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«Fassina ha la voce di Cristiano Malgioglio». Il libro Cuore del Pd arriva su Twitter
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 marzo 2012)
Il primo sussulto arriva quando Paola Concia rompe una narrazione armoniosa scrivendo che «Ichino fa Ichino» e «non dice nulla sull’articolo 18». Per il secondo tocca aspettare una somiglianza fonica scovata e postata su Facebook da Pina Picierno. «Oh, ma Fassina ha la stessa, identica voce di Cristiano Malgioglio!».
Nel giorno dell’unità ritrovata attorno alla linea «Monti cambi la riforma del lavoro», il quartier generale piddì del Nazareno si trasforma nella casa del Grande Fratello. E l’eco della direzione del partito, che va in scena dentro, arriva magicamente fuori. Siamo al «dentro ma fuori dal Palazzo», come recita lo storico slogan di Radio Radicale? E soprattutto, i Democratici sono diventati come il partito di Pannella? Più o meno. I secondi si fanno sentire dai vicini di casa anche (e soprattutto) quando litigano. Il primi alzano la voce in tempo di pace.
Sia come sia, quando Bersani apre la riunione del parlamentino, la deputata Concia inizia a torturare l’Ipad. Lasciando messaggi in bottiglia verso l’esterno. «Parla Bersani: abbiamo un profilo europeo ok», «Bersani: Monti non è venuto dopo i partiti ma dopo Berlusconi», «Bersani: basta con la stucchevole differenza tra tecnica e politica». E poi, quando tocca a «Walter», «Veltroni: dobbiamo lavorare insieme, dobbiamo confrontarci ma sentirci di stare insieme». Il deputato lucano Salvatore Margiotta, che le siede accanto, non vuole essere da meno. Twitta pure lui. Eccome se twitta. «Ottimo Franceschini sull’articolo 18: stabilizzare i precari, non precarizzare gli stabili». E ovviamente «anche da Veltroni emerge una sostanziale unità del partito sulle cose che contano. È un bene». Roberto Speranza, il giovane segretario regionale della Basilicata, se la ride di gusto. «Salvato’, tra te e la Concia mi pare di stare dentro la casa del Grande Fratello». Appunto.
In tarda mattinata arriva il turno di Massimo D’Alema. Uno che ancora gli tremano le gambe tutte le volte che racconta di quando nel 1975, al suo debutto nella direzione nazionale del Pci, venne “cecchinato” da Arturo Colombi, presidente della Commissione centrale di controllo del Pci e grande nome della Resistenza, perché aveva osato prendere appunti durante la riunione («Prese i miei foglietti e li stracciò davanti a tutti dicendo: “Ricordati, solo le spie prendono appunti”»). Al presidente del Copasir, ’o presepe della direzione via Twitter, non piace. Ma il suo contributo all’happy end non lo nega. Anzi. «Il presidente dell’Assemblea, Rosy Bindi, iscrivendomi a parlare dopo Veltroni, ha costruito una strana trama da libro Cuore. Ecco, lo dico: sono totalmente d’accordo con Walter», dice «Massimo» applaudendo l’intervento del nemico-amico che l’aveva preceduto. L’account twitter di Concia pare Radio Londra in tempi di guerra. «D’Alema: non stiamo scrivendo il libro Cuore. Non ho capito cosa volesse, dire ma forse sono scema».
A Roberto Giachetti, rimasto a presidiare il fortino di Montecitorio, i conti non tornano. Soprattutto visto che, sull’articolo 18, Bindi aveva minacciato di andare in piazza. «Rosy, quindi scenderemo in piazza unitariamente?», le scrive. Lei non risponde. «Tutti magicamente d’accordo», annota il deputato Fausto Recchia. Mentre Pina Picierno, prima di scovare quella strana somiglianza fonica tra Fassina e Malgioglio, aveva avvertito baracca e burattini: «Sono alla direzione del Pd. Volemose bene è il sottotitolo della giornata. Ma al prossimo che parla sui giornali, je meno io». Così. Senza eufemismi.
Più d’uno storce il naso quando il tesoriere del partito Antonio Misiani mette ai voti il preventivo di bilancio. Sulla base dell’accordo pre-elettorale, 200mila euro vanno ai Radicali (che dal 2008 hanno preso dal Pd 630mila euro, hanno 9 eletti nelle liste democrat) e 70mila all’area degli Ecodem. Cifre a parte, i tesoriere è applaudito da tutti: «Ricordo quando nella Margherita approvavamo i bilanci di Lusi. Il Pd, per fortuna, ha Misiani…», cinguetta Margiotta.
Restano le divisioni sulla legge elettorale. Perché lo schema Violante fa discutere. E litigare. «Una riforma che punti sui partiti è essenziale per noi», sostiene D’Alema. «Non mi convincono né la bozza Violante né l’impostazione di D’Alema», replica Bindi.
Ma la relazione del segretario, quella sì, è approvata all’unanimità. «Monti non rischia. Però la riforma del lavoro va modificata». E quando il presidente del Consiglio parla dall’Asia citando il Divo Giulio («La riforma va approvata in tempi brevi. Non sono come Andreotti…») e minaccia di fare le valigie («Se il Paese non è pronto il governo potrebbe non restare»), il segretario del Pd replica: «Non sopravvaluto le parole dette oggi da Monti. Gliele ho sentito dire una ventina di volte». La ventunesima è servita.
Il peroncino 2.0 di Bersani.
La foto simbolo dell’odierna direzione del Partito democratico è la birra che, come di consueto, Pier Luigi Bersani stappa quando la riunione si avvia verso la fine.
Ormai il peroncino sta a Bersani come Albachiara sta ai concerti di Vasco e Can’t help falling in love a quelli di Elvis.
L’ultimo pezzo, insomma.
Ps: l’autrice della foto è Antonella Madeo, giornalista di Youdem. Nello scatto si vede anche il senatore Nicola Latorre.
(www.tommasolabate.com)
Dal colloquio segreto con Maroni (che andrà a votare ai referendum) al Peroncino in direzione. Bersani pensa al 13.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 giugno 2011)
Alle 14 di ieri, assistendo a una direzione del Pd che non era mai stata così serena, Pier Luigi Bersani ha stappato un Peroncino e ha cominciato a sorseggiare la birra. Brindando all’«unità» e con un pensiero all’affluenza del referendum. A cui contribuirà, col suo voto, anche Roberto Maroni.
Nel giorno in cui il presidente della Repubblica ha risposto seccamente a chi gli chiedeva della sua presenza ai seggi («Sono un elettore che fa sempre il suo dovere»), Maroni avrebbe ufficializzato di fronte ai fedelissimi la sua intenzione di recarsi alle urne domenica per votare ai referendum. Una risposta scontata, se si pensa che il «Bobo» leghista è comunque il ministro dell’Interno. Un po’ meno se si ragiona sul fatto che il titolare del Viminale potrebbe essere il primo big del Carroccio a «uscire dai blocchi», ad annunciare che ritirerà quelle quattro schede che potrebbero condannare il berlusconismo.
Per capire che cosa c’entra tutto questo con Bersani bisogna fare un passo indietro di qualche giorno. Al 2 giugno, per la precisione. Al Riformista risulta infatti che, durante le celebrazioni per la festa della Repubblica, il segretario del Pd e il ministro dell’Interno sono riusciti nell’impresa di intavolare un colloquio di cinque minuti lontano da microfoni e taccuini. Quel faccia a faccia tra “Pier Luigi” e “Bobo” – a cui gli amici comuni avevano lavorato già prima delle elezioni amministrative – ha già avuto luogo.
Sulle (eventuali) confidenze che si sarebbero fatti, invece, c’è soltanto una certezza. Ai pochissimi che sapevano della chiacchierata col titolare del Viminale, e che di conseguenza hanno cercato di soddisfare la sacrosanta curiosità, Bersani ha detto due cose. La prima è che «adesso dobbiamo lasciare che la Lega cuocia nel proprio brodo». La seconda, scandita con un sorrisetto, è che «dobbiamo aspettare di vedere quello che succederà al referendum. Perché il giorno dopo, in un senso o nell’altro, qualcosa succederà». Non a caso, il segretario del Pd – affrontando ai margini della direzione di ieri il tema del supervertice di Arcore – ha parlato come se fosse a conoscenza di quello che sarebbe successo all’interno della residenza del premier. «Non so di che cosa discuteranno», ha premesso, «ma sono convinto che se penseranno a precari bilanciamenti non faranno strada». E ancora, sempre dalla viva voce di Bersani, testualmente: «Il Pdl non risolverà i suoi problemi tirando per la giacca Tremonti. E se la Lega pensa di aggiustare con dei “bilanciamenti”, si troverà di fronte a nuove buche perché, soprattutto al Nord, si è visto che le premesse non si sono realizzate».
Quando parla a Roma coi cronisti, insomma, il leader del Pd è convinto che il Cavaliere abbia offerto a Bossi di “promuovere” Tremonti e Calderoli come vicepremier, magari portando Roberto Castelli alla Giustizia? Sono questi i «bilanciamenti» a cui allude? Bastano queste previsioni per risalire a un possibile «asse» tra Bersani e Maroni, che magari si è consolidato con la chiacchierata del 2 giugno? Tra tanti indizi c’è una sola certezza. Il dialogo tra Pd e Lega ha bisogno di due pre-condizioni. Primo, che il referendum di domenica e lunedì sia un’altra sconfitta per il premier. Secondo, che successivamente ci sia l’accordo di massima su una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni. «E il Mattarellum col 50 per cento di maggioritario e il 50 di proporzionale», insistono gli sherpa di entrambi i partiti, risponde a questa esigenza.
«La maggioranza non è più quella uscita dalle elezioni. Siamo al ribaltone e al teatrino della politica», ha scandito Bersani alla direzione del Pd di ieri. «Il governo si dimetta. La strada maestra sono le elezioni, ma siamo disponibili a considerare eventuali condizioni per cambiare la legge elettorale», ha aggiunto. Dal Parlamentino del Pd, il segretario è tornato a casa con una relazione approvata all’unanimità e un partito compatto. La linea è tracciata: alleanze sì, ma «noi siamo il perno della coalizione e puntiamo ad essere il primo partito del paese». Le primarie ci saranno, «e le metteremo in sicurezza». «Non facciamo l’errore del ’93», ha avvertito D’Alema. «Bersani vince le primarie se siamo uniti», ha spiegato Fioroni. «Bene Bersani. Adesso costruiamo l’alternativa riformista», è stato l’auspicio di Veltroni. Poi i due passaggi “di colore”, che entrano di diritto negli highlitghs. L’applauso tributato al responsabile Enti Locali Davide Zoggia, per i successi alle amministrative. E quel Peroncino, che il segretario ha stappato e poi bevuto. Brindando al futuro prossimo.