolo 18 per comprendere il livello di tensione che c’è nel partito. Il deputato-economista lettiano Francesco Boccia, che teoricamente starebbe nella maggioranza bersaniana, difende «Walter»: «Gli attacchi di Fassina e Vendola a Veltroni sono stati indecenti. Questo significa giocare sporco, provare a estremizzare il conflitto sociale. Un esercizio molto pericoloso». «Il partito di Monti si farà, con o senza Monti», mette a verbale Beppe Fioroni. «Concordo con Veltroni: il punto cruciale è l’appoggio a Monti», ha commentato Marco Follini. Altro che «scricchiolii», come li chiama Pier Ferdinando Casini. Perché, spiega un membro della segreteria del Pd, «se in Parlamento arriva una riforma del welfare non sottoscritta pure dalla Cgil, in quel caso molti dei nostri non la voterebbero nemmeno con la fiducia». Se mai questo momento arrivasse, un minuto dopo al quartier generale del partito il dibattito sarebbe monopolizzato da un concetto molto semplice. Che non è «articolo 18». Ma «scissione».
Monti premier o foto di Vasto. Il Pd (e anche Angelino Alfano) si gioca tutto a Palermo.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 febbraio 2012)
Dal tramonto di «Roma 2020» all’ascesa di «Palermo 2012». Nei giorni in cui la Capitale ha visto sfumare il sogno olimpico, il capoluogo siciliano s’è guadagnato la finalissima di una partita che probabilmente segnerà le sorti della politica italiana. Perché stavolta non si tratta solo di delineare una semplice tendenza. Stavolta dalle urne palermitane potrebbe venir fuori, oltre al sindaco della città, anche l’assetto con cui i partiti si presenteranno alle elezioni del 2013.
L’ha capito benissimo Angelino Alfano, che la settimana scorsa s’è presentato da Pier Ferdinando Casini invocando il soccorso del Terzo Polo. Perché «le cose in Sicilia si stanno mettendo male». E soprattutto, ha aggiunto il leader del Pdl, «perché se perdo le amministrative sono morto, nel partito mi sbraneranno i falchi». Ma l’ha capito anche Pier Luigi Bersani. Consapevole che, tra le primarie del 4 marzo e le elezioni vere e proprie, la sua leadership si trova di fronte a un campo minato che non ammette remake del film andato in scena a Genova. Uno degli uomini più vicini al segretario del Pd la spiega così: «Cominciamo dalle primarie. Se vince la Borsellino diranno che è merito di Vendola. Se perde, invece, si dirà che è colpa nostra». E non è tutto. Se la Borsellino vince le primarie e perde le elezioni, «allora gli oppositori interni faranno a gara per sottolineare come il centrosinistra senza il Terzo Polo non va da nessuna parte. Non ci resta che sperare nel filotto. Rita che vince le primarie, Rita che diventa sindaco».
Forse sia i fedelissimi di Alfano sia i bersaniani difettano d’ottimismo. Ma una cosa è certa: tanto «Angelino» quanto «Pier Luigi» si aspettano che, da un’eventuale sconfitta di Palermo, possa scaturire un terremoto nei rispettivi partiti. Il che vorrebbe dire «licenziamento in tronco» nel caso del primo, la cui leadership è già ammaccata dal caso delle tessere false nel congresso; e l’apertura di un percorso che porterà al congresso anticipato nel caso del secondo. Con Casini che rimane alla finestra pronto ad accogliere tutti coloro (e ce ne sono, sia nel Pdl che nel Pd) che puntano a replicare la grande coalizione attorno a Monti anche nella prossima legislatura.
Che a Palermo si finirà a schifìo, per usare la sintesi di una video-ricostruzione che Pietrangelo Buttafuoco ha affidato al sito del Foglio, lo si capisce dalle intricatissime condizioni di partenza. E dal fatto che le formazioni ai blocchi di partenza dipenderanno dalle altrettanto intricate primarie del Pd del 4 marzo. Il tridente Bersani-Vendola-Di Pietro sostiene Rita Borsellino. I Democratici che spingono per mantenere in vita il patto regionale col governatore Raffaele Lombardo (da Giuseppe Lumia ad Antonello Cracolici) puntano invece sulla candidatura del trentenne Fabrizio Ferrandelli, che viene dall’Italia dei Valori. In pista c’è anche Antonella Monastra, consigliere comunale molto in vista in città, ex sostenitrice della Borsellino. E soprattutto un outsider di lusso, il deputato all’Assemblea regionale Davide Faraone, che conta sulla sponsorizzazione di Matteo Renzi (oggi il sindaco di Firenze sbarcherà a Palermo) e su una parte dei voti della Cgil.
In Sicilia dicono che, in caso di vittoria della Borsellino, l’ala “lombardiana” (nel senso di Raffaele) del Pd potrebbe abbandonare la casa madre (Cracolici, però, ha preventivamente smentito) per sostenere il candidato del Terzo Polo (il presidente del Coni regionale Massimo Costa?). Sia come sia, solo a quel punto il Pdl potrebbe dare il disco verde alla candidatura di Francesco Cascio. E non è tutto. La campagna delle primarie del centrosinistra è partita nel peggiore dei modi. Faraone, che a tutti gli effetti è l’unico iscritto al Pd della coalizione, ha denunciato i finanziamenti del partito nazionale alla campagna della Borsellino. E Renzi, oggi, potrebbe rilanciare quelle stessa accuse che, tra l’altro, hanno già fatto breccia tra i veltroniani.
Il sito Qdr.it (Qualcosa di riformista), pensatoio di riformisti vicini a «Walter», si chiedeva ieri: «Il Pd bara a Palermo? È vero che alle primarie il Pd finanzia la Borsellino contro Faraone, cioè una che non è del Pd contro uno che è del Pd?». Il tesoriere Antonio Misiani ha messo nero su bianco una smentita ufficiale. Ma l’;accenno di polemica è la spia che questa partita, che non è ancora neanche iniziata, può provocare un terremoto. E decidere, paradossalmente, quale partito tra Pdl e Pd franerà per primo. Aprendo definitivamente il dibattito sul replay nel 2013 di Monti a Palazzo Chigi.
Dall’articolo 18 al caso Lusi. Venti di guerra tra «i due Pd».
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’8 febbraio 2012)
Dall’articolo 18 al caso Lusi, passando per l’«operazione 2013» con cui un pezzo di partito – i principali indiziati sono Veltroni e Letta – punterebbe a lanciare la candidatura a premier di Mario Monti alle prossime elezioni. Il Pd sembra sull’orlo di una guerra civile. E Bersani scende in campo.
Finora il segretario del Pd aveva preferito rimanere alla larga dalle polemiche interne. Pur sapendo che – come aveva spiegato ai fedelissimi – «c’è un pezzo del partito che lavora contro la segreteria». Da ieri, però, lo scenario è cambiato. E il leader democratico ha deciso di cambiare registro, tra l’altro in concomitanza con l’apertura del tavolo sulla riforme e la legge elettorali («Nessun inciucio col Pdl, se son rose fioriranno», ha chiarito in serata alla trasmissione Otto e mezzo).
Intervistato da Goffredo de Marchis di Repubblica, Bersani ha diramato l’avviso ai naviganti. E sapendo che c’è un pezzo di partito che lavora per tirare la volata a una nuova premiership di Monti l’ha detto chiaro e tondo: «Non si può andare avanti in campagna elettorale proponendo governissimi. Anzi». E ancora: «Lo stesso percorso di certe leggi che stiamo approvando adesso ci dice che una vera opera di riforme e di ricostruzione devi farla chiedendo un impegno al corpo elettorale».
Lo schema di Bersani è semplice. Mantenere l’impianto bipolare del sistema politico e arrivare al 2013 pronto per la sfida elettorale contro il centrodestra. D’altronde, insiste, «il percorso è il solito. Il patto di coalizione e qualche mese prima dell’appuntamento elettorale, né troppo presto né troppo tardi, le primarie». A cui, è il sottotesto, «Pier Luigi» ha intenzione di partecipare, tra l’altro coi galloni del “predestinato” alla vittoria finale.
Ma questo schema va bene all’ala iper-montiana del Pd? Tutt’altro. Letta e Veltroni, insieme ai rispettivi colonnelli, continuano a insistere sulla fine della «foto di Vasto» e a caldeggiare l’addio definitivo al centrosinistra versione short con Di Pietro e Vendola. E, nell’attesa che il confronto governo-sindacati sulla riforma del welfare entri nel vivo, teorizzano la possibilità di rinunciare all’articolo 18. Al contrario, i fedelissimi di Bersani vogliono chiudere ogni spiraglio all’alleanza col Terzo Polo (l’ha detto chiaramente il responsabile Cultura Matteo Orfini in un’intervista rilasciata al Foglio quasi due settimane fa). E preparano la trincea per difendere ad oltranza le posizioni di Susanna Camusso.
Il divorzio tra «i due Pd» è visibile anche sui giornali legati al partito. Europa, diretta da Stefano Menichini, sostiene l’operato del governo Monti con pochissimi se e qualche piccolo ma. Al contrario l’Unità del direttore Claudio Sardo serve per colazione ai Professori un quotidiano tocco di un fioretto che, all’occorrenza, si trasforma in sciabola. Sabato scorso, lo strappo del presidente del Consiglio sull’articolo 18 è stato salutato con col titolo «I cattivisti», a corredo di una foto della coppia Monti-Fornero. E persino sul maltempo, lunedì, il quotidiano fondato da Gramsci ha bacchettato – in un editoriale che partiva sempre dalla prima pagina – «il governo degli assenti».
Anche a prescindere dall’Unità, le continue perplessità dei bersaniani sul governo sono ormai sul banco imputati. Il giovane deputato Andrea Martella, vicino a Veltroni, la mette così: «Chiunque si mostra timido nel sostegno al governo Monti fa un regalo a Berlusconi. Perché se noi ci dividiamo, lui ne approfitta per mettere il cappello sull’operato dell’esecutivo e per compattare i suoi». È l’ennesimo piccolo segnale di una guerra che è uscita dai “dietro le quinte” per arrivare sulla scena. Come nel caso del “cinguettio” con cui Francesco Boccia ha commentato l’intervista rilasciata domenica dal bersaniano Orfini a Fabrizio d’Esposito del Fatto quotidiano (titolo: «Governo liberista, avrà le piazze contro»). Il deputato-economista vicino a Enrico Letta, dribblando ogni eufemismo, l’ha scritto su Twitter: «Il compagno Orfini sul Fatto propone due nuove ossessioni: “Monti Liberista” e le “Piazze contro”. Che altro manca per tornare al Pci?».
Ma il detonatore in grado di anticipare la resa dei conti interna è il caso Lusi. Un dossier che, potenzialmente, può scatenare una contesa dagli effetti collaterali incalcolabili. Un pezzo degli ex ppi, come dimostrano le frasi consegnate ieri dal senatore Lucio D’Ubaldo al Riformista («L’espulsione di Lusi dal partito? Fuori da ogni logica e violando lo statuto»), non ha gradito il cartellino rosso sventolato sotto gli occhi dell’ex tesoriere della Margherita. E quest’ultimo, in una piccola conversazione con l’Agi, ha cominciato a parlare a nuora perché alcune suocere non ancora identificate intendano: «Ne esco a pezzi ma ho fatto un patto coi pm. La verità verrà fuori». Quale verità? E soprattutto, quali suocere?