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Grillo, tentazione Colle. Beppe studia il precedente Bonino del ’99.
di Tommaso Labate (da Panorama in edicola dal primo giugno 2012)
La parte più semplice del «piano», soprattutto se orchestrato da un guru del web del calibro di Gianroberto Casaleggio, sarà quella relativa alla scelta dello slogan. Magari alla fine punterà sul sempreverde «Beppe for president», semplice ed efficace. Oppure riadatterà il ritornello della canzone di Antonello Venditti che ha già citato una settimana fa: «Bomba o non bomba noi arriveremo al Colle». L’unica cosa certa – a sentire quel che si mormora in quella zona grigia che sta nel triangolo fra il Movimento 5 stelle, l’Italia dei valori e il vecchio network dei girotondini – è proprio l’esistenza del piano. Un piano che porta dritto dritto alla candidatura di Beppe Grillo al Quirinale.
Fantapolitica? Tutt’altro. Il comico genovese, insieme con Casaleggio, avrebbe istruito la pratica studiando il precedente che nel 1999 portò i Radicali a fare il pieno di voti alle Europee sfruttando proprio la concomitanza con la fine di un settennato, che nella fattispecie era quello di Oscar Luigi Scalfaro. Partendo da un sondaggio Swg, secondo cui il 31 per cento degli italiani avrebbe voluto Emma Bonino presidente della Repubblica, la premiata orchestra di Marco Pannella, sostenuta dalla stampa internazionale e da testimoniai di lusso (da Indro Montanelli a Lucio Dalla), imbastì una campagna mediatica che portò le liste dei radicali a sfiorare il 9 per cento nazionale. Un record mai più battuto.
Grillo ha intenzione di muoversi allo stesso modo, candidandosi pubblicamente alla successione a Giorgio Napolitano, uno dei suoi bersagli preferiti, con l’obiettivo di incrementare i voti del Movimento 5 stelle alle elezioni politiche. Dove può arrivare una campagna «Beppe for president»? Di certo c’è che le condizioni di partenza da cui si muove il comico genovese sono nettamente migliori di quelle dei Radicali del ’99. Stando ai sondaggi, il suo movimento avrebbe virtualmente superato il Pdl. Non solo, a prendere per buoni i dati pubblicati da Renato Mannheimer sul Corriere della sera del 27 maggio, «un italiano su tre simpatizza per i grillini». Certo, il capo carismatico ha da chiudere, e pure in fretta, la faida interna che lo vede opposto ad alcuni dei suoi sindaci eletti, a cominciare dal golden boy parmigiano Federico Pizzarotti. Poi potrà lanciare la campagna per il Quirinale. Prima dell’estate? Dopo l’estate? Sul timing c’è incertezza.
Come c’è incertezza sulla possibilità che «Beppe» rispetti la promessa fatta sul suo blog il 16 settembre 2005. Quando, nel raccontare dell’incidente stradale del 1980 che lo costrinse a una condanna per omicidio colposo, giurò solennemente: «Non mi candiderò al Parlamento». Ma il Quirinale è altrove.
«Fassina ha la voce di Cristiano Malgioglio». Il libro Cuore del Pd arriva su Twitter
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 marzo 2012)
Il primo sussulto arriva quando Paola Concia rompe una narrazione armoniosa scrivendo che «Ichino fa Ichino» e «non dice nulla sull’articolo 18». Per il secondo tocca aspettare una somiglianza fonica scovata e postata su Facebook da Pina Picierno. «Oh, ma Fassina ha la stessa, identica voce di Cristiano Malgioglio!».
Nel giorno dell’unità ritrovata attorno alla linea «Monti cambi la riforma del lavoro», il quartier generale piddì del Nazareno si trasforma nella casa del Grande Fratello. E l’eco della direzione del partito, che va in scena dentro, arriva magicamente fuori. Siamo al «dentro ma fuori dal Palazzo», come recita lo storico slogan di Radio Radicale? E soprattutto, i Democratici sono diventati come il partito di Pannella? Più o meno. I secondi si fanno sentire dai vicini di casa anche (e soprattutto) quando litigano. Il primi alzano la voce in tempo di pace.
Sia come sia, quando Bersani apre la riunione del parlamentino, la deputata Concia inizia a torturare l’Ipad. Lasciando messaggi in bottiglia verso l’esterno. «Parla Bersani: abbiamo un profilo europeo ok», «Bersani: Monti non è venuto dopo i partiti ma dopo Berlusconi», «Bersani: basta con la stucchevole differenza tra tecnica e politica». E poi, quando tocca a «Walter», «Veltroni: dobbiamo lavorare insieme, dobbiamo confrontarci ma sentirci di stare insieme». Il deputato lucano Salvatore Margiotta, che le siede accanto, non vuole essere da meno. Twitta pure lui. Eccome se twitta. «Ottimo Franceschini sull’articolo 18: stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili». E ovviamente «anche da Veltroni emerge una sostanziale unità del partito sulle cose che contano. È un bene». Roberto Speranza, il giovane segretario regionale della Basilicata, se la ride di gusto. «Salvato’, tra te e la Concia mi pare di stare dentro la casa del Grande Fratello». Appunto.
In tarda mattinata arriva il turno di Massimo D’Alema. Uno che ancora gli tremano le gambe tutte le volte che racconta di quando nel 1975, al suo debutto nella direzione nazionale del Pci, venne “cecchinato” da Arturo Colombi, presidente della Commissione centrale di controllo del Pci e grande nome della Resistenza, perché aveva osato prendere appunti durante la riunione («Prese i miei foglietti e li stracciò davanti a tutti dicendo: “Ricordati, solo le spie prendono appunti”»). Al presidente del Copasir, ’o presepe della direzione via Twitter, non piace. Ma il suo contributo all’happy end non lo nega. Anzi. «Il presidente dell’Assemblea, Rosy Bindi, iscrivendomi a parlare dopo Veltroni, ha costruito una strana trama da libro Cuore. Ecco, lo dico: sono totalmente d’accordo con Walter», dice «Massimo» applaudendo l’intervento del nemico-amico che l’aveva preceduto. L’account twitter di Concia pare Radio Londra in tempi di guerra. «D’Alema: non stiamo scrivendo il libro Cuore. Non ho capito cosa volesse, dire ma forse sono scema».
A Roberto Giachetti, rimasto a presidiare il fortino di Montecitorio, i conti non tornano. Soprattutto visto che, sull’articolo 18, Bindi aveva minacciato di andare in piazza. «Rosy, quindi scenderemo in piazza unitariamente?», le scrive. Lei non risponde. «Tutti magicamente d’accordo», annota il deputato Fausto Recchia. Mentre Pina Picierno, prima di scovare quella strana somiglianza fonica tra Fassina e Malgioglio, aveva avvertito baracca e burattini: «Sono alla direzione del Pd. Volemose bene è il sottotitolo della giornata. Ma al prossimo che parla sui giornali, je meno io». Così. Senza eufemismi.
Più d’uno storce il naso quando il tesoriere del partito Antonio Misiani mette ai voti il preventivo di bilancio. Sulla base dell’accordo pre-elettorale, 200mila euro vanno ai Radicali (che dal 2008 hanno preso dal Pd 630mila euro, hanno 9 eletti nelle liste democrat) e 70mila all’area degli Ecodem. Cifre a parte, i tesoriere è applaudito da tutti: «Ricordo quando nella Margherita approvavamo i bilanci di Lusi. Il Pd, per fortuna, ha Misiani…», cinguetta Margiotta.
Restano le divisioni sulla legge elettorale. Perché lo schema Violante fa discutere. E litigare. «Una riforma che punti sui partiti è essenziale per noi», sostiene D’Alema. «Non mi convincono né la bozza Violante né l’impostazione di D’Alema», replica Bindi.
Ma la relazione del segretario, quella sì, è approvata all’unanimità. «Monti non rischia. Però la riforma del lavoro va modificata». E quando il presidente del Consiglio parla dall’Asia citando il Divo Giulio («La riforma va approvata in tempi brevi. Non sono come Andreotti…») e minaccia di fare le valigie («Se il Paese non è pronto il governo potrebbe non restare»), il segretario del Pd replica: «Non sopravvaluto le parole dette oggi da Monti. Gliele ho sentito dire una ventina di volte». La ventunesima è servita.
Alfonso Papa faccia a faccia con Lele Mora: «E’ irriconoscibile. Ma dice che Silvio gli è vicino»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 4 gennaio 2012)
«Lele Mora è irriconoscibile. Ha la barba lunga, non riesce a stare in piedi da solo, ha perso 35 chili. Ma mi ha detto che Silvio Berlusconi gli è stato e gli è vicino». Comincia così l’intervista rilasciata al Riformista da Alfonso Papa, che ieri ha incontrato Mora nel carcere milanese di Opera.
Alfonso Papa, accompagnato dalla radicale Annalisa Chirico, e Lele Mora. Faccia a faccia nel carcere dove l’ex manager dei divi è detenuto da mesi. Che cosa vi siete detti, onorevole?
Credo che Mora non sia oggettivamente in condizioni di mandare messaggi all’esterno. È depresso, dimagrito, sottoposto a una terapia farmacologica pesantissima, che costringe la struttura sanitaria del carcere di Opera a un monitoraggio costante. Essendo sottoposto da mesi a un isolamento totale, è provato nello spirito, oltre che nel corpo.
Gli amici del manager hanno avviato una raccolta fondi per sostenerlo. E sul Corriere della Sera del 28 dicembre, Pierluigi Battista ha parlato della ferocia contro il «detenuto antipatico». Mora le ha detto di sentirsi abbandonato?
Al contrario, Mora mi ha parlato della vicinanza e dell’affetto nei suoi confronti della famiglia e degli amici più cari. Tra questi ha citato espressamente il presidente Silvio Berlusconi.
Lei teme che possa ritentare il suicidio? Ha paura per le sue condizioni di salute?
Sono molto preoccupato per le sue condizioni. Così come temo per la sorte dei tanti detenuti del carcere di San Vittore, che ho visitato oggi. Persone che vivono in sei in celle di 15 metri quadrati. C’è bisogno di una grande riflessione culturale sull’emergenza carceri. Soprattutto perché il 42 per cento dei detenuti italiani per la nostra Costituzione sono «presunti non colpevoli», che stanno in galera per la carcerazione preventiva.
Da quando è uscito dal carcere, lei invoca l’amnistia, chiede che Pannella sia nominato senatore a vita, si occupa di emergenza carceri. Si sente ancora un esponente del Pdl?
Assolutamente sì. Nella mia vicenda personale ho sempre avuto la forte solidarietà e la vicinanza di tutto il Pdl, a cominciare dal presidente Berlusconi.
Che cosa ha pensato quando la Lega Nord, che aveva votato a favore del suo arresto, ha deciso di salvare il suo collega Milanese?
Una democrazia non ha bisogno né di eroi né di capri espiatori. E ciascun parlamentare si assume la responsabilità politica dei voti che dà. Non mi sento di aggiungere altro.
Lei è sotto accusa per lo scandalo della P4. Per 18 degli indagati sulla P3, tra cui Verdini e Dell’Utri, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio.
Non ho mai rilasciato dichiarazioni alla stampa sul mio caso, figuriamoci se commento gli altri. Sono stato un magistrato, ho servito e servo questo Stato, ho rispetto per le procedure.
Palazzo Chigi ha chiarito che i fondi statali dell’8 per mille saranno ripartiti tra emergenza carceri e Protezione civile. Non pensa che Monti in poche settimane abbia fatto più di Berlusconi?
Anche il governo Berlusconi era impegnato in un piano carceri e in una riforma della giustizia. Le note difficoltà oggettive di quell’esecutivo hanno impedito che quei provvedimenti arrivassero all’approvazione.
Tra pochi giorni tornerà a sedere sui banchi di Montecitorio. Voterà la fiducia al governo Monti?
Voterò la fiducia al governo solo nell’ambito di quelle che saranno le indicazioni del mio partito.