Archive for the ‘Ritratti’ Category
Una volta ho imparato una cosa. Da Little Tony.
Era la campagna elettorale per le politiche del 2008. Da qualche parte avevo letto che cantava alla fine di un’iniziativa del centrosinistra ai Castelli romani. Per questo proposi di fargli, qualche giorno prima, un’intervista politica per il Riformista, il giornale dove lavoravo allora.
Lui accettò, l’intervista purtroppo venne fatta al telefono, anche perché non stava a Roma, e ricordo ancora che disse che sperava nel pareggio al Senato e nella Grande Coalizione, “come in Germania”.
Ma il meglio arrivò dopo. Alla fine della chiacchierata, gli chiesi se poteva cantarmi Cuore Matto al telefono. E non contento, visto che dove posso imito sempre i film che vedo, gli domandai anche se poteva fare la stessa cosa che gli avevo visto fare ne L’odore della notte, dove recitava la parte di se stesso, vittima di una rapina e con un revolver puntato addosso. “Tony, mi devi fare il basso”. E lui, senza scomporsi, attaccò. “Tu-tu tu-tu tu-tu tu-tu. Il cuore matto / che ti segue ancora…”.
Il mini–concerto, perché in questo si trasformò, andò in onda al telefono, in viva voce, a uso e consumo dei miei compagni di stanza di allora, con tanto di standing ovation finale. Ed è più per la memoria di quei pochi minuti di trascurabile felicità, che non per un repertorio decisamente lontano dai miei gusti, che m’è dispiaciuto ieri sera sapere che Little Tony era morto. Perché, vedete, quella breve chiacchierata, con tanto di concerto al telefono, mi ha dimostrato che, anche nei momenti del declino, ci sono donne e uomini che conservano intatta una loro dignità. E che la dignità, in fondo, è l’unico, vero, modo non solo per invecchiare meglio. Ma soprattutto per tenerla alta, la testa. Anche se il concerto lo fai per telefono. E anche se ad ascoltarti, invece del grande pubblico, ci sono cinque persone.
Dopo quel giorno, io Tony non l’ho più immaginato come il settantenne che canta in qualche trasmissione del pomeriggio, o come la vecchia star che si esibisce per il centrosinistra, ai Castelli Romani, a margine di un comizio. Ma così, come lo vedete qui sotto. Famoso. Acclamato. E pure bello, diciamo.
Silvio Grillo e Beppe Berlusconi. L’antipolitica di lotta è già stata al governo. Per dieci anni.
di Tommaso Labate (dall’Unità del 28 aprile 2012)
L’esercizio, in fondo, è fin troppo semplice. Basta mettere l’uno accanto agli altri per scoprire come l’uno, Beppe Grillo, e gli altri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, assomigliano tanto alle classiche due facce di una stessa medaglia. Perché se c’è un punto in comune tra l’antipolitica e i partiti, quello è che la prima – al pari dei secondi – ha due facce. Una <di lotta>. E l’altra <di governo>. Perché è vero che esiste l’antipolitica di lotta, che ha la cadenza genovese di Grillo. Ma è altrettanto vero che l’Italia della Seconda Repubblica ha sperimentato almeno un decennio di antipolitica di governo. Quella segnata dal tandem Berlusconi-Bossi.
Tra il sostenere che <dobbiamo uscire dall’euro perché non possiamo più permettercelo>, come fa Grillo in questi giorni, e il mettere a verbale che <l’euro non ha convinto nessuno>, come ha scandito Silvio Berlusconi il 28 ottobre scorso, c’è una sola differenza. Il primo usa i toni ultimativi di chi sta fuori dal ring. Il secondo fa sfoggio della “moderazione” (sic!) di chi comunque si trovava a presiedere il governo di uno dei principali paesi dell’Eurozona.
Che sia di lotta o di governo, l’antipolitica si nutre di bersagli comuni. In questo caso, l’euro. Pazienza se la moneta unica è l’ultimo baluardo prima del baratro. C’è un popolo asserragliato dietro l’equazione “prima un panino costava mille lire, ora costa un euro”? Fine della storia, abbasso l’euro.
E così, <si può rimanere tranquillamente nell’Unione europea senza rinunciare alla propria moneta> come ha fatto la Gran Bretagna, sentenzia Grillo sul suo blog. Oppure, <l’euro è una moneta strana che non ha convinto nessuno, che è di per sé molto attaccabile, non è di
un solo paese ma di tanti paesi che non hanno un governo unitario> et voilà, signore e signori, <ecco perché c’è un attacco della speculazione>, come diceva Silvio Berlusconi al crepuscolo della sua permanenza a Palazzo Chigi. Antipolitica di lotta. Antipolitica di governo. Due facce che trovano un diabolico punto in comune quando nel teorema viene inserita la variabile Lega Nord, che è riuscita nel corso degli anni a fornire una formidabile sintesi di come si possa essere – contemporaneamente – politica e antipolitica, di lotta e di
governo. Basta poco, no? Nell’ordine, è sufficiente promettere meno stato e meno tasse, come faceva il Bossi prima maniera. E se poi ti trovi per dieci anni a sostenere un governo che finisce per seguire la strada uguale e contraria – più tasse e più Stato – ci si può sempre purificare con l’acqua che sgorga dalle sorgenti del Po, da somministrare rigorosamente con un’ampolla di vetro. Oppure celebrare qualche Woodstock padana sul prato verde di Pontida. E, tanto per tornare all’esempio di prima, attaccare l’euro. <Unione europea? L’euro e i massoni ci hanno rovinato>, diceva il Senatur, socio di lusso della maggioranza del governo Berlusconi, nel 2005. Per non parlare di Maroni, e lui addirittura era il ministro del Welfare, che nello stesso anno si spingeva fino a proporre <un referendum per tornare alla lira>. Una consultazione che, evidentemente, piacerebbe tanto anche al Grillo del 2012.
Ma se c’è un terreno in cui l’antipolitica di lotta e di governo dà il meglio di sé, quello si materializza quando il bersaglio diventano i partiti. Non sarebbe il caso <di fare una norimberghina>, si chiede Grillo mentre cerca di istruire il processone a Monti (<Rigor Montis>), la nuova maggioranza (<Diarrea politica>), il tridente Alfano-Bersani-Casini (<Abc del nulla>) e persino contro Nichi Vendola (<L’ho aiutato e mi sparerei nei coglioni>)? E siamo proprio sicuri che, al di là dei nomi degli imputati, Berlusconi non sottoscriverebbe la <norimberghina> proposta da Grillo? D’altronde già alla fine degli anni Settanta il Cavaliere usava nei confronti di <certi politici> gli stessi argomenti che il comico genovese avrebbe imparato a maneggiare solo una decina di anni più tardi. La prova? Basta rileggere un’intervista che Berlusconi rilasciò a Repubblica nel 1977, un documento purtroppo finito nel dimenticatoio, che il giornalista Marco Damilano ha tolto dalla naftalina citandolo nel suo ultimo libro, Eutanasia di un potere (Editori Laterza, 2012).
In quell’intervista, che il quotidiano allora diretto da Eugenio Scalfari mandò in pagina sotto il titolo <Quel Berlusconi l’è minga un pirla>, il Cavaliere sosteneva senza troppi giri di parole: <Io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile…>. Sembra quasi lo spot del partito on-line di Grillo, girato con trent’anni e passa d’anticipo. Come prova un altro passaggio di quella conversazione tra Berlusconi e Repubblica. <Sono pochi i politici che si sano presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo>. Perché, sempre dalla viva voce del Cavaliere, <questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta>. Un bestiario che, negli anni a venire, sarebbe tornato utilissimo tutte le volte che, sentendosi scricchiolare, “Silvio” avrebbe addossato la colpa ora <ai comunisti> dell’opposizione, ora <ai democristiani> della sua stessa maggioranza.
Cambiando l’ordine dei bersagli, il prodotto non cambia. L’antipolitica può essere di lotta. E può essere di governo. Anche sulle tasse. <Gli attentati a Equitalia? Bisogna capirne le ragioni>, ha spiegato Grillo. Mentre Berlusconi s’era limitato (sic!) a misure più prudenti, tipo minacciare – come fece una volta da Lucca – quello stesso <sciopero fiscale> molto caro, in realtà, anche ai suoi alleati della Lega, che qualche volta l’avevano professato anche dai banchi del governo.
Sarà che forse la plastica del partito berlusconiano del ’94 e il web delle cinque stelle grilline degli anni Duemila producono progetti politici estemporanei. Eternamente estemporanei. Sia se rimangono di lotta, sia se arrivano al governo. O, forse, molto dipende dalla presenza scenica di chi nasce e cresce abusando di un naturale propensione a saper allietare il pubblico, pagante o votante.
D’altronde, questa è una traccia comune del percorso di Berlusconi e di Grillo. Il primo ha alimentato la leggenda che lo voleva ammaliatore di turisti da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalorieri, e che aveva in Que reste-t-il de nos amours il suo cavallo di battaglia. Il secondo, disse una volta il fratello Andrea, eseguiva numeri comici e musicali per la famiglia, <cantava e suonava la chitarra lanciando urli alla James Brown>. Il secondo ha esordito al cinema in un film chiamato Cercasi Gesù. Il primo s’è mosso come se quella ricerca si fosse esaurita in se stesso, <l’unto del Signore>. Entrambi, poi, non hanno molta dimestichezza con l’eufemismo. Il primo archivia alla voce <coglioni> gli elettori che non lo votano. Il secondo organizza il Vaffanculo day. Lasciando per un attimo le vesti del “moderato” a Umberto Bossi. E al suo dito medio. Che è stato di lotta, certo. Ma anche, e tanto, di governo.
Beppe Grillo. Leader o pagliaccio? Una domanda che risale al 2007.
Ora che vola nei sondaggi, ora che il centrosinistra ha cominciato a temerlo, ora che succede tutto questo, compreso che il logorio della vita moderna raggiunga vette inimmaginabili anche per chi inventò lo spot Cynar, la domanda del 2007 ritorna con prepotenza: Beppe Grillo è un leader o un pagliaccio?
Cinque anni fa, la rivista Formiche mi chiese un ritratto del comico genovese.
Cominciava così:
È più democratico di Piero Fassino e Francesco Rutelli, più ambientalista di Alfonso Pecoraro Scanio, più giustizialista di Antonio Di Pietro, più liberale di Francesco Giavazzi, più pacifista di Gino Strada, più radicale di Marco Pannella, più nero di Obama e più bianco di Hillary, più a destra di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini messi insieme e più a sinistra di Fausto Bertinotti. Oltre ad essere più comico di Dario Fo, più epurato di Enzo Biagi, più incazzato di Mike Tyson, più televisivo di Pippo Baudo, forse più radiofonico di Fiorello e se non ci fossero intralci accademico barra burocratici sulla sua strada sarebbe financo più oncologo di Umberto Veronesi
Ma cosa succederebbe, nell´italico e perennemente aperto cantiere politico, se il democratico, ambientalista, giustizialista, liberale, pacifista, radicale, nero, bianco, destro, sinistro, comico, epurato, incazzato, televisivo e radiofonico Beppe Grillo decidesse di far qualcosa di poco antipolitico tipo “scendere in campo”? Saccheggerebbe terreno elettorale a centro, destra e manca?
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E Long John giurò all’Oceano: “Tornerò da presidente”
di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 ottobre 2006)
La malelingue che lo conoscono bene dicono che sia sempre stato bravo a ordire complotti. E lui, Giorgione Chinaglia, non ha mai fatto nulla per nascondere la sua innata propensione alla congiura. Anzi. Nell’autunno del 1981, ospite di un programma sportivo che andava in onda su Telemontepenice, una televisione locale di Pavia, Long John prese il microfono e iniziò a raccontare la vigilia di quell’Italia-Argentina del mondiale 1974. La sua vigilia. Uno s’immagina la tensione del prepartita, l’emozione del ragazzino con la maglia azzurra, un sogno che si coronava, la notte insonne. Macché. Giorgione era in tutt’altre faccende affaccendato. “Il giorno prima dell’incontro ci fu una riunione segreta alla quale parteciparono tutti i convocati ad eccezione di Rivera e Mazzola. Dopo una lunga discussione giungemmo a un accordo unanime. L’indomani, contro l’Argentina, doveva scendere in campo soltanto uno dei due. O Gianni o Sandro. Fui proprio io – raccontò agli esterrefatti giornalisti pavesi – a riferire a Valcareggi quanto aveva deciso l’intera squadra”.
Ma il ct se ne infischiò delle parole di Chinaglia, che aveva sostituito nella partita precedente contro Haiti (beccandosi in cambio il “vaffa” in mondovisione di Long John), e fece la scelta opposta. Giocarono sia Gianni che Sandro. Finì 1-1 e addio qualificazione al girone successivo. Trentadue anni dopo quel complotto, Giorgione si ritrova tra capo e collo un ordine di arresto per estorsione e aggiotaggio. Per un’altra congiura, secondo i pm messa in piedi – tra gli altri – con alcuni capi degli Irriducibili ultras della Lazio.
L’obiettivo era mettere a ogni costo le mani sul club biancoceleste e sottrarlo al presidente Claudio Lotito. Long John sostiene di “cadere dalle nuvole”. Lotito oggi tace. Ma fino a qualche mese fa, il presidente della Lazio ce l’aveva addirittura con Beppe Pisanu. “Che ne sai tu di come vivo io? Che ne sai tu delle minacce che ricevo ogni giorno?”, borbottava ascoltando il ministro dell’Interno che magnificava l’efficacia del suo pacchetto sulla sicurezza degli stadi durante un convegno sulla riforma del sistema calcio che si svolgeva a Roma in un hotel di via Veneto.
Per i laziali, Chinaglia è una leggenda vivente. Per gli statunitensi, più semplicemente, è il cognato di una leggenda vivente. Prima di trasferirsi negli States per giocare con i Cosmos di New York (dove ha giocato con Pelè e Beckenbauer), Giorgione aveva sposato la sorella di Mike Eruzione, giocatore di hockey e soprattutto autore del gol decisivo con cui gli Usa vinsero il torneo delle olimpiadi invernali del 1980. La finalissima era contro l’Unione Sovietica. Ancora oggi, oltreoceano, quella sfida decisa dal cognato di Long John è nota come the miracle on ice. Il miracolo sul ghiaccio. Su quella partita di hockey hanno fatto ben due film…
E non c’è solo Eruzione. La storia di Long John è ricca di incontri con leggende (o consanguinei di). Come quella volta che a Cardiff, dove la sua famiglia era emigrata dopo aver lasciato Massa, il tredicenne Chinaglia, calciatore da campi di parrocchia, venne notato da Mel Charles, fratello del mito juventino John. Fu Charles a segnalare Giorgione allo Swansea, una squadra delle categorie inferiori britanniche. Poi, tornato in Italia, fu prima Massese e poi Lazio, Lazio e solo Lazio. Croce, delizia ma soprattutto l’ossessione di Long John. Un’ossessione che ora rischia di costargli cara.
Lo “sfizio”, a dire il vero, Chinaglia se l’era già tolto ancor prima di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo. A New York, guardava l’Oceano e pensava a Roma. Probabile che avesse contratto il virus della saudade direttamente da Pelè. “Un giorno, per farmi forza, mi dissi che sarei tornato alla Lazio da presidente”. E presidenza fu. Ma l’incarico e la ritrovata visibilità gli diedero un po’ troppo alla testa. Una sera, durante l’inaugurazione di un night club un po’ troppo affollato, Giorgione, pur di rimediare un tavolino, attaccò Gianni De Michelis al grido di battaglia “lei non sa chi sono io”. La spuntò il ministro socialista. Non va meglio sul prato verde. La Lazio retrocesse in B dopo due stagioni. Dopo una partita contro l’Udinese, Long John in versione Clint Eastwood (ma con l’ombrello al posto della pistola) tentò un’aggressione all’arbitro Menicucci. In un’altra occasione, deluso dal comportamento dei biancocelesti in campo, si presentò armato nello spogliatoio spaccando una quantità indefinita di bottiglie. Tutto questo prima abbandonare una società ormai piena di debiti. Fu l’inizio del baratro.
Dopo essere stato indagato per evasione fiscale, nel 1990 Giorgione tornò sui campi di calcio vestendo la maglia del Villa San Sebastiano (frazione di Tagliacozzo nella Marsica), in seconda categoria. All’esordio, segna due dei tre gol con cui la sua squadra stende lo Sgurgola. Nel frattempo aveva fallito l’impatto con il mondo della politica. La Dc lo aveva candidato alle regionali del Lazio, ma non era andato oltre il primo posto (dei non eletti, s’intende). Ci riprovò alle europee del ’99, candidato (ancora perdente) del Ppi. Da ieri è latitante, giura che tornerà in Italia. Nella sua (presunta) storia recente, scritta in un’ordinanza di custodia cautelare, ci sono aggiotaggi ed estorsioni, misteriosi ungheresi e noti boss della camorra, delinquenti travestiti da tifosi. Congiure e complotti. Ma stavolta non c’entrano né Rivera né Mazzola. E soprattutto non c’è stato un Valcareggi a fermare l’innato vizietto di Long John.
Quel “matrimonio” con Silvio celebrato il giorno dei morti. Il Cav. ora cerca un programma per Fede.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 30 marzo 2012)
Quando ieri sera saluta per l’ultima volta i telespettatori del Tg4, e sì che «dopo tanti anni c’è emozione nel fare un intervento che è un saluto e non un addio», le lacrime che ha dentro sono quasi di gioia. Quasi. Anche se in pochi lo sanno. Nemmeno ventiquattr’ore prima, infatti, nel corso di una riunione drammatica che va in scena nella stanza dei bottoni del Biscione, Emilio Fede ha appena sbattuto la porta. Altro che commozione. «L’hanno fatto mentre Silvio era allo stadio. Questo è un colpo di mano di Fedele Confalonieri», dice in un’intervista (poi smentita) a Repubblica mentre il Cavaliere è a San Siro per Milan-Barcellona.
Ce l’ha con “Fidel”, è ovvio. E anche con il numero uno dell’informazione Mediaset, Mauro Crippa. Ma Berlusconi, mercoledì sera, lo sa oppure no che hanno appena “segato” Emilio? E, soprattutto, perché il Giornale di famiglia, nel dare la notizia del licenziamento, si limita a un corsivetto in prima pagina – titolo: «Fede lascia il Tg4 e Mediaset» – e nulla più?
La risposta è in quello che il Cavaliere confessa ai fedelissimi ieri mattina. «Non posso permettermi di scaricare Fede. Bisogna trovare una soluzione». E la soluzione prende forma: un bel programma tutto per «Emilio». Ma non su Rete4. No. Sulla rete ammiraglia, Canale 5. Giusto per ingannare l’attesa che lo separa dal 2013, quando l’ex direttore del Tg4 sarà catapultato in Parlamento al posto della moglie Diana de Feo.
Magari in corner. Forse con le ossa rotte, visto la procura di Roma pensa a una rogatoria per far luce sui soldi che nega di aver portato a Lugano. Sta di fatto che si salva, forse, Fede. E tutto “grazie” alla sua innata, irruducibile, indomita, accademica arte di attaccare il ciuccio proprio lì, dove vuole il padrone. Che «Emilio» non sviluppa nel suo incontro col Cavaliere. Ma prima. Molto prima.
Perché tocca mettere tutto da parte. L’amore sconfinato per Berlusconi, il gioco d’azzardo, l’odore dei soldi, le donne, le feste, i festini, la fantomatica valigetta di Lugano, il Tg1, Studio Aperto, «Sciupone l’Africano», gli strafalcioni in diretta, le sfuriate, la tristezza di quelle bandierine piazzate su una bacheca durante lo spoglio delle elezioni regionali del ’95. La vera personalità di Fede sta in un dettaglio nascosto, ma tutt’altro che trascurabile, della sua esistenza: il suo rapporto col calcio.
Perché non è tanto l’aver abiurato alla fede bianconera per amor del presidente del Milan. Quanto la motivazione offerta a tutti quelli, e non sono stati pochi, che gli chiedevano come mai in gioventù fosse stato della Juventus. «Ero giovane», raccontò «Emilio». «E mi sono innamorato della Juve anche per necessità. Perché all’epoca, a Torino, io collaboravo con Hurrà Juventus». La necessità, insomma. E quel ciuccio straordinariamente piazzato là, dove vuole il padrone. Che si chiami Hurrà Juventus o Fininvest, non fa differenza.
Sarebbe stato atroce, troppo atroce, se a fregarlo per sempre – come ha detto a caldo a Repubblica – fosse stata quella lite coi vertici di Mediaset arrivata proprio nel momento in cui il Capo stava a San Siro. Quasi ridicolo se a tradire inconsapevolmente lui, che viene da Barcellona Pozzo di Gotto, fosse stato il Barcellona di Pep Guardiola.
E dire che la sua avventura nel Biscione, almeno per come lui l’ha raccontata, era partita sotto i mortuari auspici del 2 novembre di ventitre anni fa. Il giorno dei defunti, insomma. No, «non mi sembrava il caso di far baldoria», raccontò una volta in un’intervista a Libero. Le grandi celebrazioni per il suo approdo a Fininvest vengono rimandate di un giorno. Al 3 novembre, anno 1989. «Prima al Jolly di Milano 2. Poi al ristorante Angolo». Ad alzare i calici, insieme a lui ci sono Berlusconi, Gianni Letta, Confalonieri e Galliani. A cena si aggiunge Gianni Baget Bozzo. «Inizia così la grande avventura, un’avventura di libertà».
Al diavolo la realtà. Abbasso la verità. La storia di Fede, raccontata da Fede, pare una favola. Compreso l’incontro con Berlusconi. «La primissima volta che mi contatta sono ancora in Rai. Mi invita per un caffè al residence di Ripetta di Roma. E mi offre la conduzione di un programma domenicale e di un settimanale stile Tv7». È il 1982. Ma l’Emilio rifiuta. Poi se lo ritrova davanti al Castello Sforzesco, il Cavaliere, alla festa per la Coppa Campioni appena vinta dal Milan. Sono passati sette anni dal primo caffè.
Per come l’ha sempre ricostruita Fede, lui dice di essere in cerca di un editore. Galliani risponde «e noi cerchiamo un direttore». E qualche mese dopo Berlusconi alza il telefono: «Emilio, hai voglia di darci una mano per l’informazione?». Fin qui l’Emilio che racconta se stesso.
Ma quando sono gli altri a raccontare lui, ecco che vien fuori il suo best of. A Gad Lerner, che nel dicembre scorso gli dedica parole amare («Verrà ricordato ato più come selezionatore delle ragazze di Berlusconi»), Fede risponde con citazioni auliche. «Non sarai tu a decidere come sarò ricordato. Tu, quando arriverai a 80 anni, soltanto come un imbecille. (…) Se ho avuto delle storie d’amore me le sono meritate. Tu sei troppo brutto per averne avute. Soltanto se ridi scappano pure i mostri. Coglione».
Su almeno uno dei commi di cui sopra, quello che comincia con «se ho avuto delle storie d’amore…», avrebbe avuto da ridire financo la compianta Audrey Hepburn. Perché Fede, evidentemente non accontentandosi di aver sbandierato un flirt con Enza Sampò e dei non meglio precisati «incontri segreti» con Maria Pia Fanfani, fece credere di aver avuto una storia anche con lei. Salvo poi precisare di essersene solo innamorato (c’è una piccola differenza, no?) quando l’attrice era venuta in Italia, a Taormina, per il David a Vacanze romane.
In fin dei conti ha fatto così anche nelle ultime quarantott’ore. «È stato un colpo di mano di Confalonieri». Anzi no, «mai detto che è stato un colpo di mano di Confalonieri». Tra le due frasi, l’intervento del padrone. E quel ciuccio che sarà parcheggiato sempre là. E pazienza se di fronte ci saranno le telecamere di un programma su Canale 5 e non più il Tg4. Quando Emilio esce, a riverder le stelle ci riesce sempre.
Totoministri killer. Storia di nomine mancate, dall’epoca di Andreotti a quella di Monti.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 17 novembre 2011)
Frattini, Buttiglione, Lupi e altri ancora. Sono le ultime vittime della più infernale macchina partorita dal tandem politica-giornalismo: il totoministri.
Uno ci spera, ci lavora, finisce sui giornali. Spiffera, trama, dichiara. Fa spifferare, tramare e dichiarare. Poi spunta sempre il Mario Monti di turno, che sbuca dal portoncino del Quirinale e legge «la lista» che si abbatte su di loro come la giustizia dell’Ezechiele 25,17, il finto passo della Bibbia che Tarantino inventa per Pulp Fiction. «Con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno».
Loro sono le vittime della «notte dei lunghi trombati». Quelli che dovevano starci, al governo. E che poi sono “saltati”. Franco Frattini se la sentiva in tasca, la riconferma. E non tanto perché il titolare della Farnesina aveva dimostrato, all’epoca di Lamberto Dini, di riuscire a stare anche in un governo tecnico. Anche Mariastella Gelmini ci aveva provato, alla fine della settimana scorsa. Le voci (amiche) di Palazzo si rincorrevano dolci, soavi, vellutate. «Alfano ha convinto Berlusconi a sostenere Monti». Ergo, «quelli a lui più vicini saranno di nuovo ministri». E poi niente, puff, svaniti. Come la nomination di Maurizio Lupi a un dicastero di prima fascia, l’Istruzione. E «il pressing della Chiesa», e «l’accelerazione di Cl», «è così», «vedrete». Le voci rimbalzano nei resoconti d’agenzia, a volte sui giornali. Fino a quando si scopre che colà si sono voluti ministri Riccardi e Ornaghi – cattolici, cattolicissimi – e un’altra infornata di abiti blu e tailleur eleganti torna in naftalina.
Perché altro che Gianni Letta e Giuliano Amato, su cui s’è davvero trattato fino alla fine. Le vittime dell’ultimo totoministri sono state altre. Umberto Veronesi, che agli amici aveva confidato le speranze di andare al ministero della Salute, uscito di scena dopo un paio di articoli di Avvenire. Pietro Ichino, che per un certo numero di ore ha puntato al Welfare. Rocco Buttiglione, che i suoi davano per «certo, certissimo» ai Beni Culturali. E pure Emma Bonino, che adesso tratta il suo amico Monti con un po’ di carota («È la persona più appropriata») e un po’ di bastone («La luna di miele finirà presto»).
E dire che, nel crepuscolo della Seconda Repubblica, la «trombatura» è molto meno dolorosa rispetto all’epoca in cui da Piazza del Gesù partiva una macchina con una lista che veniva poi stravolta strada facendo. Successe anche dopo la fine della Dc. Come sa benissimo Salvatore Ladu, ex senatore sardo vicino a Franco Marini. Che il 22 dicembre 1999 si presentò all’ingresso del Quirinale convinto che da lì a pochi minuti avrebbe giurato come ministro delle Politiche comunitarie del governo D’Alema bis. E che invece se ne tornò verso casa disperato, in lacrime, perché la compagna di partito Patrizia Toia gli aveva fregato il ministero sul filo di lana. Gli amici che lo sorressero in quel momento difficilissimo, tutti della corrente mariniana, ricordano ancora le minacce di suicidio che il malcapitato proferì durante il più duro tragitto in macchina della sua esistenza. Minacce a cui, per fortuna, Ladu non diede seguito. Anche perché, meritoriamente, poi venne recuperato come sottosegretario.
Altro che uomini che entrano in conclave papi e ne escono cardinali. In politica capita che un minuto prima sei ministro e un minuto dopo niente. Come l’ex diccì-ppi calabrese Donato Tommaso Veraldi, ex parlamentare europeo. All’epoca dei governi di centrosinistra, Veraldi era stato più volte sul punto di diventare ministro delle Infrastrutture. Soltanto in una di queste, però, fece il passo più lungo della gamba. Fu quando, sempre ai tempi del governo D’Alema, prima di recarsi al Colle per il giuramento raccolse gli amici attorno a un paio di bottiglie di champagne. «Auguri al ministro!», «Cin Cin!», «Viva la Calabria!». Qualche ora dopo gli stessi amici, visibilmente alticci, si piantarono attorno a lui, tutti armati della stessa, identica, frase di circostanza: «Sarà per la prossima volta, Dona’».
Ma tutto questo è acqua fresca se si pensa al supplizio inflitto a un altro dc di rango, Mauro Favilla. L’ex sindaco di Lucca, nel giorno del giuramento di uno degli ultimi governi Andreotti, arrivò a sedersi nel salone delle feste del Quirinale insieme al resto dei ministri. I fotografi gli dedicarono più d’un clic, come si conviene con un politico che sta per diventare titolare delle Finanze. E invece, prima dell’inizio della cerimonia, qualcuno lo chiama. Prima è un sussurro. «Favilla». Poi qualcosa di più. «Favilla! Favilla!». Finchè Favilla non si alza e imbocca un corridoio laterale col funzionario del Colle che ha appena destato la sua attenzione. Lo stesso che stava per comunicargli la più ferale delle notizie. Proprio nell’istante in cui, voltantosi, Favilla ebbe giusto il tempo di capire che la poltrona aveva già trovato un altro occupante. E il ministero delle Finanze, di conseguenza, un altro inquilino.
Così cadde nel ’94. Allontanandosi in auto dopo il tradimento di Bossi: «Non è una resa. Io sono come Van Basten»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 dicembre 2010)
C’era una volta un «traditore», che Lui allora chiamava «il mio Umbertone», che poche sere prima aveva pasteggiato a sardine e pan carré, e brindato all’imminente caduta del governo con birra in lattina e coca cola. C’era una volta un inossidabile fedelissimo, che Lui allora chiamava «il mio Gianfranco», che pur di non bere il velenoso calice del Giuda continuava a ripetere «Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». C’era una volta l’Aula di Montecitorio, in cui la maggioranza dei deputati aspettava di votare tre mozioni di sfiducia. E soprattutto c’era una macchina che marciava spedita verso il Quirinale. Con un uomo, seduto dietro, che sussurrava: «Non pensate che sia una resa. Io sono come Van Basten». C’era una volta il 22 dicembre 1994. Il giorno della «caduta», che il manifesto dell’indomani avrebbe celebrato con l’ultima beffa all’unto del Signore. E un titolo natalizio: «Tu cadi dalle stelle».
Che fosse arrivato al de profundis, il Berlusconi I figlio del nordista «Polo della Libertà» (Forza Italia più Lega) e del sudista «Polo del Buongoverno» (Forza Italia più An), era chiaro da un mese. Da quando il Cavaliere, alle 21 del 21 novembre, a poche ore dall’inizio della Conferenza Onu sulla criminalità in programma a Napoli, viene informato del celeberrimo avviso di garanzia di cui avrebbe dato notizia, il giorno successivo, il Corriere della Sera. Dieci giorni e sarebbe successo di tutto: la guerra dichiarata di Berlusconi a Oscar Luigi Scalfaro («Il Presidente mi deve sostenere senza tentennamenti e ambiguità»), l’ispezione del guardasigilli Alfredo Biondi nelle stanze del Pool di Mani Pulite, la manifestazione di diecimila forzisti a favore del governo, la vittoria del centrosinistra al ballottaggio di un mini-turno di amministrative, le dimissioni di Tonino Di Pietro dalla magistratura, con quella toga tirata giù al grido di sì, «me ne vado, con la morte nel cuore». Ma visto che nemmeno una guerra mondiale può scoppiare senza un incidente, ecco che spunta, all’esame della Camera, la proposta del presidente Irene Pivetti di istituire una «commissione speciale sul riordino del sistema radiotelevisivo». Quel 15 dicembre del 1994, mentre Fabio Fazio sta consultando gli indici d’ascolto del suo Quelli che il calcio… e Roberto Saviano non è che un quindicenne spensierato (Mauro Masi, un anno dopo, sarebbe diventato lo spin doctor ombra del governo Dini), in sella al cavallo di Mamma Rai nasce un’altra maggioranza. Pds, Ppi e la Lega di Umberto Bossi votano la proposta della Pivetti, che esautora la commissione Cultura di Vittorio Sgarbi e trasforma l’Aula di Montecitorio in un ring. Forza Italia e An sono in minoranza.
Gianfranco Fini invita i suoi a fare il guardiani della rivoluzione del Cavaliere. «Gol-pe, gol-pe, gol-pe», urlano dai banchi di An. «Non partecipo a una votazione che fa nascere una nuova maggioranza che calpesta le regole», sbraita IgnazioLa Russa. LaPivetti è un bersaglio umano. Il ccd Ciocchetti le indirizza per posta prioritaria, scandendolo, un comprensibilissimo «ma vedi d’anna’ affanculo» a cui forzisti e finiani tributano lunghi applausi. Fa ancora meglio Gian Piero Broglia, pasdaran berlusconiano. «Sta zitta, buffona». E ancora: «Qua dentro c’è il primo tangentista della Seconda repubblica. Si chiama Umberto Bossi». Poco più tardi Sgarbi invocherà perla Pivetti«una perizia psichiatrica», da effettuarsi – testualmente – su «quel cervello completamente vuoto». Beccandosi in cambio due libri, quelli che il comunista Nappi gli tira in testa nelle stanze della commissione Cultura.
Dietro la rissa reale, degna dei giganti del wrestling che le tv del Biscione trasmettono ogni domenica mattina prima delle «bombe» pallonare dell’indimenticato Maurizio Mosca, c’è una sola verità. Bossi ha tradito, Berlusconi non ha più la maggioranza. L’Umbertone, però, ha un problema interno. Una parte dei suoi, «colombe» come oggi lo sono nel giro dei finiani che fa capo alla ditta «Moffa, Viespoli&co.», vuole evitare la rottura con Berlusconi. Il loro leader è Bobo Maroni, titolare del Viminale. Che finisce sotto processo accusato dai falchi in camicia verde, capitanati da Francesco Speroni, che fanno quadrato attorno al Senatur: «Berlusconi sta cercando di comprare i nostri parlamentari. Ma noi stiamo con Umberto». Lo stesso Umberto che la sera stessa riceve a casa sua, nella periferia romana, Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione. L’accordo a tre per mandare a casa il Cavaliere di Arcore è sul tavolo. Insieme – nell’ordine – a due scatolette di sardine, pan carré, coca cola e birra in lattina, il menù che un Senatur con frigo vuoto sottopone al palato degli increduli commensali. Le mozioni di sfiducia sono pronte.
La crisi di governo è aperta. Al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro ha già avviato un giro di pre-consultazioni istituzionali. Sono i giorni in cui finisce sui giornali la leggenda della chiamata che parte dal Colle e arriva negli uffici della Procura di Milano. «Se dovete fare qualcosa, fate presto». Dall’altro capo del telefono c’è Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi è nell’angolo. Tenta una controspallata di piazza ma i suoi «Club della libertà», nel corteo di Milano, non vanno oltre una decina di migliaia di effettivi. E si arriva al dibattito alla Camera. La penultima stazione del calvario del Berlusconi I. È il 21 dicembre. Alle 14, quando inizia la diretta televisiva da Montecitorio, il Cavaliere prende posto tra Maroni e Pinuccio Tatarella. Davanti a sé ha qualche decina di cartelle che leggerà in ventisei minuti contati e un bouquet di citazioni che comprende Jacques Maritain e Abramo Lincoln, don Sturzo e Pietro Calamandrei, Umberto Terracini e UgoLa Malfa. Ilsenso è uno solo: «Bossi è un traditore», impegnato (ma questo passaggio del testo non verrà mai letto) «in un furto con scasso per mere ambizioni di potere». La mozione di sfiducia della Lega? «Uno schiaffo alle regole e una clamorosa offesa al buonsenso e alla fiducia dei cittadini», e ancora «una truffa ai danni degli elettori», e quindi «una clamorosa violazione della Costituzione», «un messaggio devastante per la democrazia», come dire – e qui il pathos del premier raggiunge vette da Mortirolo – «care elettrici, cari elettori, le elezioni non contano un bel niente».
È Berlsconi che parla. Ma sembra l’Ezechiele del passo biblico «25, 17» che Tarantino mette in bocca a Samuel Jackson in Pulp fiction («E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno»). «Grande rapina», dice Silvio. «Grande scippo», insiste Silvio. «Ricettazione», «autentica truffa», accusa Silvio. Fini lo sostiene come il più fedele degli scudieri. «Oggi – scandisce il leader di An nel suo intervento – non finiscela Prima Repubblica. Oggi finiscela Lega». Le colombe di Maroni, però, hanno capitolato. Il Carroccio, che tradisce in blocco, ha la faccia del Bossi che vira la mano sinistra sull’avambraccio destro e che, guardando Fini, urla: «Tié». Il vecchio leghista Luigi Rossi, 84 primavere alle spalle, scavalca a destra (o a sinistra?) il Senatur. È lui a opporre al leader di An l’intervento più breve della storia del Parlamento. Una parola: «Vaffanculo». Mario Landolfi, finiano, risponde con due, di parole: «Taci, cadavere». Francesco Storace sale a quattro: «Rientra nel tuo sarcofago». Tutto inutile. Le dimissioni di Berlusconi sono già decise. L’appuntamento col Capo dello Stato è fissato per ventiquatt’ore dopo.
In omaggio all’adagio christiano (nel senso di Agatha) secondo cui «nella mia fine è il mio principio», «Silvio» prepara una videocassetta. Con una videocassetta, trasmessa dal Tg4 a gennaio, era sceso in campo. Con una videocassetta, inviata a tutte le televisioni a dicembre, saluta gli italiani chiedendo loro di scendere in piazza contro «il tradimento». Nel Transatlantico di Montecitorio si discute del «dopo». L’opzione Dini, che si materializzerà a inizio anno, non s’intravede neanche nei radar. Al netto della proposta del Pds («Serve un Ciampi bis», mette a verbale D’Alema), l’ipotesi è una sola, un «governo del Presidente». I nomi, invece, sono due: Carlo Scognamiglio, presidente del Senato. O Francesco Cossiga. Quest’ultimo si fa organizzare un incontro con Fini. L’appuntamento è a Palazzo Madama, nello studio del vicepresidente Romano Misserville, un post-missino che anni dopo avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità nel governo D’Alema bis. «Caro Gianfranco», scandisce l’ex capo dello Stato, «io non mi presto a formare alcun governo del ribaltone. Vorrei però sapere se da parte vostra c’è la disponibilità ad appoggiare un esecutivo da me presieduto che conduca alle elezioni». Fini, che pure ha un grande debito di riconoscenza nei confronti del Picconatore, scuote la testa: «Caro presidente, mi dispiace ma noi preferiamo Berlusconi. L’ho già detto a Mariotto Segni l’altro giorno: per Alleanza nazionale, Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». L’ex presidente della Repubblica non insiste più di tanto. Anche perché «Gianfranco» è irremovibile: «Per quanto mi riguarda, le uniche strade percorribili sono il Berlusconi bis o le urne. Ieri ho detto alla Camera chela Legaè finita. Mi sbagliavo. È Bossi che è finito. Con lui io e Silvio non prenderemo più neanche un caffè».
Mentre Fini e Cossiga sono ancora a colloquio, Papa Wojtyla sta scrivendo una lettera a François Mitterrand per chiedergli di «tornare alla fede», Boris Eltsin è alle prese con le polemiche per i raid aerei su Grozny, Alberto Tomba sta dominando lo slalom gigante dell’Alta Badia e il pentito della ‘ndrangheta Cesare Polifroni sta sostenendo di fronte ai magistrati che Riina voleva uccidere Claudio Martelli. Nel frattempo c’è quella macchina, che marcia spedita verso il Quirinale. A bordo ci sono Berlusconi e le sue dimissioni. In testa, il Cavaliere, ha molti pensieri. Uno su tutti : «Si è persa una grande occasione. È come se una squadra avesse comprato un campione da trenta goal l’anno e poi gli arbitri gli si fossero accaniti contro, guardandolo in cagnesco durante ogni partita e fischiandogli sempre il fallo contro. Allora anche la squadra l’ha abbandonato. A me è successo questo». Silvio bomber, come Van Basten. Silvio e la fedeltà di Fini. Silvio e il tradimento di Bossi, la fine di un amore perso che si sarebbe poi ritrovato, anni dopo. Come nei versi di Mariano Apicella a cui spesso lo chansonnier di Arcore ha prestato la sua voce. Ma se adesso ancora lo vuoi / per ritrovar l’amore basta poco lo sai / per ritornare a vivere come prima tu ed io / e per cancellare questo falso addio.
Pingitore story. «Vi racconto il Bagaglino, da Gabriella Ferri a Berlusconi»
di Tommaso Labate (dal Riformista del primo ottobre 2011)
Non ha la voce triste. Forse un po’ stanca, quello sì. Ed è la stanchezza di chi sta facendo calare il sipario su una fragorosa risata durata mezzo secolo. E quando sottolinea che «in televisione i miei spettacoli facevano il 40, e a volte anche il 45» – omettendo come tutti quelli “del settore” di specificare «per cento» – in fondo vuole dire che di 100 italiani che stavano incollati davanti al tubo catodico, 40 («e a volte anche 45») erano tutti per il Bagaglino. «Oggi sei considerato un fenomeno se riesci ad arrivare al 16. La televisione vittima dei format è la morte dell’intelligenza. Tutti comprano la prima cosa che arriva dall’estero, nessuno inventa più nulla». Pier Francesco Pingitore, che gli amici hanno sempre chiamato «Ninni», nato a Catanzaro addì 27 settembre 1934, è la voce fuori campo di un film che comincia dalla parola «fine». E che, nel fotogramma successivo, mostra quattro giornalisti chiusi in uno scantinato nella Roma dell’autunno 1965.
«Non ho alcun rimpianto. Tutto quello che volevo fare l’ho fatto. E questa grande storia che è stata il Bagaglino s’è conclusa dopo quarantasei anni», scandisce. E subito dopo, quasi a rimarcare un record di longevità che farebbe impallidire anche Silvio Berlusconi, «me lo dica lei: chi riesce a stare sulla scena per quasi mezzo secolo?». La direzione del Salone Margherita, il teatro nel cuore di Roma che ha ospitato la compagnia di Pingitore fino alla stagione scorsa, ha deciso di chiudergli le porte. «E pensare che anche l’ultima produzione teatrale era finita con un attivo», spiega con una punta di rammarico. La fine di una grande storia. Grandi cosce, grandi tette, grandi culi, grandi risate, grande pubblico. «Da qui sono passati tutti. Una sera telefonarono dall’ambasciata americana perché Jackie Kennedy voleva venire. La segretaria rispose che non c’era posto», ha ricordato l’altro giorno in una battuta affidata al Messaggero. A corollario di un racconto di successo che inizia nel 1965.
LA CANTINA A VICOLO CAMPANELLA. Aldo Moro guida il governo di centrosinistra che evita il collasso dell’economia annunciato da più parti. Pochi mesi prima, a luglio, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha tagliato insieme a Charles De Gaulle il nastro inaugurale del Traforo del Monte Bianco. A settembre, quando dall’altra parte del Tevere è cominciata l’ultima fase del Concilio Vaticano secondo, quattro giornalisti affittano una cantina a vicolo Campanella. «Stavamo a due passi da via di Panico. Castel Sant’Angelo sta praticamente di fronte», racconta Pingitore, che all’epoca ha trentun’anni e vive a Roma da ventinove («La mia famiglia aveva lasciato Catanzaro per la Capitale quando avevo due anni»). «Ninni» era redattore capo al settimanale Lo Specchio, Mario Castellacci lavorava al Giornale radio della Rai, Luciano Cirri al Borghese e «poi c’era Piero Palumbo». «Ci mettemmo a scrivere testi un po’ per gioco. Convinti che, al massimo, sarebbero venuti a vederci giusto gli amici». E così, nell’autunno del 1965, nasce – in onore di Anton Giulio Bragaglia – la compagnia del Bragaglino, che poi corresse il nome a causa di un’ingiunzione degli eredi dell’artista che era scomparso cinque anni prima. «Eravamo anarchici di destra», spiega Pingitore. «Diciamo pure che era il nostro modo di marcare le distanze rispetto all’egemonia culturale della sinistra, che in parte dura ancora oggi». Nessuna critica di metodo al Pci. Anzi. «I comunisti, che secondo la definizione di Ruggero Zangrandi avevano portato con loro gli intellettuali del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, fecero un’operazione intelligente. Noi, però, stavamo fuori. Non volevamo essere embedded. Per questo ci definivamo anarchici di destra». Tra i primi artisti che entrano nella compagnia ci sono Oreste Lionello, Pino Caruso, Tony Cucchiara, Nelly Fioramonti. E soprattutto lei, Gabriella Ferri. Il primo spettacolo, che viene messo in scena nel novembre 1965, si chiama I tabù. «Il primo tempo era fatto di sketch, il secondo di canzoni». Otto anni dopo, e siamo nel 1973, Dove sta Zazà diventa il primo spettacolo del Bagaglino che viene trasmesso in diretta dalla Rai. Regia di Antonello Falqui. L’anno prima, la compagnia s’era trasferita al Salone Margherita, a due passi da piazza di Spagna.
DOVE STA ZAZA’. «La star era lei, Gabriella Ferri. Negli anni precedenti aveva raggiunto un grande successo, anche all’estero», racconta Pingitore. Dove sta Zazá? / Uh, Madonna mia / Come fa Zazá / senza Isaia? La censura? «C’era un grande controllo sul prodotto, ovviamente. Ma non abbiamo quasi mai avuto problemi. Portavamo in scena il cabaret evitando la politica spicciola e affrontando, semmai, temi generali». Era la Rai di Ettore Bernabei. «Un’azienda tollerante, aperta». E la destra? E la sinistra? Diccì-piccì? «Satira, satira, satira», spiega. «Ci siamo sempre ispirati alla definizione di Orazio: dire la verità sorridendo. Tutto qua». Tanto bastava per andare d’accordo, anche tra di loro. «Ho sempre lavorato indifferentemente con artisti che stavano a destra e sinistra. Pensate alla grande differenza di idee che avevano Oreste Lionello (destra, ndr) e Leo Gullotta (sinistra, ndr)». D’altronde, era più a sinistra anche la sua prima vera «star», la Ferri.
CELLULOIDE. Chiusa la stagione televisiva di Dove sta Zazà, il Bagaglino continua ad animare le stagioni del Salone Margherita. E al teatro si aggiunge anche il cinema. Pingitore firma la regia di Romolo e Remolo (1976) una trentina di anni prima che la battuta venga sdoganata dal celeberrimo lapsus di Berlusconi. Poi una serie di titoli che, molto banalmente, parlano da soli. Scherzi da prete (1978), Tutti a squola (1979), Gian Burrasca (1982), Attenti a quei P2 (1982). Nel 1984 «Ninni» collabora alla stesura dei dialoghi dell’Allenatore nel pallone, la pellicola di quell’Oronzo Canà interpretato da Lino Banfi che oggi viene considerata un oggetto di culto. L’anno successivo firma (insieme al regista Sergio Martino) la sceneggiatura di Mezzo destro, mezzo sinistro, strampalata storia di una squadra di calcio (la Marchigiana) allenata da un sergente di ferro (Leo Gullotta) e con un bomber d’eccezione (Andrea Roncato). Poi arriva la svolta. Sul piccolo schermo.
IL BOOM DI BIBERON. Alla fine degli anni Ottanta arriva Biberon. Martedì, prima serata, Rai uno. «Con Biberon siamo di fronte a una truffa vera e propria ai danni dell’intelligenza degli italiani», scrive Il Mondo. «La satira di Pingitore si limita a qualche innocuo moto di stizza pantofolaia, che termina in un ossequioso inchino al cospetto del potere», annota Il Sole 24 ore. «L’incontro settimanale fra i politici e il pubblico di Biberon finisce sempre a tarallucci e vino», aggiunge Beniamino Placido su Repubblica. Giustificate o meno che fossero le critiche, spiega Pingitore, «da lì conquistiamo un posto al sole». La coppia Oreste Lionello-Pippo Franco, con Leo Gullotta trequartista, sbanca l’audience. Poi, nel 1993, quando l’economista Claudio Demattè diventa il presidente della Rai «dei professori», il Bagaglino finisce in naftalina. «Volevano dare alla tv di Stato una svolta, se non moralistica, quantomeno moralizzatrice», ricorda Pingitore. «Fu un periodo poco bello, anche perché per alcuni mesi finimmo “tra color che son sospesi”». Come andò a finire? «Senza il Bagaglino in palinsesto, la Rai si trovò un buco nella raccolta pubblicitaria. I “professori” ci richiamarono e anche Demattè, col quale poi ho avuto un ottimo rapporto, si ricredette. La verità è che aveva giudicato il nostro prodotto senza mai averlo visto. Infatti, quando venne a vederci, lo spettacolo gli piacque». L’anno prima, nel 1992, durante una puntata di Crème caramel e di fronte a dieci milioni e mezzo di italiani, Giulio Andreotti era salito sul palco del Salone Margherita. Il «Divo», all’apice della sua carriera, era la stessa persona che una quindicina di anni dopo, nel 2006, avrebbe annunciato a pochi giorni dalle elezioni: «Voto per Pippo Franco», candidato al Senato con la piccola e nuova Dc di Rotondi.
L’INCONTRO COL CAV. Nel 1995, il Bagaglino si trasferisce a Mediaset. «Incontrai Silvio Berlusconi, ci chiese di andare da loro e io accettai», dice Pingitore. «Persona simpatica, si vedeva che era un grande imprenditore e che conosceva benissimo la televisione», aggiunge. Da lì la sfilza di prodotti by Bagaglino che attraversano la Seconda Repubblica. Da Champagne (1995) a Bellissima – Cabaret anticrisi (2009), passando per Bucce di banana, Marameo, Miconsenta e amenità varie. Escono dall’anonimato le forme di Pamela Prati e quelle di Valeria Marini, Lorenza Mario e Milena Miconi, e poi Ramona Badescu, Eva Grimaldi, Nathalie Caldonazzo, Matilde Brandi, Aida Yespica. Il tempo dei giudizi sull’efficacia della satira (i politici sono «più divertiti che feriti dalla graffiature», scriverà Aldo Grasso) è passato. «Non abbiamo mai avuto pressioni né da destra né da sinistra. E non sto certo qui a fare il martire, dopo tanti anni», spiega Pingitore. «Da noi sono venuti in tanti e di tutti i partiti: da Andreotti a Di Pietro, da La Russa a Pecoraro Scanio, da Gasparri a Vladmir Luxuria».
BAGAGLINO NOIR. Dalla cronaca alla storia. Dal film ai titoli di coda. E pensare che, in cinquant’anni di risate, nella grande storia del Bagaglino c’è anche un segretissimo capitolo noir. Con una parte all’apparenza molto seria e una ai limiti del paranormale. La parte seria riguarda un articolo firmato nel 1966, ripescato nel 1998 dal giornalista Paolo Cucchiarelli per il settimanale Diario, in cui Pingitore svelava i movimenti della scorta di Aldo Moro molto prima dell’agguato di via Fani. La parte comica, invece, rimanda alla leggenda metropolitana (alimentata dall’avvento di Internet) sul fantomatico omicidio di Pippo Franco, avvenuto all’inizio degli anni Ottanta per mano di un agricoltore che aveva sorpreso il comico sul suo terreno. Stando alla storiella, un po’ la versione capitolina dei coccodrilli che animano la fauna delle fogne newyorkesi, la Rai avrebbe indetto un concorso segreto per sostituire Pippo Franco con un sosia, lo stesso che si vede anche oggi (spesso a braccetto del suo amico onorevole Mimmo Scilipoti). Acqua passata. Titoli di coda. E una voce narrante, che chiude il cerchio. Quella di Pingitore. La tivvù di oggi? «Io facevo il 40 di share, a volte il 45. Oggi se fai il 16 sei considerato un fenomeno. I programmi li fanno acquistando format dall’estero. La morte dell’intelligenza. Le serie televisive sono tutte uguali: siamo al trecentesimo ospedale, al quattrocentesimo commissariato di polizia… Mi annoiano anche il talk show politici: salotti in cui si litiga senza che ci sia mai la possibilità di ascoltare un discorso serio. Non c’è rispetto per il pubblico e gli spettatori vengono trattati come cretini. Per questo faccio zapping. E vedo tutto, senza guardare nulla». L’ultima cosa bella che ha visto sul piccolo schermo? «L’altra sera hanno rimandato I soliti ignoti…». Regia di Mario Monicelli, bianco e nero, Italia, 1958. Sette anni prima che quattro giornalisti affittassero una cantina a vicolo Campanella, nel cuore di Roma.
Roberto Maroni, l’outsider.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 giugno 2011)
Che stia lavorando per essere «l’uomo di domani» lo dimostra l’attenzione che sta dedicando – unico tra i politici – al più grande tema di cui si discute nei bar italiani: il calcioscommesse. E pensare che qualche mese fa, come aveva confidato a pochi amici, stava addirittura pensando di mollare la politica. Ladies and gentlemen, Roberto Maroni. L’outsider.
Sembra l’unico esponente del centrodestra ad essere uscito rivitalizzato dalle «mazzate» subite dal blocco Pdl-Lega alle amministrative e ai referendum. Un po’ perché, come spiegano nel suo giro a via Bellerio, «se gli avessero dato ascolto, quantomeno sui quesiti di domenica e lunedì, a quest’ora Bossi e compagnia avrebbero salvato il salvabile». Un po’ perché lui, comunque, per il solo fatto di essersi presentato alle urne – accompagnato dai big della sua corrente (Luca Zaia su tutti) – la faccia l’ha salvata. Eccome.
Bobo Maroni, insomma, è il leghista con le mani più vicine alla “spina” del governo. Nel senso che è vero, forse la sua parte in commedia è la più rischiosa. Ma è altrettanto vero che se c’è un uomo che può salvare l’Alberto da Giussano dall’abbraccio mortale del Cavaliere da Arcore, quell’uomo è lui. Non foss’altro perché – e le stime sulla partecipazione dell’elettorato del Carroccio ai referendum ne sono una prova – al momento è il big del partito più sintonizzato con la base leghista.
Eppure, poco prima che iniziasse la campagna elettorale delle amministrative, il titolare del Viminale aveva altri pensieri. Addirittura, aveva confidato agli amici più stretti parlando del «carrozzone» del governo «Berlusconi-Scilipoti», tra i suoi desiderata aveva fatto capolino l’idea di «mollare la politica». Forse per tornare «a fare l’avvocato», magari «per riprendere in mano l’organo Hammond» insieme al suo vecchio gruppo blues, il Distretto 51.
Oggi, invece, è tutto diverso. L’uno-due subìto dal centrodestra nell’ultimo mese ha dimostrato che i tiri di sciabola o fioretto che il titolare del Viminale aveva via via indirizzato al governo erano più che fondati. I guai giudiziari di Berlusconi? I cordoni della borsa tenuti sigillati da Tremonti? L’ascesa nella Lega del «cerchio magico» di bossiani ortodossi, per cui nutre – insieme anche a Roberto Calderoli – una sana (eufemismo) “antipatia”? «Se solo Bossi m’avesse dato retta… », ripete ai colleghi di partito. Inutile chiedergli di completare la frase, di portarlo allo scontro frontale col Capo. Perché lui, il ministro dell’Interno, puntualmente si ritrae: «Vabbe’, guardiamo al futuro. Lasciamo perdere».
Sulla bussola di governo no, Maroni non lascia più perdere. E gli avvisi di sfratto recapitati negli ultimi giorni a Berlusconi e Tremonti la dicono tutta su quanto vorebbe staccarla, quella spina che ha tra le mani. «O si cambia o si muore», ha detto al Corriere della sera di lunedì. «Mia nonna diceva che uno sberlone fa male, ma a volte ti fa rinsavire. Ma, come diceva ieri Calderoli, non vogliamo che arrivi la sberla del non c’è due senza tre», ha ribadito ieri. E ancora: «C’è la crisi economica. E ci vuole coraggio, oltre alla prudenza. Spero davvero che si metta mano alla categoria del coraggio». Quando gli domandano se dopo i referendum ha parlato con Berlusconi, il ministro dell’Interno risponde: «No, col premier no. Ho parlato col mio amico Daniele Marantelli, però». Lo stesso Marantelli, deputato e deus ex machina del Pd di Varese, che scommette: «Maroni può fare tutto tranne una cosa. Non taglierà mai la faccia a Bossi. Piuttosto torna a fare il musicista…».
Morale della favola? Nel Carroccio che prepara con trepidazione l’appuntamento di domenica a Pontida, sperimentando addirittura la paura della contestazione del «popolo padano», Maroni incarna la «linea dura». Quella della «rottura». Della «svolta». Della liberazione, come dicono i suoi, da «questo berlusconismo».
Perché, in fondo, sono anche gli scherzi della storia. All’epoca del ribaltone del 1994, Maroni era il capofila dei leghisti che non volevano abbandonare il Cavaliere. «O rimaniamo con Berlusconi o si va a votare», sosteneva «Bobo» al quel tempo. Al contrario dell’«Umberto», che aveva siglato nella sua residenza romana, insieme a Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, quel «patto delle sardine» che avrebbe portato alla fine del primo governo di Silvio.
Era l’epoca della «fronda» maroniana dei leghisti pro-Berlusconi. Uno dei suoi fedelissimi di allora, il vicepresidente del Senato Marcello Staglieno, aveva addirittura avanzato l’idea del “regicidio”: «Convochiamo l’assemblea federale per togliere Bossi e fare segretario Maroni». Una provocazione a cui il Senatur aveva risposto con l’asprezza dei bei (si fa per dire) tempi: «Me ne frego di Staglieno, la fronda non esiste. Al momento del voto sulla mozione di sfiducia – aveva scandito l’Umberto simulando il mitra – op! pum!. Tutti voteranno come dico io, da Maroni in giù».
Oggi la storia viaggia sul binario contrario. Bossi pensa che «Berlusconi sia cotto» e Maroni è il capofila degli antiberlusconiani della Lega. Aspettando Pontida si può immaginare di tutto. Compreso che il titolare del Viminale diventi il premier dell’unico governo di mini-transizione su cui Bersani potrebbe schierare i suoi. Il tempo di fare la riforma elettorale, magari approvando un modello che consenta alla Lega di andare da sola al prossimo giro, e via. Può succedere a giugno. Oppure dopo l’estate. Chi conosce «Bobo» giura che lui guarda lontano. Oltre il berlusconismo. Senza dimenticare che la politica si fa coi voti, e che a votare ci fa la gente. Quella che si mette in fila per i referendum. E quella che trattiene il fiato sul calcioscommesse. Pensando la stessa cosa che Maroni, unico tra i politici, ripete in continuazione: «Il mondo del calcio? Si vede che non ha imparato la lezione». Un po’ come Berlusconi.