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Monti premier o foto di Vasto. Il Pd (e anche Angelino Alfano) si gioca tutto a Palermo.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 febbraio 2012)
Dal tramonto di «Roma 2020» all’ascesa di «Palermo 2012». Nei giorni in cui la Capitale ha visto sfumare il sogno olimpico, il capoluogo siciliano s’è guadagnato la finalissima di una partita che probabilmente segnerà le sorti della politica italiana. Perché stavolta non si tratta solo di delineare una semplice tendenza. Stavolta dalle urne palermitane potrebbe venir fuori, oltre al sindaco della città, anche l’assetto con cui i partiti si presenteranno alle elezioni del 2013.
L’ha capito benissimo Angelino Alfano, che la settimana scorsa s’è presentato da Pier Ferdinando Casini invocando il soccorso del Terzo Polo. Perché «le cose in Sicilia si stanno mettendo male». E soprattutto, ha aggiunto il leader del Pdl, «perché se perdo le amministrative sono morto, nel partito mi sbraneranno i falchi». Ma l’ha capito anche Pier Luigi Bersani. Consapevole che, tra le primarie del 4 marzo e le elezioni vere e proprie, la sua leadership si trova di fronte a un campo minato che non ammette remake del film andato in scena a Genova. Uno degli uomini più vicini al segretario del Pd la spiega così: «Cominciamo dalle primarie. Se vince la Borsellino diranno che è merito di Vendola. Se perde, invece, si dirà che è colpa nostra». E non è tutto. Se la Borsellino vince le primarie e perde le elezioni, «allora gli oppositori interni faranno a gara per sottolineare come il centrosinistra senza il Terzo Polo non va da nessuna parte. Non ci resta che sperare nel filotto. Rita che vince le primarie, Rita che diventa sindaco».
Forse sia i fedelissimi di Alfano sia i bersaniani difettano d’ottimismo. Ma una cosa è certa: tanto «Angelino» quanto «Pier Luigi» si aspettano che, da un’eventuale sconfitta di Palermo, possa scaturire un terremoto nei rispettivi partiti. Il che vorrebbe dire «licenziamento in tronco» nel caso del primo, la cui leadership è già ammaccata dal caso delle tessere false nel congresso; e l’apertura di un percorso che porterà al congresso anticipato nel caso del secondo. Con Casini che rimane alla finestra pronto ad accogliere tutti coloro (e ce ne sono, sia nel Pdl che nel Pd) che puntano a replicare la grande coalizione attorno a Monti anche nella prossima legislatura.
Che a Palermo si finirà a schifìo, per usare la sintesi di una video-ricostruzione che Pietrangelo Buttafuoco ha affidato al sito del Foglio, lo si capisce dalle intricatissime condizioni di partenza. E dal fatto che le formazioni ai blocchi di partenza dipenderanno dalle altrettanto intricate primarie del Pd del 4 marzo. Il tridente Bersani-Vendola-Di Pietro sostiene Rita Borsellino. I Democratici che spingono per mantenere in vita il patto regionale col governatore Raffaele Lombardo (da Giuseppe Lumia ad Antonello Cracolici) puntano invece sulla candidatura del trentenne Fabrizio Ferrandelli, che viene dall’Italia dei Valori. In pista c’è anche Antonella Monastra, consigliere comunale molto in vista in città, ex sostenitrice della Borsellino. E soprattutto un outsider di lusso, il deputato all’Assemblea regionale Davide Faraone, che conta sulla sponsorizzazione di Matteo Renzi (oggi il sindaco di Firenze sbarcherà a Palermo) e su una parte dei voti della Cgil.
In Sicilia dicono che, in caso di vittoria della Borsellino, l’ala “lombardiana” (nel senso di Raffaele) del Pd potrebbe abbandonare la casa madre (Cracolici, però, ha preventivamente smentito) per sostenere il candidato del Terzo Polo (il presidente del Coni regionale Massimo Costa?). Sia come sia, solo a quel punto il Pdl potrebbe dare il disco verde alla candidatura di Francesco Cascio. E non è tutto. La campagna delle primarie del centrosinistra è partita nel peggiore dei modi. Faraone, che a tutti gli effetti è l’unico iscritto al Pd della coalizione, ha denunciato i finanziamenti del partito nazionale alla campagna della Borsellino. E Renzi, oggi, potrebbe rilanciare quelle stessa accuse che, tra l’altro, hanno già fatto breccia tra i veltroniani.
Il sito Qdr.it (Qualcosa di riformista), pensatoio di riformisti vicini a «Walter», si chiedeva ieri: «Il Pd bara a Palermo? È vero che alle primarie il Pd finanzia la Borsellino contro Faraone, cioè una che non è del Pd contro uno che è del Pd?». Il tesoriere Antonio Misiani ha messo nero su bianco una smentita ufficiale. Ma l’;accenno di polemica è la spia che questa partita, che non è ancora neanche iniziata, può provocare un terremoto. E decidere, paradossalmente, quale partito tra Pdl e Pd franerà per primo. Aprendo definitivamente il dibattito sul replay nel 2013 di Monti a Palazzo Chigi.
Nell’attesa del “partito degli onesti”, il Pdl diventa “Animal house”.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 luglio 2011)
In uno dei suoi racconti, Lev Tolstoj annotò che «un giorno uscimmo a caccia dell’orso e il mio compagno colpì di striscio un esemplare, che si diede alla fuga». L’orso scappa sanguinando. E la neve sotto di lui si fa rossa, come una toga della Procura di Milano. «Cominciammo a ragionare insieme se convenisse inseguirlo subito o aspettare. Quando lo chiedemmo ai contadini, un vecchio rispose: “Non va bene inseguirlo subito, lasciategli un po’ di respiro”. (…) Un altro, un giovane, dissentì: “No, no, l’orso possiamo ammazzarlo oggi stesso”».
Ora non è dato sapere se Michela Vittoria Brambilla abbia mai letto i Racconti per contadini attribuiti all’autore di Guerra e pace (I racconti di Tolstoj, a cura di Prem Cand, Mimesis, 2010). Ma una cosa è certa. Se quel volume è capitato sotto i suoi occhi ministeriali, a pagina 61, quella in cui si narra della lite generazionale tra contadini sulle sorti dell’orso, proprio là Michela ha trovato la luce.
Sacra, santa e pure sacrosanta, l’antica battaglia in difesa degli amici animali – orfana anche in Parlamento di un partito animalista tout court – sembra diventata il core business del Pdl targato Alfano. Certo, un po’ è colpa degli alleati della Lega, che proprio la settimana scorsa si sono messi brutalmente a pasteggiare a orso. Un po’ dipende dal nobile obiettivo del “partito degli onesti” enunciato dal neo-segretario, che però necessita di un percorso che potrebbe essere lungo e accidentato. Ma sta di fatto che, alla corte di Re Silvio, ormai ingannano il tempo che li separa da spiagge e ombrelloni ergendosi a scudo umano in difesa dei migliori amici dell’uomo.
Nella sua crociata contro il Carroccio orsivoro, la Brambilla ha scelto come compagno di squadra nientemeno che il titolare della Farnesina Franco Frattini. «A nome di tutti gli esponenti del Pdl che, come noi, provano profonda indignazione nell’apprendere che in una festa leghista del Trentino verrà servita carne di orso», hanno scritto i due in una nota, «chiediamo al segretario del partito, nostro alleato, di intervenire per fermare questa scandalosa iniziativa». E se poi capita che il cavallo “Messi” della contrada Chiocciola muoia nelle prove del Palio di Siena, ovviamente il tono della protesta sale. Dicendosi «profondamente rattristata per l’ennesimo tragico incidente costato la vita a un cavallo», la rossa MVB rivendica («Da tempo avevo lanciato l’allarme circa le condizioni di pericolosità per gli animali coinvolti in questa anacronistica manifestazione»), minaccia («Il Palio di Siena, visto quello che accade ripetutamente, non può più considerarsi intoccabile») e, nonostante i vari “vuolsi così colà” che gli vengono opposti dall’amministrazione senese, continua indomita a dimandare.
Sarebbe sbagliato, però, considerare il nuovo corso animalista dei berluscones come la classica iniziativa di un partito che, all’occorrenza, sa muoversi “a colpi di maggioranza”. No. La Brambilla ha già nel taschino fior di accordi bipartisan. Da titolare del dicastero del Turismo ruba un piccolo dossier alla collega Carfagna, che si occupa di Pari opportunità, e s’esalta. «È l’ora delle pari dignità, tutelare mucche e maiali come i cani e i gatti di casa», scandisce durante il terzo incontro dell’iniziativa La coscienza degli animali. Accanto a lei ci sono l’astrofisica rossa Margherita Hack, l’oncologo democratico Umberto Veronesi, la scrittrice Susana Tamaro, arrivata là ché evidentemente là l’ha portata il cuore. Davanti, invece, si ritrova le telecamere dei telegiornali dell’Impero di Silvio, che fecero lo scoop sull’unico esemplare di gatto lungo un metro ma evitano di occuparsi dell’inchiesta di Napoli in cui si parla anche delle nomine del cane a sei zampe (dell’Eni).
In attesa del «partito degli onesti», il Pdl pare Animal house. E il suo leader, dall’omonimo capolavoro di John Landis, potrebbe financo arrivare a copiare il grido di battaglia del compianto Belushi. “Toga! Toga! Toga!”. Aggiungendoci, magari, una parolina di cinque lettere. «Rossa».
Il sorpasso. Dai sondaggi il dramma del Cavaliere: Pd primo partito.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 giugno 2011)
L’allarme rosso ha la forma di un foglietto di carta, che venerdì è passato da Palazzo Grazioli allo stanzone del Pdl che attende il neo-segretario Alfano. Sul foglietto c’è scritto: Pd 29,2 per cento, Pdl 27,5 per cento.
Fossero veri i dati in possesso dei vertici berlusconiani (Ipsos), per la prima volta il Partito democratico avrebbe sorpassato il Popolo delle libertà. E le “sorprese” contenute nella rilevazione demoscopica non sono finite. Basta guardare il capitolo sulla popolarità dei leader. Crolla quella di Silvio Berlusconi (l’asticella è ferma al 26,9 per cento), cresce quella del leader democratico Pier Luigi Bersani (45 per cento).
Sull’asse che unisce la war room del presidente del Consiglio e il sancta sanctorum pidiellino di via dell’Umiltà, il morale è sotto i tacchi. E al dramma dei numeri si aggiunge la paura per quello che potrebbe succedere la settimana prossima se, come gli sherpa del Cavaliere cominciano a sospettare, la percentuale degli italiani che si recherà alle urne «sarà tale da superare il quorum». Che a quel punto determinerebbe la validità della consultazione referendaria.
Chi ha avuto occasione di confrontarsi col «Capo» nelle ultime quarantott’ore giura che «Berlusconi è disperato». I numeri dei sondaggi, che hanno orientato tutte le sue mosse dal 1994, stavolta lo stanno spingendo verso un cul de sac.
C’è un esempio che vale più di molti altri. Come spiega un ministro a lui vicino, «durante la sua ormai lunga carriera da presidente del Consiglio, in ogni momento di grave difficoltà il Presidente ha minacciato il ricorso alle elezioni anticipate». Stavolta, invece, «della minaccia di “provocare” lo scioglimento anticipato della legislatura non c’è traccia da nessuna parte». Niente. La solita arma fine-di-mondo, che Berlusconi usava puntualmente per mettere paura all’opposizione, è scomparsa da tempo da qualsiasi radar.
Il perché sta nel «foglietto di carta» di cui sopra, nel capitoletto dedicato al «testa a testa» tra centrosinistra e centrodestra. La forbice tra le due coalizioni vede lo schieramento trainato dal Pd in vantaggio di 9 punti rispetto a quello “capitanato” dal Pdl. Un vantaggio che, nel caso in cui il «Terzo Polo» si schierasse col Nuovo Ulivo (Pd, Sel, Idv), salirebbe addirittura a 17 punti percentuale.
E non è tutto. Il primo «sondaggio riservato» del dopo-amministrative fa paura al Cavaliere anche perché alle difficoltà di un Pdl al 27,5 per cento si accompagna una sostanziale “tenuta” del Carroccio. La Lega, infatti, rimane comunque ancorata alla doppia cifra (poco più del 10%). Uno score, spiegano da via Bellerio, che ovviamente «crescerebbe a dismisura qualora la nostra strada si separasse da quella di Berlusconi».
Alla débâcle post-elettorale dei berluscones si accompagna un centrosinistra trainato dall’effetto-amministrative. Pd al 29.2, Sinistra e libertà al 9, Italia dei valori al 6, Udc al 5.5. E, al di là delle cifre attribuite ai singoli partiti, nel sondaggio in questione si annota che la percentuale degli italiani convinti che «sarà il centrosinistra a vincere le prossime elezioni» (42%) è superiore a quella degli elettori che scommettono su una riconferma dell’attuale maggioranza berlusconiana (solo il 31,9% degli interpellati è convinto che, se si votasse domani, il centrodestra rivincerebbe le elezioni).
Tolta la nomina di Alfano a segretario, nel Pdl le contromosse sembrano toppe peggiori del buco. Intervistato da Repubblica, Claudio Scajola ha invitato a «buttare via» la creatura politica del Cavaliere. «Serve una casa dei moderati che ci riunifichi all’Udc», è l’opinione dell’ex ministro. Non quella di Fabrizio Cicchitto, però. «Il Pdl va rinnovato, non smontato», ha messo a verbale il capogruppo a Montecitorio.
La proposta di Scajola, tra l’altro, è stata respinta al mittente dal Terzo Polo. Con un coro di niet che ha raggiunto la vetta massima con un caustico commento che Enzo Carra ha pubblicato sul suo blog. «In case pagate da ignoti, noi dell’Udc non vogliamo abitarci», ha scritto il deputato centrista evocando lo scandalo di Affittopoli che l’anno scorso costrinse Scajola a dimettersi dal governo.
Intanto Alfano ha affidato a un’intervista al Corriere della sera il suo manifesto sulla forma-partito del Pdl. Primarie e congressi sì, «e subito». Correnti «no». Sembra di rivivere, anche nell’utilizzo dei termini, lo stesso calvario attraversato dal Pd fino all’anno scorso. Con una differenza. Nell’eterogeneo mondo del berlusconismo, ci sono big che ancora non hanno mostrato le loro carte. Uno su tutti, Giulio Tremonti.
Il ministro dell’Economia, che nei desiderata del Cavaliere dovrebbe “accontentarsi” di un posto da vicepremier (insieme a Roberto Calderoli) e in cambio sotterrare l’ascia di guerra, ha liquidato i cronisti che gli chiedevano di Alfano facendo ricorso al «cuius regio, eius religio». Significa che il suddito deve conformarsi alla religione del principe dello Stato in cui vive. Ma nel gruppetto (bipartisan) di parlamentari con cui si confronta spesso, c’è chi giura che l’ultimo successore di Quintino Sella ha timore di finire risucchiato dentro «una nuova Democrazia cristiana», come si configurerebbe quel partito «che ha Alfano alla segreteria». Da qui i rumors, che si faranno sempre più insistenti, sulla possibilità che «Giuletto» abbandoni il Pdl con un gesto plateale. Magari all’indomani dei referendum.
Ciascuno per i fatti suoi, con gli scatoloni in mano. L’effetto Lehman Brothers si abbatte sul Pdl.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 maggio 2011)
C’è un direttore d’orchestra che abbandona le bacchette. E gli orchestrali che iniziano a suonare ciascuno per i fatti propri, senza alcuna guida. Ma non si tratta del momento in cui la Filarmonica di Vienna, verso la fine del tradizionale concerto di capodanno, attacca con la Marcia di Radetzky e tutti applaudono. No, qua di applausi non v’è nemmeno l’ombra.
A poche ore dalla riapertura delle urne, Silvio Berlusconi sembra un uomo solo senza comando. «Sofferente», come l’ha definito ieri Franco Frattini. La spia di una situazione pressoché inedita s’era intravista ieri l’altro, quando i “sussurri” (virgolette d’obbligo) del premier a Obama sulla «dittatura dei giudici di sinistra» erano rimasti praticamente senza fuoco di copertura. Falchi a riposo, dichiarazioni zero, spalle scoperte. Ieri, quando il presidente del Consiglio ha replicato lo show internazionale sulla «patologia» della giustizia italiana, la stessa scena s’è ripetuta. «Chi non mi difende si vergogni», ha scandito il Cavaliere. Non l’hanno difeso neanche i suoi. «Sulle parole di Berlusconi non rispondo», ha spiegato il Guardasigilli Angelino Alfano. E tolto un Sandro Bondi ormai votato all’understatement («Bene Berlusconi che parla con altri capi di governo») e soprattutto con un piede già fuori dalla tolda di comando del Pdl, attorno alle urla del «capo» c’è stato soltanto silenzio. Niente Cicchitto, niente Quagliariello, niente Gasparri. Nulla, manco due righe di Capezzone, che ieri s’è disturbato giusto per denunciare «il clima infame» che, a suo dire, avrebbe prodotto il rogo nella sede del comitato di Lettieri a Napoli.
Il berlusconismo sembra a un passo dallo scioglimento. Basta guardare la calviniana leggerezza con cui Franco Frattini, intervistato da Mario Ajello sul Messaggero, ha fatto il disegnino della fine dell’Impero. «Questo leader (Berlusconi, ndr) deve indicare il momento politico per passare la mano», ha spiegato il titolare della Farnesina. Il Pdl? «È vero. Ci sono le correnti ma non c’è il partito». E ancora: «Stavolta, se non riusciamo a strutturarci come si deve, molti di noi torneranno alle professioni che avevano un tempo e amici come prima». Sembra di rivedere l’immagine dei dipendenti che abbandonavano scatoloni alla mano il quartier generale della Lehman Brothers appena fallita.
E non finisce qui, come scandiva Corrado lanciando la pubblicità durante la Corrida. Roberto Formigoni, che è uscito dai blocchi anticipando una sua candidatura alla leadership del Pdl, si prepara ad aprire il fuoco di fila (sulla candidatura sbagliata di Letizia Moratti) qualora Milano finisse nelle mani del centrosinistra. Allo stesso modo il blocco di Liberamente (Alfano, Gelmini, Frattini) partirà lancia in resta per ridiscutere la posizione del potentissimo coordinatore Denis Verdini. Magari stringendo un patto di ferro con chi, come Claudio Scajola, prepara la sua grande rentrée in un condominio che potrebbe essere già sfollato. Senza dimenticare che gli ex di An sono ormai proiettati verso la ricostruzione di quella «destra senza Fini» che sancirà lo scioglimento anticipato della creatura del Cavaliere.
Lo scenario apocalittico è sotto gli occhi di tutti. Infatti, mentre una buona parte di cittadini italiani si appresta a ritornare ai seggi, il governatore del Lazio Renata Polverini ha intonato il de profundis della sua stessa maggioranza nel consiglio regionale. E mica ha fatto sfoggio di eufemismi, l’ex leader dell’Ugl, nel commentare il passaggio di due eletti nella sua lista civica nel gruppo pidiellino della Pisana. No. Ha parlato di «atto di ostilità», «autolesionismo politico», «coalizione finita».
Detto in due parole «Renata», che con la sua lista contende i candidati a sindaco di Sora (Frosinone) e Terracina (Latina) al Pdl, è stata sconfessata. Alemanno la sostiene, gli ex forzisti la attaccano. «Rispettiamo gli elettori, bando alle polemiche», ha messo a verbale ieri sera Maurizio Gasparri. Come un pugno arrivato dopo il gong. O, peggio, come un velocista al Giro d’Italia che finisce fuori tempo massimo durante il tappone di montagna. Manca la gigantesca scritta game over, certo. Ma l’orchestra s’è già sciolta.
“Sembra che facciano la gara contro di me”. Il premier incassa l’ultima doccia gelata della Lega
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Ha passato una giornata intera a rilasciare interviste, il Cavaliere. Alla partenopea Radio Kiss Kiss ha annunciato l’intenzione di stoppare gli abbattimenti delle case abusive. Al Gr1 ha giurato che non punta al Colle. Al Tg5, invece, ha raccontato che l’asticella per considerare le elezioni «un successo» è «strappare una grande città» alla sinistra. Il tutto (anche) per nascondere l’ennesima doccia gelata che ieri è arrivata dal Carroccio.
Nella ristrettissima cerchia delCavaliere hanno il problema di «evitare una rissa interna» a poche ore dall’apertura dei seggi. D’altronde, è quella stessa «rissa» che il premier ha cercato di scongiurare in mille modi, arrivando persino a negare il sostegno telefonico al candidato sindaco delPdl di Gallarate (che, tra l’altro, fa Bossi di cognome) «solo per evitare di urtare la suscettibilità di Umberto, che passa là giornate intere per lanciare la volata alla sua Giovanna Bianchi Clerici».
Ma la misura, per chi conosce bene gli sbalzi d’umore del presidente del Consiglio, è praticamente colma. Soprattutto da quando, ieri, Roberto Calderoli s’è preso la briga di annunciare il rinvio di una settimana del raduno leghista di Pontida, spostato al 19 giugno per consentire a Umberto Bossi di fare «un annuncio epocale».
La «svolta» che ha in mente il Senatur, per il quale sarà necessario un passaggio in Cassazione, riguarda una proposta di legge di iniziativa popolare per il decentramento di alcuni ministeri. «Pensate a quanto il responsabile Saverio Romano sarebbe contento di fare le valigie e spostarsi con tutto il suo dicastero qui a Milano», scherza un autorevole esponente del Carroccio.
La voglia di scherzare, dalle parti del premier, non c’è più. E non tanto perché il decentramento dei ministeri sarebbe una prospettiva talmente lontana da rendere inimmaginabile un parallelo con l’attuale compagine di governo. Quanto perché «Silvio» ha ormai capito che l’alleanza con la Lega – e con essa la maggioranza parlamentare che sostiene il governo – è ormai appesa a un filo. Senza la vittoria di Milano, l’esecutivo è a rischio. E, come nella war room berlusconiana hanno ormai capito, un eventuale successo di Lettieri a Napoli – paradossalmente – finirebbe solo per complicare le cose. «Ve l’immaginate il premier vincente grazie ai voti di Cosentino e sconfitto a casa sua? Pensate a questa scena e provate a capire come potrebbe prenderla l’elettorato della Lega», riflette l’autorevole fonte del Carroccio di cui sopra.
A quarantott’ore dall’apertura dei seggi, i margini di manovra sono ridotti al minimo. Berlusconiha alzato l’asticella
dello scontro milanese dando man forte alle accuse della Moratti a Pisapia? Il leghista Matteo Salvini, esponente di spicco del Carroccio meneghino (tra l’altro “papabile” per la poltrona di vicesindaco) s’è presentato ai microfoni di Un giorno da pecora per “infilzarla”: «Su Pisapia la Moratti è stata bugiarda». Berlusconi annuncia lo stop alla demolizione delle case abusive a Napoli? «Il premier dovrà parlarne con la Lega. Personalmente, indipendentemente da dove siano collocati gli immobili, sono contrario a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive», ha replicato a stretto giro Roberto Calderoli.
Sono due segnali di quanto nel retropalco ci sia rimasto ben poco. Ormai è tutto sotto gli occhi della platea: Berlusconi e la Lega marciano su due binari separati. «A volte sembra quasi che la campagna elettorale la stiano facendo contro di me», ha confidato mercoledì il Cavaliere riferendosi ai continui “smarcamenti” del Carroccio rispetto alla “linea”del centrodestra. La giornata di ieri gli ha dato ragione. Al punto che, nel giro dei berluscones milanesi, si sta addirittura arrivando a sospettare un boicottaggio elettorale ai danni della Moratti. «E se i militanti della Lega non andassero alle urne?», riflette a voce alta un big del Pdl lombardo.
È il segno che, da lunedì, si va in mare aperto. Pubblicamente il presidente del Consiglio continua a ripetere, come ha fatto ieri intervenendo telefonicamente a un’iniziativadel candidato torinese Michele Coppola, che «abbiamo alla Camera una nuova maggioranza coesa, che ci permetterà di fare quello che non abbiamo potuto fare finora per lo statalismo di Fini e Casini». Ma lontano da microfoni e taccuini, il premier ha un’altra verità: «Se non vinciamo Milano, questi faranno cadere il governo a Pontida». D’altronde, l’intervento con cui Bossi ha concluso la giornata politica di ieri dà forza ai più oscuri presagi dei berluscones. «Bisogna parlare di programmi e non di quello che ruba la macchine», ha scandito il Senatur a Gallarate, stroncandola Moratti. E aggiungendo, come se non fosse stato sufficientemente chiaro in precedenza, che«se non servono a guadagnare voti, meglio non farle certe mossi. Se si comincia a tirar fuori cose personali non si finisce più».
Gasparri attacca: «Il Pdl in preda al tafazzismo. Ci sono troppi untorelli».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 aprile 2011)
C’è Daniela Santanchè che attacca Letizia Moratti sul caso Lassini. C’è Giancarlo Galan che prende di mira Giulio Tremonti sulle colonne del Giornale. E c’è Maurizio Gasparri che allarga le braccia e dice al Riformista: «Si vede che la sinistra ci ha contagiato. Anche il Pdl ha preso questa benedetta malattia del tafazzismo». Non è tutto: «Io e altri», aggiunge il capogruppo al Senato, «cerchiamo di mettere pace, di distribuire gli “antibiotici” contro quest’infezione. Ma niente… Ci sono troppi untorelli in azione».
A Milano dovevate vincere a mani basse. E invece litigate su Lassini.
«Scusi, ma il caso Lassini non era già chiuso?»
Non per la Santanchè. Che, attaccando il sindaco di Milano, ha detto che su Lassini «decideranno gli elettori».
«Per noi il caso Lassini è chiuso. Dopo i manifesti sui giudici e le Br, il partito ha preso le distanze da Lassini e lui non solo ha ammesso l’errore, ma s’è ritirato dalla campagna elettorale. Tutto questo significa che il Pdl invita i cittadini milanesi a non votare quel candidato. La questione resta aperta solo da un punto di vista tecnico. Che cosa dobbiamo fare di più, un decreto legge per evitare che gli elettori scrivano il suo nome sulla scheda?»
E l’attacco di Santanchè alla Moratti?
«Io davvero non ci capisco più niente. Ciascuno di noi dovrebbe fare la campagna per il nostro candidato sindaco e invece c’è chi addirittura attacca Letizia…».
Tafazzismo puro.
«Lo ripeto: forse la sinistra ci ha trasmesso il virus di questa malattia. E pensare che c’è gente come me, come Cicchitto e come Quagliariello che convoca delle riunioni per parlare, per discutere tra di noi, per cercare di vedere se ci sono problemi, per evitare che ci si metta a fare delle interviste che creano solo danni. Io ho aperto una farmacia, distribuisco antibiotici contro questo tafazzismo. Ma nel Pdl ci sono un po’ di untorelli…».
«Non saranno certo dei poveri untorelli a spiantare Bologna», disse Berlinguer nel ’77 attaccando il Movimento.
«Io cito i Promessi Sposi di Manzoni: «Va, va, povero untorello. Non sarai tu quello che spianti Milano…». Solo che qua gli untorelli sono più di uno».
Infatti c’è anche l’attacco di Galan a Tremonti.
«Appunto. Vede, i litigi tra i ministri di spesa e quelli del Tesoro sono un tema vecchio quanto Adamo ed Eva. Nella prima Repubblica queste sfide erano una costante. Immaginate oggi che Tremonti assomma le deleghe dei dicasteri di Tesoro, Finanze, Bilancio e pure qualcosa delle vecchie Partecipazioni statali».
È una potenza.
«E invece no, forse è l’esatto contrario. Ma sapete quanti sono i fattori che condizionano l’operato del povero Giulio? L’Unione europea, la globalizzazione, il mercato interno. Basti pensare che, sul fronte dell’energia, tra Libia e Fukushima nelle ultime settimane è cambiato tutto».
Eppure l’attacco al «rigorista» Tremonti, pubblico o meno che sia, è diventato uno degli sport più praticati, nel centrodestra.
«Pure io ci ho discusso molte volte, con Tremonti. Ma c’è qualcuno che può pensare che Giulio chiuda i cordoni della borsa solo per il gusto di mettere in difficoltà il governo di cui fa parte?».
Evidentemente sì.
«Io dico che, invece che rilasciare interviste per incassare qualche applauso facile facile, ciascuno dovrebbe fermarsi un attimo e pensare che Tremonti ha mille parametri da rispettare».
Forse Tremonti ha un caratteraccio.
«Questo di sicuro. Soprattutto perché, qualsiasi cosa succeda, pensa che ci sia sempre un “grande disegno” contro di lui. E poi perché qualche volta non sa ascoltare».
Gasparri, lei ha provato a farglieli notare, questi difetti?
«Certo. Ma Giulio dà sempre risposte del tipo: “Perché, vuoi dire che io non sto ad ascoltare gli altri?”».
Che fatica il mestiere di paciere nel Pdl.
«Tutti dovremmo cercare di smussare gli angoli più spigolosi del nostro carattere. Anche io, che certe volte ero troppo esuberante, mi sono dato una calmata».
La ricetta della tranquillità pidiellina del “medico” Gasparri?
«Niente psicofarmaci né sonniferi, quelli fanno male. Però una bella tisana dovremmo berla tutti, soprattutto di questi tempi».
Dopo le amministrative, il Pdl cambierà forma?
«Io sono per fare i congressi, come dice il mio amico La Russa, che per aver espresso questa posizione è stato ingiustamente attaccato. E sapesse le risate che mi faccio quando leggo di esponenti del nostro partito che sui giornali invocano i congressi e nelle riunioni dicono l’esatto contrario…».
Fuori i nomi.
«Niente nomi. Ho detto che dobbiamo tutti darci una calmata e mi metto io ad attaccare gli altri?».
Pisanu, un autorevole senatore del gruppo che lei presiede, ha chiesto un governo che superi quello attuale. Per i finiani chiedeste l’espulsione…
«L’altro giorno ho letto una dichiarazione di Pisanu che diceva: “Resto nel Pdl finché mi sopportano”, e cose così. Quando l’ho incontrato gliel’ho detto: “Caro Beppe, guarda che io ti sopporto benissimo”. La differenza tra Pisanu e Fini è che il primo ha delle idee diverse, che io non condivido. Il secondo, invece, era uno che boicottava…».
In che senso scusi?
«Basta un esempio solo. L’anno scorso, quando la Polverini era in difficoltà nel Lazio, disse che non poteva fare campagna elettorale da presidente della Camera. Quest’anno, però, vedo che in giro per sostenere Fli ci va, eccome se ci va».
Da Fitto a Lupi, da Stefy a Mara: il Partito di Angelino è già nato. E ha tanti nemici interni.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 aprile 2011)
Una telefonata di Bossi. Ma soprattutto l’irritazione di Denis Verdini e degli ex An diLa Russae Gasparri. Tra l’investitura di Alfano e la marcia indietro di ieri, Silvio Berlusconi ha subito un pressing asfissiante. Perché, come ha confessato privatamente il ministro Raffaele Fitto, che di «Angelino» è uno degli amici più cari, «è partito il fuoco amico contro di noi».
Probabilmente, nel momento in cui parla alla stampa estera dell’intenzione di non ricandidarsi a premier per lasciare spazio al suo Guardasigilli, il Cavaliere non immagina l’eco che avranno le sue parole. E mercoledì sera, quando le agenzie battono la notizia, si scatena un putiferio che va molto al di là delle «cene di corrente» che iniziano un’ora dopo che la Cameraha approvato la prescrizione breve.
Nella mastodontica macchina della comunicazione berlusconiana scelgono di “sgonfiare” il soufflé dell’investitura del «delfino» con due operazioni semplici semplici. La prima la mette in campo Paolo Bonaiuti, smorzando l’effetto delle parole del premier. La seconda è quella di far filtrare il malessere degli ex aennini, l’attivismo di Matteoli e la telefonata (che c’è stata) in cui «l’Umberto» ha invitato «Silvio» a correggere il tiro sulla sua successione. Tutto vero e soprattutto verosimile, visto che il «patto» tra il Senatur e il Cavaliere si scioglierà nel momento in cui il secondo non sarà più il leader.
Ma lo stop principale al tam-tam su Alfano leader arriva dal nocciolo duro del Pdl. A cominciare dal coordinatore Denis Verdini, che ieri ha chiesto e ottenuto da Berlusconi una retromarcia in grande stile. «Non ho mai detto che Angelino sarà il mio successore», scandisce infatti il premier durante il vertice di ieri a Palazzo Grazioli. Non solo. A queste parole, che saranno riferite ai cronisti dal capogruppo dei Responsabili Luciano Sardelli, il Cavaliere aggiunge una battuta: «Non avete visto di quante cose mi accusano i magistrati e la sinistra? Non voglio mica farmi accusare anche perché scelgo il mio successore…».
La battuta, in effetti, fa ridere lo stato maggiore del Pdl. Non Alfano, però. Perché, dice chi lo conosce bene, «Angelino non voleva mica l’endorsement. Ma il modo in cui Berlusconi ha corretto il tiro l’ha fatto rimanere molto male». In fondo, è lo stesso concetto ribadito privatamente dal ministro Fitto, uno degli uomini più vicini al guardasigilli: «Questa smentita non ci ha certo reso felici. Comunque, si vede che siamo già vittime del “fuoco amico”…».
Tra i tanti motivi per cui lo stato maggiore pidiellino teme l’ascesa di Alfano, ce n’è uno su tutti. Il Guardasigilli ha già creato un partito nel partito. Infatti, dentro il Pdl, c’è già un PdA. Il «partito di Angelino». Quella a cui il titolare della giustizia sta lavorando ormai da un anno è una vera e propria «rete». Con tanto di cabina di regia, di cui fanno parte i big che stanno lavorando per costruirne la leadership: da Fitto alla Gelmini, dalla Prestigiacomo a Frattini.
Nel «partito di Alfano», un ruolo decisivo lo ricopre Maurizio Lupi, il vicepresidente della Camera che – sfruttando la scia di «Angelino» – ambisce al ruolo di capogruppo a Montecitorio. Certo, pensare di scalzare Fabrizio Cicchitto dopo l’approvazione della prescrizione breve sembra una mission impossible. Ma Lupi, un obiettivo, l’ha già raggiunto: è riuscito ad avvicinare Roberto Formigoni e l’ala ciellina del Pdl al Guadasigilli.
Oltre alla «cabina di regia» e al ruolo di Lupi, Alfano può già contare sul sostegno di tanti deputati del partito che, oltre ad avere radicamento sul territorio, si oppongono alla gestione di Verdini. Per fare qualche esempio, tra questi ci sono Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa, molto forte in Piemonte. E poi, in ordine sparso, gente come il suo omonimo Gioacchino Alfano e Nunzia De Girolamo, che in Campania sono tra gli oppositori del ras Nicola Cosentino. Senza dimenticare che, tra i volti noti che potrebbero sposare l’alfanismo militante, spunta anche il nome di Mara Carfagna.
Fitto, Gelmini, Prestigiacomo, Frattini, Carfagna, Lupi. E poi Crosetto, Gioacchino Alfano, De Girolamo, Carfagna. La squadra degli Alfano boys dentro il Pdl sta cominciando a prendere forma. Ma «Angelino», a differenza dei suoi oppositori interni, ha molti amici anche fuori dal partito. La sua partecipazione ai meeting della fondazione bipartisan VeDrò gli ha consentito di stringere ottimi rapporti di amicizia con personalità come Enrico Letta (che di VeDrò è stato l’ispiratore) e Giulia Bongiorno. E non è tutto: nel settore in cui il Pdl è debolissimo – e cioè quello dei rapporti con la magistratura – Alfano è molto più “solido” di quanto non si pensi. Perché è vero, c’è la sua firma sia sul contestatissimo «lodo» respinto dalla Consulta che sulla riforma costituzionale della giustizia osteggiata dai magistrati. Ma, anche grazie Stefano Dambruoso, il suo uomo cerniera con le toghe, «Angelino» lavorerà per ridurre il più possibile le distanze (politiche) tra sé e le toghe.