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Dalla Bicamerale al patto col comunista Cossutta. La grande epopea di Mister Dietrofront
di Tommaso Labate (dall’Unità del 27 maggio 2012)
Se pure venerdì ha preferito lasciare più spazio ad Angelino Alfano, si vede che le doti del piazzista sono ancora quelle dei tempi d’oro. Di quando, tanto per pescare un esempio dal suo variopinto bouquet di prodezze imprenditoriali, si presentò a casa di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini per convincerli ad abbandonare la Rai per approdare in Fininvest. «Ci dice che è pronto a darci un programma, che ci aspetta a braccia aperte. È un venditore», raccontò una volta Vianello. Che, insieme alla moglie, si fece sedurre dal dettaglio finale che il protagonista della scena aveva inserito nel suo canovaccio. «Ci offre patti chiari e pure soldi. Insomma, ha argomenti convincenti. A un certo punto – è ancora Raimondo la voce narrante – gli chiedo se vuole bere qualcosa. Lui mi risponde: “Non avrebbe un panino?”. Mi assale un dubbio: ma questo è davvero miliardario?».
Quasi trent’anni fa, di fronte a una delle ditte più premiate di Mamma Rai, Silvio Berlusconi offrì patti chiari e pure soldi. E, in cambio di un panino, realizzò un affare per sé e per la coppia Vianello-Mondaini, che gli sarebbero stati fedeli fino alla morte. Ma adesso che propone al Pd quello che il Pd va cercando da una vita, e cioè il semipresidenzialismo alla francese, con tanto di maggioritario a doppio turno, è quasi scontato che tra i Democratici più d’uno pensi di trovarsi di fronte al Principe della risata mentre prova a vendere la Fontana di Trevi in Totòtruffa ’62. Come a dire, la merce è ottima. Ma il venditore è davvero affidabile?
In fondo, si tratta dello stesso venditore che il primo febbraio 1998 diede un colpo d’ascia alla commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. E fu un colpo a sorpresa, che fece naufragare più o meno quello stesso sistema semipresidenziale e maggioritario alla francese che il Cavaliere torna a proporre tredici anni dopo.
Strano ma vero Berlusconi si trovava in Francia, la patria del «modello», quel giorno. E mentre in Italia il lavoro delle forze politiche marciava spedito verso la riforma delle riforme, lui sfasciò il castello di carte. In contumacia e con un clamoroso dietrofront. «Il sistema maggioritario è certamente il migliore in una democrazia avanzata», precisò. Ma, aggiunse, «questo non è il caso dell’Italia, dove ci sono cinque poli». Quindi, dopo un dettagliato elenco dei poli – «An, la federazione liberaldemocratica, la Lega, l’Ulivo e Rifondazione» – la bordata: «In queste condizioni il sistema proporzionale lo trovo più democratico. Perché con le preferenze il cittadino sceglie i suoi candidati, che nel maggioritario sono invece imposti dall’alto, dai partiti».
Ora non è tanto la capacità di disfare in due minuti una tela bipartisan che i partiti avevano costruito in molti mesi, dalla sera in cui la signora Letta aveva servito la ben nota crostata sotto i cui auspici era nato l’omonimo «patto». Quanto il fatto che, per raggiungere l’obiettivo, quella volta Berlusconi arrivò addirittura a scendere a patti col più comunista di tutti i comunisti: Armando Cossutta. Fu il Cavaliere stesso ad ammettere i contatti con l’allora leader di Rifondazione, che era un proporzionalista ortodosso. «Ho sentito la proposta di Cossutta che rilancia il sistema proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento: si dovrebbe riaprire la discussione», sussurrò a mezza bocca dalla Francia mentre l’«Armando», dall’Italia, ricambiava il favore al grido di «siamo pronti a discutere con tutti», anche con Berlusconi, per evitare il maggioritario.
La fine è nota. Alla bordata del Cavaliere seguì la lenta agonia della Bicamerale. A cui fu sempre il grande venditore a staccare la spina qualche mese dopo. Quando, era proprio il 27 maggio del 1998, si alzò nell’Aula della Camera dei Deputati e seppellì tutti i sogni di riforma. «Abbiamo deciso di bloccare la deriva verso le sabbie mobili di un disegno di riforma di basso livello, di una Costituzione frutto di una composizione occasionale e improvvisata di norme. Abbiamo deciso di arrestare questo degrado». Game over.
La grande abilità di Berlusconi nel giustificare il passo indietro, almeno nelle confidenze fatte trapelare dai fedelissimi, fu nel chiamare in causa un altro suo celeberrimo bluff. Nel 1996, quando dopo il governo Dini s’avanzava un esecutivo di larghe intese guidato da Antonio Maccanico, il Cavaliere prima disse sì. Poi, complice la retromarcia di Fini, spinse per tornare alle urne sorretto dall’infausta certezza di vincere le elezioni. Da lì la sua postuma e silenziosa predilezione per il proporzionale, che evidentemente aveva covato in misteriosa solitudine. «Sono condizionato da ex fascisti. Quasi quasi, sarebbe meglio tornare al proporzionale». Peccato che si fosse dimenticato di dirlo al resto della ciurma bipartisan, che è più o meno la stessa a cui chiede oggi di lavorare per il semipresidenzialismo. E che lo guarda col sospetto di chi si presenta offrendo la Fontana di Trevi. Al contrario di come aveva fatto con Sandra&Raimondo, ai quali invece s’era limitato a chiedere giusto un panino.
Dall’eterno ritorno dell’imminente al gioco delle tre buste. Scatta l’ora X di Montezemolo
di Tommaso Labate (dall’Unità del 19 maggio 2012)
Per gli ammiratori è come se fosse una copertina vivente del Time, tipo quella che il settimanale dedicò a Mario Monti qualche mese fa, con tanto di titolo a caratteri cubitali: «Can this man save Italy?». Per i detrattori, invece, assomiglia tanto all’eterno concorrente di un gioco a premi come quelli condotti dal suo ex compagno di liceo Giancarlo Magalli. E quindi a un uomo perennemente indeciso tra la busta numero uno, «Nuovo Prodi», e la busta numero due, «Nuovo Berlusconi». Con almeno un occhio sempre puntato alla più generica busta numero tre, «Papa Straniero».
Sia come sia, l’eterno quiz sul futuro politico di Luca Cordero di Montezemolo è destinato a essere trascinato ai titoli di coda dall’avvicinarsi delle elezioni. Il presidente della Ferrari, che negli ultimi anni ha sia alimentato e che smentito le voci sul suo sempre «imminente» ingresso nel ring, adesso ha scartato la busta del «Nuovo Prodi», e quindi quella della leadership di una coalizione che comprendesse a vario titolo un pezzo del centrosinistra classico. E, in tempo per quella convention nazionale del suo think tank Italia Futura che potrebbe andare in scena entro due mesi, deve sciogliere il secondo dubbio. Fare il «Nuovo Berlusconi» col benestare del Cavaliere, che potrebbe affidargli le chiavi di quel rassemblement ribattezzato «Federazione dei moderati»? Oppure provare a sottrargli tanto la federazione quanto i moderati, scartando quindi la parola «Berlusconi» e tenendosi stretto l’aggettivo «nuovo»?
«Silvio» e «Luca» si conoscono da una vita. Eppure, come confessò privatamente il Cavaliere mesi fa, quando proprio una fronda di montezemoliani a fargli mancare i voti in Parlamento (do you remember la deputata Giustina Destro?), «neanche io, che di solito capisco tutti con uno sguardo, sono mai riuscito a capire dove vuole andare a parare quell’uomo». Era stato così anche nel 2001. Quando Berlusconi, tornato a Palazzo Chigi a sei anni a mezzo dal ribaltone del ’94, era praticamente sicuro che Montezemolo sarebbe entrato nel suo governo. «Mi ha dato la sua parola. Farà parte della mia squadra», aveva giurato. E invece niente. Con tanti saluti sia alla parola che alla squadra.
Non solo. La stessa identica sensazione di amarezza Berlusconi l’ha provata anche tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006. Quando, con Montezemolo presidente, Confindustria si spostò su posizioni vicine al centrosinistra di Prodi, da cui però «Luchino» prese le distanze quando si rese conto che il carrozzone dell’Unione non sarebbe stato in grado di andare avanti a lungo.
E adesso? Nella cerchia ristretta di Montezemolo si continua a smentire qualsiasi patto col Pdl. «Niente accordi» e, di conseguenza, «nessun relativo contato preparatorio». Resta il fatto che, mentre il Cavaliere insiste nel corteggiarlo, tra il Pdl lo spettro di «Luchino» ha già alimentato la balcanizzazione. «Spero che dopo le amministrative Berlusconi, Alfano, Passera e Montezemolo si siedano attorno a un tavolo per evitare la vittoria della sinistra», accelera il nostalgico di Forza Italia Giancarlo Galan. «Montezemolo nella federazione? Se ci vuole stare sì. Ma la guida non la si ottiene solo per il cognome», frena il nostalgico di An Ignazio La Russa. E il nostalgico-e-basta Angelino Alfano, sul criptico andante, a chiudere il cerchio: «Montezemolo? Berlusconi non ha retropensieri».
E così, dopo aver scartato la busta numero uno del «Nuovo Prodi», e mentre si allontana dalla busta numero due del «Nuovo Berlusconi», Montezemolo si tiene stretta la carta del «Nuovo e basta». Quella del «Papa straniero» sempre e comunque. Le teste d’uovo del suo think tank – il tridente formato da Andrea Romano, Nicola Rossi e Carlo Calenda – vergano documenti in cui si annota che il centrodestra dell’ultimo ventennio «si avvia a scomparire» ma «i suoi elettori no». In cui si nota che il Pd che guarda a Hollande ha avviato un percorso «per tornare a essere il Pds». In cui si avverte che il Terzo Polo, coerente e serio «nel sostegno al governo» Monti, non è riuscito a «trovare una compiuta morfologia che vada oltre la somma di parti ormai stanche». Serve altro, insomma.
Leggenda vuole che, alla morte di Umberto Agnelli, la telefonata in cui gli comunicarono che sarebbe stato lui il prossimo presidente della Fiat gliela fece il presidente dell’Ifil, Gianluigi Gabetti. «Luca, adesso tocca a te». E lui, di rimando: «Ci avete pensato bene?». Adesso che sta per scegliere la sua strada, e questa volta per davvero, Montezemolo se la starà ripetendo da solo, quella domanda. «Ci ho pensato bene?».
Silvio Grillo e Beppe Berlusconi. L’antipolitica di lotta è già stata al governo. Per dieci anni.
di Tommaso Labate (dall’Unità del 28 aprile 2012)
L’esercizio, in fondo, è fin troppo semplice. Basta mettere l’uno accanto agli altri per scoprire come l’uno, Beppe Grillo, e gli altri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, assomigliano tanto alle classiche due facce di una stessa medaglia. Perché se c’è un punto in comune tra l’antipolitica e i partiti, quello è che la prima – al pari dei secondi – ha due facce. Una <di lotta>. E l’altra <di governo>. Perché è vero che esiste l’antipolitica di lotta, che ha la cadenza genovese di Grillo. Ma è altrettanto vero che l’Italia della Seconda Repubblica ha sperimentato almeno un decennio di antipolitica di governo. Quella segnata dal tandem Berlusconi-Bossi.
Tra il sostenere che <dobbiamo uscire dall’euro perché non possiamo più permettercelo>, come fa Grillo in questi giorni, e il mettere a verbale che <l’euro non ha convinto nessuno>, come ha scandito Silvio Berlusconi il 28 ottobre scorso, c’è una sola differenza. Il primo usa i toni ultimativi di chi sta fuori dal ring. Il secondo fa sfoggio della “moderazione” (sic!) di chi comunque si trovava a presiedere il governo di uno dei principali paesi dell’Eurozona.
Che sia di lotta o di governo, l’antipolitica si nutre di bersagli comuni. In questo caso, l’euro. Pazienza se la moneta unica è l’ultimo baluardo prima del baratro. C’è un popolo asserragliato dietro l’equazione “prima un panino costava mille lire, ora costa un euro”? Fine della storia, abbasso l’euro.
E così, <si può rimanere tranquillamente nell’Unione europea senza rinunciare alla propria moneta> come ha fatto la Gran Bretagna, sentenzia Grillo sul suo blog. Oppure, <l’euro è una moneta strana che non ha convinto nessuno, che è di per sé molto attaccabile, non è di
un solo paese ma di tanti paesi che non hanno un governo unitario> et voilà, signore e signori, <ecco perché c’è un attacco della speculazione>, come diceva Silvio Berlusconi al crepuscolo della sua permanenza a Palazzo Chigi. Antipolitica di lotta. Antipolitica di governo. Due facce che trovano un diabolico punto in comune quando nel teorema viene inserita la variabile Lega Nord, che è riuscita nel corso degli anni a fornire una formidabile sintesi di come si possa essere – contemporaneamente – politica e antipolitica, di lotta e di
governo. Basta poco, no? Nell’ordine, è sufficiente promettere meno stato e meno tasse, come faceva il Bossi prima maniera. E se poi ti trovi per dieci anni a sostenere un governo che finisce per seguire la strada uguale e contraria – più tasse e più Stato – ci si può sempre purificare con l’acqua che sgorga dalle sorgenti del Po, da somministrare rigorosamente con un’ampolla di vetro. Oppure celebrare qualche Woodstock padana sul prato verde di Pontida. E, tanto per tornare all’esempio di prima, attaccare l’euro. <Unione europea? L’euro e i massoni ci hanno rovinato>, diceva il Senatur, socio di lusso della maggioranza del governo Berlusconi, nel 2005. Per non parlare di Maroni, e lui addirittura era il ministro del Welfare, che nello stesso anno si spingeva fino a proporre <un referendum per tornare alla lira>. Una consultazione che, evidentemente, piacerebbe tanto anche al Grillo del 2012.
Ma se c’è un terreno in cui l’antipolitica di lotta e di governo dà il meglio di sé, quello si materializza quando il bersaglio diventano i partiti. Non sarebbe il caso <di fare una norimberghina>, si chiede Grillo mentre cerca di istruire il processone a Monti (<Rigor Montis>), la nuova maggioranza (<Diarrea politica>), il tridente Alfano-Bersani-Casini (<Abc del nulla>) e persino contro Nichi Vendola (<L’ho aiutato e mi sparerei nei coglioni>)? E siamo proprio sicuri che, al di là dei nomi degli imputati, Berlusconi non sottoscriverebbe la <norimberghina> proposta da Grillo? D’altronde già alla fine degli anni Settanta il Cavaliere usava nei confronti di <certi politici> gli stessi argomenti che il comico genovese avrebbe imparato a maneggiare solo una decina di anni più tardi. La prova? Basta rileggere un’intervista che Berlusconi rilasciò a Repubblica nel 1977, un documento purtroppo finito nel dimenticatoio, che il giornalista Marco Damilano ha tolto dalla naftalina citandolo nel suo ultimo libro, Eutanasia di un potere (Editori Laterza, 2012).
In quell’intervista, che il quotidiano allora diretto da Eugenio Scalfari mandò in pagina sotto il titolo <Quel Berlusconi l’è minga un pirla>, il Cavaliere sosteneva senza troppi giri di parole: <Io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile…>. Sembra quasi lo spot del partito on-line di Grillo, girato con trent’anni e passa d’anticipo. Come prova un altro passaggio di quella conversazione tra Berlusconi e Repubblica. <Sono pochi i politici che si sano presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo>. Perché, sempre dalla viva voce del Cavaliere, <questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta>. Un bestiario che, negli anni a venire, sarebbe tornato utilissimo tutte le volte che, sentendosi scricchiolare, “Silvio” avrebbe addossato la colpa ora <ai comunisti> dell’opposizione, ora <ai democristiani> della sua stessa maggioranza.
Cambiando l’ordine dei bersagli, il prodotto non cambia. L’antipolitica può essere di lotta. E può essere di governo. Anche sulle tasse. <Gli attentati a Equitalia? Bisogna capirne le ragioni>, ha spiegato Grillo. Mentre Berlusconi s’era limitato (sic!) a misure più prudenti, tipo minacciare – come fece una volta da Lucca – quello stesso <sciopero fiscale> molto caro, in realtà, anche ai suoi alleati della Lega, che qualche volta l’avevano professato anche dai banchi del governo.
Sarà che forse la plastica del partito berlusconiano del ’94 e il web delle cinque stelle grilline degli anni Duemila producono progetti politici estemporanei. Eternamente estemporanei. Sia se rimangono di lotta, sia se arrivano al governo. O, forse, molto dipende dalla presenza scenica di chi nasce e cresce abusando di un naturale propensione a saper allietare il pubblico, pagante o votante.
D’altronde, questa è una traccia comune del percorso di Berlusconi e di Grillo. Il primo ha alimentato la leggenda che lo voleva ammaliatore di turisti da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalorieri, e che aveva in Que reste-t-il de nos amours il suo cavallo di battaglia. Il secondo, disse una volta il fratello Andrea, eseguiva numeri comici e musicali per la famiglia, <cantava e suonava la chitarra lanciando urli alla James Brown>. Il secondo ha esordito al cinema in un film chiamato Cercasi Gesù. Il primo s’è mosso come se quella ricerca si fosse esaurita in se stesso, <l’unto del Signore>. Entrambi, poi, non hanno molta dimestichezza con l’eufemismo. Il primo archivia alla voce <coglioni> gli elettori che non lo votano. Il secondo organizza il Vaffanculo day. Lasciando per un attimo le vesti del “moderato” a Umberto Bossi. E al suo dito medio. Che è stato di lotta, certo. Ma anche, e tanto, di governo.
Monti propone la rivoluzione Rai al «vertice della lasagna». Ma la vera sfida è contro Passera.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 17 marzo 2012)
«Sia chiaro che sulla Rai io devo intervenire». Palazzo Chigi. Interno notte. Sono le 23 di giovedì quando Monti, di fronte al tridente Alfano–Bersani–Casini, arriva al più delicato dei dossier del vertice. E tocca il tasto del «commissariamento».
Il presidente del Consiglio l’aveva messo in conto. L’aveva previsto, insomma, che quando il cavallo di viale Mazzini sarebbe diventato il convitato di pietra del vertice, in quello stesso istante la situazione avrebbe rischiato di precipitare. E non tanto, o non solo, per la grande guerra in corso tra un Pdl che vorrebbe il rinnovo dei vertici Rai con la legge Gasparri e un Pd che preme per il cambio delle regole. Quanto perché, come spiega uno dei tre leader in cambio della garanzia dell’anonimato, «Monti sa che lo scontro ormai s’è trasferito nelle stanze del governo». Dov’è in corso una sfida all’Ok Corral tra Super Mario, che sogna il commissariamento dell’azienda, e Corrado Passera, che invece spinge per il mantenimento dello status quo.
Davanti ad Alfano, Bersani e Casini, Monti – com’è ovvio – evita accuratamente di evocare il derby interno all’esecutivo. Ma si spinge fino a mostrare l’asso che tiene nella manica, sfruttando un assist involontario di Pier Luigi Bersani.
È il leader del Pd a dire, a un certo punto della riunione, che «noi non mettiamo veti». Semplicemente, aggiunge Bersani, «non parteciperemo alla spartizione dei posti nel consiglio d’amministrazione». E poi, sempre dalla voce del segretario dei Democratici, «parliamoci chiaro. Possiamo arrivare a fare tutte le nomine di alto profilo che volete. Ma quante ce ne sono state, di nomine di alto profilo, nella Rai degli ultimi anni? Tante, tantissime. Eppure la situazione è andata sempre peggiorando».
Monti coglie la palla al balzo. Prima rivelando – senza scendere nei dettagli – che «anche io, in passato, sono stato chiamato a scegliere se fare il presidente della Rai. Lo sapevate che anche al sottoscritto era stato proposto?». Poi aggiungendo quella che, secondo lui, rimane la strada maestra: un decreto legge che cambi le regole della governance conferendo più poteri al direttore generale. E trasformandolo, dice, «in un commissario che possa salvare l’azienda».
Di fronte al «commissariamento», che aveva già trovato la ferma opposizione di Passera, Bersani incassa un assist inaspettato e Casini prova a mediare. Ma è Alfano quello che reagisce male. «Presidente, il Pdl non accetterà mai questa ipotesi». La riunione arriva a un punto morto. A un triplice fischio che porterà la partita ai tempi supplementari. È sempre Monti a indicare la via: «Sappiate che, in ogni caso, sulla Rai io voglio intervenire. E che per me tutte le ipotesi sono in campo», è il senso del ragionamento del premier. Che invita i tre leader ad «abbandondare il mantra “legge Gasparri sì – legge Gasparri no”». E a concedersi «un po’ di tempo» per trovare il modo di «scendere dalle barricate».
Il totonomine è già partito. Piero Angela ammette ai microfoni della Zanzara di Giuseppe Cruciani (su Radio 24) di essere stato contattato. «Tutti mi stanno chiedendo se voglio fare il presidente della Rai», dice il “papà” di Quark. Risposta? «No, grazie. Penso che posso servire meglio la Rai continuando a fare il lavoro che faccio». In corsa c’è anche l’ex direttore della Stampa Giulio Anselmi. Ma è quella del dg, soprattutto se i poteri finiranno davvero per essere «pieni», la partita più importante. Il presidente del Consiglio punta a una personalità che abbia l’identikit di Enrico Bondi. E – all’interno di un risiko in cui spuntano qua e là i nomi di Francesco Caio, Mario Resca e Rocco Sabelli – anche Passera ha schierato la “sua” candidatura: quella di Claudio Cappon, ex direttore generale all’epoca dell’ultimo governo Prodi.
«Mi raccomando la solita riservatezza, eh?», si premura di dire Monti ai tre leader chiudendo i lavori del supervertice. È notte fonda. Poche ore dopo, tra le prime file del centrodestra, circolava già anche la pietanza servita a Palazzo Chigi. «Alfano dice che hanno mangiato lasagne. Si vede che il presidente del Consiglio ha voluto omaggiare Bersani e Casini, entrambi emiliani», dice un ex ministro del governo Berlusconi. Una battuta per ridere ovviamente. Al contrario del fuoco di fila che il Pdl ha aperto contro il premier sull’ipotesi di un cambio delle regole sulla Rai. Per tutti il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Non accetteremo il commissariamento dell’azienda. Nessuno pensi che facciamo finta».
Monti premier o foto di Vasto. Il Pd (e anche Angelino Alfano) si gioca tutto a Palermo.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 febbraio 2012)
Dal tramonto di «Roma 2020» all’ascesa di «Palermo 2012». Nei giorni in cui la Capitale ha visto sfumare il sogno olimpico, il capoluogo siciliano s’è guadagnato la finalissima di una partita che probabilmente segnerà le sorti della politica italiana. Perché stavolta non si tratta solo di delineare una semplice tendenza. Stavolta dalle urne palermitane potrebbe venir fuori, oltre al sindaco della città, anche l’assetto con cui i partiti si presenteranno alle elezioni del 2013.
L’ha capito benissimo Angelino Alfano, che la settimana scorsa s’è presentato da Pier Ferdinando Casini invocando il soccorso del Terzo Polo. Perché «le cose in Sicilia si stanno mettendo male». E soprattutto, ha aggiunto il leader del Pdl, «perché se perdo le amministrative sono morto, nel partito mi sbraneranno i falchi». Ma l’ha capito anche Pier Luigi Bersani. Consapevole che, tra le primarie del 4 marzo e le elezioni vere e proprie, la sua leadership si trova di fronte a un campo minato che non ammette remake del film andato in scena a Genova. Uno degli uomini più vicini al segretario del Pd la spiega così: «Cominciamo dalle primarie. Se vince la Borsellino diranno che è merito di Vendola. Se perde, invece, si dirà che è colpa nostra». E non è tutto. Se la Borsellino vince le primarie e perde le elezioni, «allora gli oppositori interni faranno a gara per sottolineare come il centrosinistra senza il Terzo Polo non va da nessuna parte. Non ci resta che sperare nel filotto. Rita che vince le primarie, Rita che diventa sindaco».
Forse sia i fedelissimi di Alfano sia i bersaniani difettano d’ottimismo. Ma una cosa è certa: tanto «Angelino» quanto «Pier Luigi» si aspettano che, da un’eventuale sconfitta di Palermo, possa scaturire un terremoto nei rispettivi partiti. Il che vorrebbe dire «licenziamento in tronco» nel caso del primo, la cui leadership è già ammaccata dal caso delle tessere false nel congresso; e l’apertura di un percorso che porterà al congresso anticipato nel caso del secondo. Con Casini che rimane alla finestra pronto ad accogliere tutti coloro (e ce ne sono, sia nel Pdl che nel Pd) che puntano a replicare la grande coalizione attorno a Monti anche nella prossima legislatura.
Che a Palermo si finirà a schifìo, per usare la sintesi di una video-ricostruzione che Pietrangelo Buttafuoco ha affidato al sito del Foglio, lo si capisce dalle intricatissime condizioni di partenza. E dal fatto che le formazioni ai blocchi di partenza dipenderanno dalle altrettanto intricate primarie del Pd del 4 marzo. Il tridente Bersani-Vendola-Di Pietro sostiene Rita Borsellino. I Democratici che spingono per mantenere in vita il patto regionale col governatore Raffaele Lombardo (da Giuseppe Lumia ad Antonello Cracolici) puntano invece sulla candidatura del trentenne Fabrizio Ferrandelli, che viene dall’Italia dei Valori. In pista c’è anche Antonella Monastra, consigliere comunale molto in vista in città, ex sostenitrice della Borsellino. E soprattutto un outsider di lusso, il deputato all’Assemblea regionale Davide Faraone, che conta sulla sponsorizzazione di Matteo Renzi (oggi il sindaco di Firenze sbarcherà a Palermo) e su una parte dei voti della Cgil.
In Sicilia dicono che, in caso di vittoria della Borsellino, l’ala “lombardiana” (nel senso di Raffaele) del Pd potrebbe abbandonare la casa madre (Cracolici, però, ha preventivamente smentito) per sostenere il candidato del Terzo Polo (il presidente del Coni regionale Massimo Costa?). Sia come sia, solo a quel punto il Pdl potrebbe dare il disco verde alla candidatura di Francesco Cascio. E non è tutto. La campagna delle primarie del centrosinistra è partita nel peggiore dei modi. Faraone, che a tutti gli effetti è l’unico iscritto al Pd della coalizione, ha denunciato i finanziamenti del partito nazionale alla campagna della Borsellino. E Renzi, oggi, potrebbe rilanciare quelle stessa accuse che, tra l’altro, hanno già fatto breccia tra i veltroniani.
Il sito Qdr.it (Qualcosa di riformista), pensatoio di riformisti vicini a «Walter», si chiedeva ieri: «Il Pd bara a Palermo? È vero che alle primarie il Pd finanzia la Borsellino contro Faraone, cioè una che non è del Pd contro uno che è del Pd?». Il tesoriere Antonio Misiani ha messo nero su bianco una smentita ufficiale. Ma l’;accenno di polemica è la spia che questa partita, che non è ancora neanche iniziata, può provocare un terremoto. E decidere, paradossalmente, quale partito tra Pdl e Pd franerà per primo. Aprendo definitivamente il dibattito sul replay nel 2013 di Monti a Palazzo Chigi.
L’idea di Silvio il marsigliese. Un referendum su se stesso al congresso del Pdl.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 9 dicembre 2011)
Doveva essere il battesimo europeo della leadership di Angelino Alfano. E invece, ancora una volta, al congresso del Ppe di Marsiglia Silvio Berlusconi ha tenuto per sé il centro della scena. Perché?
Dalla sera del 12 novembre, quella delle dimissioni, non è passato neanche un mese. Nelle ore successive all’ascesa al Colle, mentre qualche decina di migliaia di manifestanti esultava di gioia, il Cavaliere ci avrà anche pensato, come aveva spiegato a qualche fedelissimo, a mollare tutto («Roma e la politica») per tornare a dedicarsi alle aziende. Ma è durato poco. Poi l’ex presidente del Consiglio è tornato sulla scena sfoderando quel bouquet di promesse che arricchivano il suo frasario già da mesi. «Alle prossime elezioni non mi ricandido», «tocca ad Alfano». Ma, in ogni caso, «non lascio». Anzi, «raddoppio il mio impegno».
Sembra passata un’era geologica. E non solo perché il governo Monti, com’era prevedibile, sta occupando tutta la scena. Ma anche perché, stando a quanto si mormora nella war room mai smobilitata di Palazzo Grazioli, Berlusconi ha ricominciato a commissionare sondaggi per misurarsi coi competitor più disparati: da Mario Monti a Corrado Passera. Passando, è una voce che circola con insistenza da giorni, anche per Angelino Alfano.
È altamente probabile che, al «delfino», questi movimenti sotterranei del «padre nobile» non piacciano affatto. Com’è probabile che il segretario del Pdl volesse calcare in solitaria il palcoscenico marsigliese del congresso del Ppe. D’altronde così era scritto nell’ideale piano d’azione messo giù dall’ex guardasigilli nei primi giorni d’ottobre. Quando, col governo del Cavaliere ancora in piedi, prese un volo diretto a Bruxelles per incontrare i vertici del Partito popolare europeo e sondare il terreno in vista delle assise marsigliesi.
E invece, in Francia, s’è materializzato anche Berlusconi. Con uno show degno delle apparizioni di fronte alla stampa di quando, in giro per il mondo, rappresentava l’Italia e non soltanto il Pdl. «Se non si arriverà a dare alla Bce un ruolo di ulteriore garanzia sui debiti sovrani, allora non si risolverà nulla», ha scandito prima di incontrare i capi di stato e governo che stanno nei Popolari. «Per possibile votare una manovra come questa, che comporta un forte aumento della pressione fiscale, serve la fiducia», ha aggiunto. Un evergreen berlusconiano, insomma. Non ci piace, ma dobbiamo farlo. Lo stesso metodo che l’ex presidente del Consiglio tira fuori quando gli domandano che cosa pensa dell’attivismo di alcuni deputati del suo partito (da Denis Verdini a Gabriella Giammanco) sulla proposta di rimettere l’Ici per tutti gli immobili di proprietà della Chiesa. «So che tutte le risorse che la Chiesa risparmia le dà in opere di aiuto a chi ha bisogno. Per questo ho lasciato ai membri del mio partito piena libertà».
Che cosa ha in mente Berlusconi visto che, come il diretto interessato sa benissimo, non si andrà alle urne prima del 2013? Tra i suoi inizia a circolare con una certa insistenza la voce secondo cui «il Presidente ha intenzione di convocare un altro referendum su se stesso». E che questa volta, lo strumento potrebbe essere quel congresso del Pdl che inizierà a breve. Ovviamente nessuno arriva a pensare a un Berlusconi che sfida Alfano, anche perché si andrebbe ben al di là anche dei confini della fantapolitica. «Piuttosto», dice un berlusconiano della cerchia ristretta, «bisognerà trovare modi e forme per trovare, all’interno della consultazione, un momento in cui verrà ratificata, oltre alla segreteria di Alfano, la leadership del Presidente».
Lui, intanto, è tornato in partita. E la mossa di ribadire che «i cittadini italiani sono benestanti», come ha fatto ieri a Marsiglia, è la via più agevole per allontanare dal suo vecchio governo le ombre della crisi. «Adesso c’è Monti. Chiedete a lui», risponde ogni volta che qualcuno gli domanda che cosa avrebbe fatto in questo dicembre 2011, se fosse rimasto a Palazzo Chigi. E la manovra lacrime e sangue di dicembre, come teorizza in privato anche Giulio Tremonti, è soltanto la punta di un iceberg. «Perché questi segnali d’allarme che arrivano dall’Europa sono l’anticipazione di quello che l’esecutivo farà all’inizio del 2012. E cioè una manovra aggiuntiva». Altro fieno in cascina per un Berlusconi versione “campagna elettorale”. Di nuovo in campo.
Ore 16,25, Silvio toglie la maschera di Papandreou e mette quella di Diabolik per bruciare l’operazione Monti. Mariarosaria Rossi: «Io come Eva Braun? Semmai sono Eva Kant».
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
La mossa alla Diabolik, con cui mina alle fondamenta l’operazione governissimo, Silvio Berlusconi la pensa alle 16.25. Mentre scuote la testa. Tre ore dopo, alle 19.49, quando la mossa alla Diabolik viene messa nero su bianco da un comunicato del Quirinale, tutti i fan del governo tecnico – comprese le sponde occulte dentro il Pdl (Letta? Alfano?) – reagiscono come sorpresi una doccia gelata.
La mossa alla Diabolik non è un passo indietro. Né uno in avanti. Né quel «passo di lato» che gli chiede anche Bossi. Nulla di tutto ciò. È il modo con cui il premier, che «si dimetterà dopo l’approvazione della legge di stabilità», di fatto prova a rimanere in sella a Palazzo Chigi (stando a fonti del Tesoro possono servire da un minimo di due settimane a un mese e anche più) il tempo necessario per bruciare tutti i ponti che avrebbero potuto portare a un governo di larghe intese.
Basta mettere in fila le dichiarazioni a caldo di tutti i tessitori dell’opzione Monti. Massimo D’Alema l’aveva spiegato ai fedelissimi già nel tardo pomeriggio: «Mi sa che questo ci porta dritti dritti dove vuole lui. E cioè alle elezioni». Il lettiano Francesco Boccia, che parla a nome del Pd, aspetta la nota del Colle che contiene la “promessa” del Cavaliere e la commenta stizzito: «Ora Berlusconi deve formalizzare subito le sue dimissioni. Ogni giorno che passa con questo governo costa al paese un mucchio di soldi». Roberto Rao, il deputato-spin doctor dell’Udc, che negli ultimi giorni ha sorpreso anche i giornalisti con le primizie via Twitter, alza le mani: «Se devo essere sincero no, non me l’aspettavo». E Pier Ferdinando Casini, a seguire: «Si approvi in fretta la legge di stabilità. Dico no a una campagna elettorale estenuante». Sono reazioni giustamente nervose. Troppo nervose per chi, all’apparenza, ha appena ottenuto l’obiettivo principale. E cioè la testa del Cavaliere.
A questo punto tocca tornare alle 16.25. A un uomo con la testa china sui tabulati di Montecitorio, che gli hanno restituito una maggioranza che s’è trasformata in minoranza. All’ultimo voto di fiducia poteva contare su 316 uomini. Adesso quegli uomini si sono ridotti a 308. 309 se si considera che Gennaro Malgieri, che in molti danno sul punto di abbandonare il Pdl per ritornare da Fini, dichiara in Aula che comunque avrebbe votato a favore del Rendiconto se non fosse stato «per dei medicinali» che doveva prendere. Mancano all’appello i frondisti (Antonione, Fava, Destro), Papa che sta agli arresti domiciliari, le new entries dell’opposizione Stagno D’Alcontres e Pittelli, più l’astenuto Stradella e il convalescente Nucara. «Traditori», mastica amaro il Cavaliere. La scena che lo vede chino sui foglietti con i tabulati supera quasi i limiti dell’incredulità. Fino alla svolta. Che si materializza sotto forma di un foglietto, esposto a uso e consumo dei fotografi dell’Ansa, in cui il premier parla per la prima volta di «dimissioni».
In Transatlantico l’opposizione esulta. «Adesso state attenti a quello che succederà al Quirinale», scandisce Pier Luigi Bersani. «Deve dimettersi», sussurra Enrico Letta. «Lasci il governo», è la variante di Dario Franceschini. Il bello è che nessuno dei tre crede a quello che dice. Perché tutti e tre sono convinti che Berlusconi resisterà. Che la sua resistenza porterà a una rovinosa caduta del governo a Montecitorio. E che la rovinosa caduta dell’esecutivo, a sua volta, agevolerà lo scenario del governissimo. I messaggini che viaggiano sui blackberry in dotazione ai leader dell’opposizione danno conto di uno scenario in cui «Gianni Letta e Alfano sono con noi», pronti a lavorare a un «governo Monti». L’unico che non ci crede è Ugo Sposetti, tesoriere ds: «Vedrete che alla fine la soluzione più probabile è un governo di centrodestra. Guidato da Gianni Letta, magari con Alfano e Maroni vice».
Ore 19. Quando Berlusconi è già al Quirinale, Beppe Fioroni, in un corridoio laterale della Camera, disegna così la fine dell’impero del Cavaliere. «Stasera il premier proverà a resistere. Ma Napolitano, così come accadde per Prodi, lo spingerà a venire nella camera in cui non ha più la maggioranza a verificare se c’è ancora la fiducia. E visto che non ce l’avrà, la fiducia, ciao ciao. Fine della storia. Lo spread continuerà a salire fino a che, dentro il centrodestra, uomini di buona volontà e di estrazione democristiana non decideranno che è arrivata l’ora di salvare il Paese favorendo un governo Monti. Fate finta che Berlusconi sia Papandreou, che gridava “spezzeremo le reni alla Francia” e che due giorni dopo s’è trovato defenestrato».
Neanche un’ora dopo tutto è cambiato. Silvio molla la maschera di Papandreou e mette quella di Diabolik. Annuncia dimissioni che saranno formalizzate non prima, come spiega uno dei suoi, «di aver avuto la certezza che si andrà alle elezioni anticipate». Una mazzata al governissimo. «Quando se ne andrà, sarà troppo tardi per tradirlo». Eppure Mariarosaria Rossi, la deputata a lui più vicina, l’aveva detto fin dalla mattinata di ieri. Con sorriso beffardo sule labbra: «Mi dicono che sono come Eva Braun nel bunker di Hitler. Non è vero. Semmai sono Eva Kant».
«Pure Gianni Letta ci sta». La tela Pd-Casini sul governo Monti.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’8 novembre 2011)
Alle 21 di sera, quando ciascuno dei leader dell’opposizione ha finito di parlare con Gianni Letta, nel mazzo restano tre carte. E altrettanti possibili premier: Mario Monti, Giuliano Amato e Pier Ferdinando Casini.
Perché quel governissimo che sembrava aver lasciato tutto il terreno all’opzione «elezioni anticipate» – come spiegano ai propri uomini Pier Ferdinando Casini ed Enrico Letta, Massimo D’Alema e Walter Veltroni, Romano Prodi e Gianfranco Fini – adesso torna in auge. Ed è visibile su quasi tutti i radar da sabato pomeriggio. Da quando, stando a quel che risulta sull’asse Pd-Udc, si materializza un colpo di scena. E cioè che «anche Alfano e Gianni Letta», come riassume Casini nei colloqui riservati, «cominciano a lanciare segnali per la “defenestrazione” del Cavaliere e la sua sostituzione con un esecutivo d’emergenza». Ovviamente, a cominciare da Pier Luigi Bersani, sono in tanti a pensare a un bluff. In tanti a chiedersi come sia possibile che persino all’interno della prima cerchia di berluscones ci siano così tanti pezzi da novanta pronti a fare il «grande passo».
In pochi hanno voglia di fare un salto nel buio. Antonio Di Pietro lo dice chiaro e tondo a Dario Franceschini, quando il capogruppo del Pd gli si presenta davanti col foglietto per la raccolta delle firme in calce alla mozione di sfiducia. «Per adesso noi aspettiamo. Voglio vederci chiaro, Dario. E soprattutto teniamo gli occhi aperti. Non è il caso, dopo il 14 dicembre 2010 e il 14 ottobre 2011, di rischiare un flop che manderebbe tutto a monte». Per testare il grado di credibilità dei pidiellini serve una prova. E la prova, o almeno qualcosa di molto simile, arriva all’ora di cena di domenica. Quando le agenzie iniziano a battere la notizia della defezione di Gabriella Carlucci, che lascia il Pdl per passare all’Udc. In molti pensano che si tratti dell’ennesima operazione di Paolo Cirino Pomicino, che delle sorelle Carlucci è amico da una vita. E invece no. La lettura che viene offerta dai alcuni centristi agli scettici del Pd è un’altra: «Allora non avete capito nulla? La Carlucci risponde a Raffaele Fitto e basta…».
A quel punto, e siamo a ieri mattina, la macchina del governissimo è di nuovo in moto. Dal punto di vista del Pd, a cominciare da quello del segretario, manca solo un tassello. Casini deve escludere la possibilità di entrare da solo in un centrodestra allargato e compatto dietro la bandiera di Gianni Letta. Il leader dell’Udc aspetta l’ora di pranzo e poi dichiara: «L’Udc e il Terzo Polo hanno espresso la convinzione che è necessario uno sforzo straordinario delle forze politiche di maggioranza e di opposizione per salvare l’Italia». Maggioranza e opposizione, dunque anche il Pd. E visto che il Pd, come spiega il lettiano (nel senso di Enrico) Francesco Boccia, «non potrebbe mai dire sostenere un governo Gianni Letta», ecco che lo spettro del “doppio gioco” del leader centrista scompare dietro l’orizzonte. Lasciando in piedi le altre tre ipotesi: Monti, Amato e, da ultimo Casini stesso. Sulla carta tutti e tre – è la risultante dei tanti vertici che hanno scandito il tempo della giornata di ieri – hanno il potenziale sostegno di Pd, Terzo Polo e Pdl de-berlusconizzato (con le incognite di Idv e Lega tutte da verificare). In realtà, però, solo la prima – e cioè Monti – ha reali possibilità di decolare a stretto giro.
Rimangono due incognite. E non sono di poco conto. La prima riguarda la giornata di oggi, in cui il blocco dell’opposizione ha intenzione di sferrare l’attacco finale al premier. Il no (tattico) sul rendiconto rimane un’opzione. Da tirare fuori nel caso in cui il pallottoliere degli anti-Silvio (il rischio sorpasso di gioca su tre deputati: Milo, Buonfiglio e Pittelli) abbia bisogno di una «spintarella» per mandare in minoranza il Cavaliere.
Il seconda incognita è il Pd. La stragrande maggioranza dei giovani della segreteria Bersani, che temono un’operazione che guardi a Mario Monti come candidato premier del futuro centrosinistra allargato all’Udc, propende per il voto anticipato. Al punto che numerosi fan del governissimo, come Letta e i lettiani, hanno avvertito il segretario. Della serie, «se il Pdl sostiene un esecutivo Monti, non possiamo essere noi a tirarci indietro». Perché a quel punto, «il partito si spaccherebbe in due». E la coalizione pure.
E non è tutto. Che cosa succederebbe se Di Pietro e Vendola cominciassero ad attaccare il governo d’emergenza e rifiutassero di far parte (per Sel il problema sarebbe diverso, visto che non sta in Parlamento) di una maggioranza insieme a pezzi del Pdl? Succederebbe quello che un autorevole esponente del Pd spiega a microfoni spenti in tarda serata: «Se Berlusconi dicesse sì al governo d’emergenza, i primi a dividerci saremmo noi. Mica il Pdl…».
Quel pomeriggio di un giorno da cani. A Montecitorio.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 aprile 2011)
«Che cos’è il genio?», si chiedeva il “Perozzi” (Philippe Noiret) in Amici miei prima di magnificare l’ennesimo scherzo elaborato dal “Necchi” (Duillio Del Prete). «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione!». Il “Necchi” che ieri ha mandato ko la maggioranza è il segretario d’Aula del Pd, Roberto Giachetti.
Aula di Montecitorio, interno giorno, ore 10,25. Quando chiede la parola a inizio seduta, nessuno immagina che Giachetti stia per mettere insieme «fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione», i quattro elementi di un menù parlamentare che trasformerà il 31 marzo del 2011 nell’ennesimo «giorno da cani» della maggioranza. Nel suo intervento il deputato del Pd chiede che dentro il «processo verbale» di cui è appena stata data lettura rientrino alcune performance in cui si era prodotto Ignazio La Russa il giorno prima. «Nel pieno del suo intervento il collega La Russa, rivolto ai colleghi del Pd, affermava che siamo dei conigli», dice. «Chiedo almeno che rimanga agli atti della Camera e soprattutto dentro il processo verbale (…) una frase del genere, che per quanto mi riguarda qualifica il Ministro», insiste.
Sembra una goccia nell’oceano degli atti parlamentari. E invece l’intervento di Giachetti è la biglia che, magicamente, manda in tilt il flipper pidiellino, leghista e responsabile. Meno di venti minuti dopo, infatti, la maggioranza è in un angolo. Per la prima volta nella storia della Repubblica, la Camera boccia il processo verbale del giorno prima. In teoria non significa nulla. In pratica, però, l’opposizione guadagna le ore (preziose) per ricacciare in alto mare il processo breve. Gli attimi prima della chiusura della votazione sono un inferno. Fini si sgola: «Prego i colleghi di prendere posto e di votare. Il Ministro Brunetta ha votato? Il Ministro Fitto ha votato? Ministro Alfano, prego. Dichiaro chiusa la votazione». L’ultimo secondo è fatale al guardasigilli, che sbaglia a inserire la tesserina per votare nell’apposita fessura e poi, con un gesto di stizza, la lancia contro Di Pietro. Ed è fatale anche alla Prestigiacomo, che si volta furibonda verso la terza carica dello Stato (i due, un tempo, si volevano bene assai). «No, no», grida Stefy a Gianfry, chiedendogli implicitamente di tenera aperta la votazione. «Gli ha gridato “stronzo”, Prestigiacomo ha gridato “stronzo” a Fini», giurano dai banchi dell’opposizione (attendesi il resocondo definitivo, oggi). Game. Set. Match. Il presidente della Camera decreta: «Onorevoli, la votazione è stata dichiarata aperta oltre ogni limite. La Camera respinge, a parità di voti».
Dai banchi del Pdl, il tarantino Pietro Franzoso grida nei confronti di Fini frasi che le vecchie educande avrebbero definito «irripetibili». Il presidente della Camera viene colpito da una copia del Corriere della Sera, mentre una palletta di carta lo manca di poco. «Non sono stato io, erano da dietro», sbraita Franzoso. I boatos (giustizialisti) incolpano le berlus-blondies Castiello Giuseppina da Afragola e Mannucci Barbara da Roma. La prima per il lancio del giornale, la seconda per la palletta di carta.
Ma anche nel più tragicomico degli spettacoli può spuntare una scena tra il misero e il becero. Succede quando, dopo un intervento di Italo Bocchino, Osvaldo Napoli perde la testa e si dirige verso l’assistente della deputata Ileana Argentin. «Tu non puoi applaudire, capito?», dice il berlusconiano piemontese. «Che succede? Che c’è, onorevole Argentin? Non capisco, ha chiesto di parlare, onorevole Argentin?», dice Fini dallo scranno più alto. «Mi hanno rotto anche il microfono! Si è appena avvicinato un collega per dire al mio operatore che non deve permettersi di applaudire» (Argentin). «E ha ragione», sbraita il leghista Polledri. «Ma come si permette!» (Fini a Polledri). «Allora ricordo all’Aula che io non muovo le mani…» (Argentin). «Invito il collega che ha proferito la parola a scusarsi. Onorevole Polledri, si scusi o chiarisca» (ancora Fini). Alcuni deputati del Pd bloccano il collega Michele Meta, amico di una vita di «Ileana», che prova a raggiungere i banchi della maggioranza. Dai banchi del Carroccio parte un «handicappata del cazzo» riferito alla Argentin. Che conclude: «Non desidero le scuse di nessuno. Credo che lei mi conosca abbastanza per sapere che non strumentalizzo mai queste cose. Ma se desidero applaudire un mio avversario, lo faccio come credo e quando credo. Se non lo posso fare con le mie mani, lo faccio con le mani di chiunque». Applausi. Sia Polledri che Napoli, quest’ultimo anche in Transatlantico, si scusano.
La giornata nera del governo si fa nerissima nel pomeriggio, quando il processo breve scompare dai radar. «Questi del gruppo del Pdl so’ proprio incompetenti. Si sono fatti fregare ancora», è l’analisi del “responsabile” Francesco Pionati. Tutto per “colpa” del processo verbale e dell’intuizione di Giachetti. Tutta colpa delle pagine 72 e 73 del resoconto stenografico di mercoledì 30 marzo, il La Russa day. Che – testualmente – dà dei «conigli» ai deputati dell’opposizione e si becca in cambio un doppio «fascista, coglione!». Qualche riga più sotto c’era quella parolina che il ministro della Difesa aveva rivolto al suo ex amico Fini. Per gli atti di Montecitorio è un «va…» (all’indirizzo della presidenza). Ma fior di testimoni, come hanno riportato tutti i giornali di ieri, giurano che quel «va…» era corredato da due effe, una a, una enne, una ci, una u, una elle e una o.
Da Giulietto a Niccolò: i nemici invisibili di Alfano.
di Tommaso Labate (dal Riformista di 16 marzo 2011)
Il primo della lista è Giulio Tremonti. A seguire c’è Niccolò Ghedini. Senza dimenticare le «mine vaganti», Umberto Bossi e Roberto Calderoli. È a loro che Angelino Alfano pensa quando, nei colloqui con gli amici, evoca «i nemici invisibili» della sua riforma della giustizia.
Nella decisione del ministro dell’Economia di non lasciare la benché minima traccia nel mastodontico dibattito sulla riforma della giustizia non c’è alcuna stranezza. D’altronde si sa, l’ultimo successore di Quintino Sella non ama parlare di questioni che non siano di sua stretta pertinenza. Ma se stavolta i parlamentari più fedeli ad «Angelino» vedono in «Giulietto» un possibile pericolo, un motivo c’è.
I due non si sono mai amati. E la sfida all’Ok corral sui fondi per l’informatizzazione dei tribunali andata in scena qualche mese va (e vinta ai punti dal titolare della Giustizia) ha raffreddato i rapporti che già tendevano al gelo. Al punto che Alfano, uno più berlusconiano dello stesso Berlusconi, continua a ripetere al Cavaliere che «l’unica tua colpa, presidente, è stata quella di non aver saputo tenere a bada Tremonti». Quel Tremonti di cui il titolare del ministero di via Arenula dice quello che tanti si limitano soltanto a pensare. «Ogni volta che uno dei suoi provvedimenti arriva sul tavolo dei ministri, si presenta soltanto con la copertina», ha raccontato qualche settimana fa «Angelino» a un collega dell’opposizione, evocando la tendenza tremontiana a tenere coperte tutte le sue carte migliori. «Ed è una cosa», ha aggiunto il guardasigilli sorridendo, «che voi del centrosinistra non gli avreste mai permesso».
Ma l’antipatia reciproca può trasformarsi nell’ennesima guerra? È insomma possibile che «Giulietto», come temono ai vertici del Pdl, «usi i suoi poteri magici per ostacolare la riforma della giustizia»? Per adesso si tratta soltanto di voci velenose. Ma se all’insofferenza tremontiana sulla «riforma epocale» si aggiungono le tante perplessità del Carroccio, ecco che l’affaire si complica non poco.
Sulla giustizia i leghisti legati a triplo filo col ministro dell’Economia, a cominciare da Roberto Calderoli, sembrano muti come pesci. Il ministro della Semplificazione, circondato dieci giorni fa dai cronisti alla festa per i venticinque anni del Carroccio, s’era limitato a dodici parole: «Il problema della giustizia italiana è garantire i processi in tempi certi». Nella stessa serata Umberto Bossi, rispondendo a una domanda sul sostegno delle camicie verdi alla riforma epocale, se l’era cavata con una sola: «Sì». Anche Roberto Maroni, che pure con Alfano può vantare buoni rapporti personali, preferisce stare alla larga dalle polemiche. È strano che il ministro dell’Interno si chiami fuori dal dibattito sulla giustizia italiana, no? Com’è strano che uno dei colleghi di partito a lui più vicini, il sindaco di Verona Flavio Tosi, abbia tenuto a precisare: «La riforma della giustizia è necessaria. Ma è pur vero che, fatta in questo momento, può essere male interpretata. Infatti i cittadini – è la teoria che Tosi ha esposto cinque giorni fa a Salerno, durante un convegno – potrebbero pensare che Berlusconi lo fa perché ha dei problemi. Ma la Lega, comunque, darà il suo voto ».
Con l’avvicinarsi della campagna elettorale delle amministrative, e della conseguente competition interna, i distinguo leghisti sulla riforma di Alfano potrebbero moltiplicarsi. Ma la partita è appena all’inizio. Il segretario del Pri Francesco Nucara, veterano del Parlamento e amico del Cavaliere, mette in fila tutti gli indizi: «Secondo me, questa riforma non andrà da nessuna parte. E non solo per l’ostilità di Tremonti e di altri pezzi della maggioranza». Perché nella posta in palio, oltre alle modifiche della Costituzione, c’è anche il dopo-Berlusconi. Nucara è sicuro che alla fine avrà la meglio Tremonti. «Quando l’ho chiamato per il congresso del Pri, non solo è venuto di corsa. Ma, intervistato da Stefano Folli, ha addirittura detto che “il Mezzogiorno deve essere salvato anche con l’aiuto del governo”. Altro che personaggio di primo piano legato alla Lega. Giulio sta studiando da leader nazionale del prossimo centrodestra». Per quella stessa seggiola che, se la riforma andasse avanti e superasse quel referendum che il Cavaliere considera «l’ultima parola del popolo italiano su di me», finirebbe di diritto ad Angelino.
Il fatto che il guardasigilli sia coinvolto in prima persona nella grande partita per la successione a Berlusconi è forse l’ostacolo più duro. Ancor più della sfida fratricida che lo oppone a Niccolò Ghedini. Un altro personaggio tutt’altro che felice dei primi passi della «riforma epocale» voluta dal suo illustre assistito.