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«Monti ha fregato Bersani», «Non è vero». Le urla nell’anticamera della scissione del Pd.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 22 marzo 2012)

«Il Pd? È un partito finito. Monti ha fregato Bersani. E noi siamo stati dei fessi», dice il deputato Stefano Esposito attraversando nervosamente il Transatlantico.

Lo sfogo del parlamentare torinese, che è un bersaniano doc, offre la rappresentazione plastica di un partito diviso di due tronconi. Che, dopo la svolta del governo sull’articolo 18, hanno le pratiche di divorzio in mano. E che, alla fine dell’iter parlamentare della riforma del welfare, potrebbero davvero prendere due strade diverse. «I patti non erano quelli», prosegue la riflessione di Esposito. «E anche noi, ripeto, siamo stati dei fessi. Ci siamo concentrati sull’attacco a Corrado Passera. Ma non avevamo capito che il vero pericolo sarebbe stata la Fornero».

Tra martedì e ieri, i fedelissimi di Bersani l’hanno ripetuta all’infinito, la storia dei «patti» non rispettati da Monti. E prima di andare a Porta a Porta (troppo tardi per darne conto sul Riformista), il segretario dei Democratici l’ha spiegato privatamente fino allo sfinimento: «Ci era stato garantito che nella riforma dell’articolo 18 sarebbe stata prevista la possibilità del reintegro anche nei casi di licenziamento per motivi economici. Come previsto dal modello tedesco. E io l’avevo assicurato alla Cgil, che avrebbe firmato. Invece…».

Invece, martedì al tramonto, questo comma esce dai radar di Palazzo Chigi. E Monti si precipita in conferenza stampa a dichiarare «chiusa» la questione dell’articolo 18. Aprendo quella resa dei conti che Bersani pensava di poter rinviare a dopo le amministrative.

È furibondo, il leader del Pd. Col governo, certo. Ma anche con chi, come il vicesegretario Enrico Letta e l’ex ministro Beppe Fioroni, aveva già anticipato a caldo il «sì scontato» al provvedimento del governo. «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni», scandisce Massimo D’Alema inviando – dalle telecamere del Tg3 – un messaggio all’ala iper-montiana del Pd. Non foss’altro perché, nell’analisi del presidente del Copasir, il testo della riforma Fornero «è confuso e pericoloso».

Anche le aree di Dario Franceschini e Rosy Bindi annunciano battaglia. Il capogruppo, che invita il governo a fermarsi, esce a prendere una boccata d’aria del cortile di Montecitorio dopo il voto di fiducia sulle liberalizzazioni. «Il governo sta sottovalutando l’impatto che questa riforma avrà nell’opinione pubblica», dice. «Non vorrei che Monti trascurasse il fatto che gli italiani sono un popolo abituato ad avere una rete di garanzie che non può essere smembrata integralmente», aggiunge.
È l’esatto opposto di quello che pensano lettiani e veltroniani. «Lasciamo perdere l’articolo 18 e insistiamo sulla necessità di estendere le tutele ai precari», sottolinea il deputato-economista Francesco Boccia. «In Parlamento dobbiamo impegnarci a migliorare il testo, puntando ad esempio a estendere il reddito d’inserimento a molte più persone», aggiunge.

Giorgio Napolitano prova a gettare acqua sul fuoco dello scontro tra le forze politiche e sindacali. «Attendiamo di vedere come va giovedì (oggi, ndr)», dice il capo dello Stato dalle Cinque Terre. Ma la guerra tra i «due Pd», nel frattempo, s’è già trasformata in uno psicodramma.

Nella sala di Montecitorio che porta il nome di Enrico Berlinguer, dove di solito si riunisce l’assemblea dei parlamentari del Pd, nel pomeriggio va in scena un seminario a porte chiuse sul lavoro. Era in programma da tempo. Il destino ha voluto che si celebrasse proprio ventiquattr’ore dopo la riunione decisiva di Palazzo Chigi sulla riforma del welfare. «Non è detto che voteremo a favore. Questo provvedimento è un errore», dice il parlamentare Paolo Nerozzi, già uomo-macchina della Cgil. «Anche se dovessero mettere la fiducia, il mio voto non sarebbe scontato», gli fa eco l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. A favore del tandem Monti-Fornero intervengono invece Tiziano Treu e Pietro Ichino. «Non avete capito. Fatemi spiegare meglio», insiste quest’ultimo nel tentativo di mettere a fuoco i vantaggi che la riforma porterà ai lavoratori italiani. È il momento in cui arrivano le urla. La deputata Teresa Bellanova, arrivata in Parlamento nel 2006 dopo trent’anni nel sindacato di Corso d’Italia, perde la pazienza: «Allora, caro Ichino, non è che noi non abbiamo capito. È che non siamo d’accordo né con quello che dici né con la riforma del governo. Te lo vuoi mettere in testa oppure no?». E il fantasma della scissione sembra avvicinarsi. Sempre di più.

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«Tavolone» in Parlamento, modifiche e fiducia sul maximendamento. Il Pd trova l’accordo con Pdl e Terzo Polo.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 dicembre 2011)

La svolta arriva dopo un colloquio riservato tra Dario Franceschini e Fabrizio Cicchitto. Quando il capogruppo pd dice: «Dobbiamo accettare il coordinamento con Pdl e Udc».

Montecitorio, interno giorno. Dentro il Pd si moltiplicano i mugugni per il testo definitivo della manovra presentata domenica sera da Mario Monti e da alcuni dei suoi ministri. Il deputato torinese Stefano Esposito, esponente della sinistra interna e fedelissimo del segretario, annuncia sulla sua pagina Facebook che «a caldo, così com’è la manovra non la voto». Il franceschiniano Antonello Giacomelli, uomo-macchina della corrente di Area democratica, è un po’ più cauto. Ma ugualmente perplesso: «Era difficile chiedere a Monti di fare in pochi giorni qualcosa di più approfondito. Però è netta la sensazione di una timidezza su alcune misure che si trasforma in forte determinazione su altre». Traduzione: il governo è stato timido con chi “ha di più” e determinato sulle pensioni.

Idea che Bersani sottoscrive in pieno. Nel tragitto che lo separa da un corridoio laterale all’aula di Montecitorio, quando mancano pochi minuti all’intervento del presidente del Consiglio, il leader del Pd fa a tempo a dire tre cose. Senza girarci troppo intorno. «Questo decreto si poteva fare molto meglio». E uno. «Sono necessarie delle modifiche». E due. «In linea di principio, noi siamo contrari al ricorso alla fiducia. Però vediamo che succede…». E tre.

Ma per comprendere il senso della svolta che potrebbe maturare a stretto giro, bisogna andare oltre i puntini di sospensione del ragionamento bersaniano. E, di conseguenza, alla riunione di Montecitorio tra i vertici del partito e i componenti degli uffici di presidenza dei gruppi di Camera e Senato. Franceschini, che ha parlato col capogruppo dei Pdl, Cicchitto, apre alla proposta di Casini di dar vita a un coordinamento parlamentare a tre (Pd-Pdl-Terzo Polo). La sua proposta, sponsorizzata anche dalla pattuglia di Walter Veltroni e da quella di Enrico Letta, è semplice: «Questo decreto va prima modificato e poi messo in sicurezza. Non possiamo arrivare in Aula senza una regia politica, col rischio che gli emendamenti di Lega e Italia dei valori comportino qualche stravolgimento. Dobbiamo trovare un accordo con Pdl e Terzo Polo, fare un maxi-emendamento e poi approvarlo con la fiducia».

Ovviamente si tratta di un percorso a ostacoli. Primo, perché Bersani, che teme di rimanere scoperto a sinistra a causa delle mosse della Cgil, vuol far di tutto per evitare «la foto di gruppo» con Berlusconi e Casini. Secondo, perché anche Berlusconi avrebbe difficoltà ad accettare un «coordinamento politico». La soluzione, individuata nel corso dei colloqui con Casini, su cui gli ambasciatori di Pd (Franceschini) e Pdl (Cicchitto) si sono trovati d’accordo, è dar vita a un «tavolone tecnico». Una specie di raccordo parlamentare tra le tre forze principali che sostengono il governo Monti.

Sembra un paradosso. Ma l’aspetto più semplice di tutta la partita riguarda le modifiche al decreto varato domenica dal consiglio dei ministri. Visto che i tempi sono strettissimi, ciascuna delle parti ha proposto all’altra le sue modifiche. Stando a quanto risulta al Riformista, una bozza d’intesa c’è già. Il Pd vuole un intervento sulla previdenza e chiederà il blocco dell’indicizzazione a partire dalle pensioni superiori ai 1400 euro (e non solo fino a quelle di 960 euro, come previsto dal decreto Salva-Italia). Il Pdl, invece, chiede che venga stravolta la parte relativa al ripristino dell’Ici. Alfano l’aveva già detto durante il colloquio di sabato con Monti: «Per l’Ici sulla prima casa, duecento euro di detrazione sono pochissimi. Dobbiamo e possiamo fare di più». Rimane l’Udc, che pretende «più misure a favore delle famiglie». Come finanziare questi interventi? Il primo accordo che potrebbe venir fuori dal «tavolone a tre» sarà chiamato a rispondere proprio a questa domanda. E la soluzione più condivisa, al momento, è quella che va nella direzione di un ulteriore aumento della tassazione sui capitali scudati. Magari elevando al 5 per cento l’una tantum sui soldi rientrati con lo scudo fiscale (adesso è all’1,5 per cento). Ci sono altre strade, ovviamente. Come quella suggerita dal deputato-economista del Pd Francesco Boccia «di tassare i prelievi in contanti oltre i mille euro». D’altronde, «chi non ha nulla da nascondere può evitare di pagare cash, giusto?».

La partita, ovviamente, è solo al fischio d’inizio. «Se la Cgil sale sulle barricate, per noi diventerà difficile “reggere”», dice uno dei componenti della segreteria del partito. Che, ovviamente, non condivide l’entusiasmo della minoranza interna. Né la gioia di chi, come l’esponente di Modem Paolo Gentiloni, stenderebbe un tappeto rosso sotto la camminata di Mario Monti. «Il premier è un fuoriclasse della politica. Domenica ha fatto una telefonata a Berlusconi, una a Bersani et voilà. Il decreto è arrivato, migliore di come ce lo aspettavamo».

Bersani va al corteo. Ma c’è tensione dentro il Pd.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 settembre 2011)

Alle 16 di ieri, quando Pier Luigi Bersani annuncia la sua partecipazione allo sciopero generale della Cgil, un pezzo del partito scende sul piede di guerra. Da Veltroni a Letta, da Fioroni a Renzi: tutti contro la decisione del segretario di schierare i Democratici con la Camusso.

Massimo D’Alema sceglierà la piazza di Genova, approfittando della concomitanza con un dibattito nel capoluogo ligure che aveva in agenda da due mesi. E in piazza ci sarà anche Rosy Bindi, per protestare contro l’articolo 8 della manovra e soprattutto perché – dice – «è un dovere esserci» e dire «al governo che così non va». Non solo: manifesteranno dietro le bandiere della Cgil anche Stefano Fassina e Sergio Cofferati, l’ex ministro Cesare Damiano e Paolo Nerozzi. E altri ancora.
Ma, stavolta, la frattura interna al Pd sulla scelta di partecipare allo sciopero della Cgil va ben oltre il solito giochino del «chi va / chi non va» alle manifestazioni del sindacato di corso d’Italia. Soprattutto perché, stavolta, a finire sott’accusa sono, nell’ordine: la decisione di Bersani di prendere parte alla manifestazione di Roma; e il comunicato con cui il responsabile Economia del partito, Stefano Fassina, ufficializza la «presenza» del Pd ai cortei.
Il segretario, che sin da subito aveva guardato con attenzione allo sciopero indetto dal sindacato della Camusso («Dobbiamo essere ovunque si protesti contro questa manovra», aveva scandito giovedì nella sua relazione al coordinamento del partito), ha preso la decisione di scendere in piazza solo ieri. Soprattutto dopo aver ascoltato i rappresentanti degli enti locali che minacciavano la restituzione delle deleghe al governo. Arrivando a quell’incontro è scattata la molla che ha convinto il leader pd a sciogliere ogni riserva. «Certo che ci sarò, ci saremo con tutti quelli che criticano questa manovra», ha spiegato Bersani. E ancora, sempre dalla viva voce del segretario: «Il governo? Sono irresponsabili, non ho altra definizione. Chiederemo alla Camera lo stralcio dell’articolo 8». La nota di Fassina, altro tassello contestato da un pezzo di partito, era arrivata poco prima. «Il governo Berlusconi deve andare via per il bene del Paese», aveva messo nero su bianco il responsabile economico del Pd. «Le mobilitazioni di lavoratori, giovani e pensionati vanno sostenute. Per questo – conclusione – saremo allo sciopero generale indetto dalla Cgil».
E il pezzo del partito che si oppone? Walter Veltroni, per adesso, sceglie il silenzio. Ma basta ascoltare uno degli esponenti democratici a lui più vicini, Giorgio Tonini, per capire che aria tiri dalle parti dell’ex segretario. «Capisco le ragioni della Cgil ma non le condivido. Questo sciopero è sbagliato in sé», spiega il senatore. E la scelta del Pd di essere presente? Tonini mette da parte qualsiasi eufemismo e lo dice con nettezza: «Il compito del Pd, che il partito non sta svolgendo come si deve, non è quello di schierarsi con un sindacato che scende in piazza da solo. Ma incalzare il governo, portarlo su strade come quelle indicate da Romano Prodi nel suo editoriale sul Messaggero di domenica». Riforme di lungo periodo e «severe decisioni a effetto immediato», insomma.
Anche Beppe Fioroni, il deputato del Pd più vicino alla Cisl targata Bonanni, scende in campo contro Bersani: «La Cgil, ovviamente, è libera di fare le scelte che ritiene più oppurtune. Ma non non possiamo andarle sempre dietro». Perché, aggiunge l’ex ministro della Pubblica Istruzione, «la nostra bussola dovrebbe essere l’invito alla responsabilità che ci è arrivato l’altro giorno da Giorgio Napolitano. Non possiamo fare come quei surfisti che provano a cavalcare l’onda della piazza, salvo poi rischiare di venirne travolti».
L’area del dissenso va oltre i confini di quel Movimento democratico di cui sia Veltroni che Fioroni fanno parte. Lo schieramento di piazza del Pd non piace a Enrico Letta, anche se lui e il suo braccio destro Francesco Boccia scelgono la strada del silenzio. E non piace a chi, come Marco Follini, dice che «chi allinea il Pd alla Cgil non fa un buon servizio». Dissente, anche se tace, pure Matteo Renzi. Ma la posizione del sindaco di Firenze è nota: «Non possiamo andare dietro la Cgil».
Ma Bersani è convinto di essere sulla strada giusta. «I sondaggi dimostrano che la presenza del Pd nei luoghi dove si protesta contro la manovra è riuscita ad “assorbire” anche il caso Penati», dicono i fedelissimi del segretario. Ma la giornata di oggi è destinata, in un senso o nell’altro, a lasciare un segno nella storia dell’opposizione che verrà. E non tanto per la distinzione tra Vendola («Sarò in piazza») e Casini («Lo sciopero è del tutto sbagliato»). Quanto perché l’opposizione delle altre forze sociali alla mossa della Cgil non si riassorbirà in poco tempo. Basta leggere, e nemmeno troppo tra le righe, l’intervista che il leader della Cisl Bonanni ha rilasciato al settimanale A di Maria Latella: «Questo sciopero è stato deciso per regalare una passerella a leader politici senza più nessuna credibilità».

Written by tommasolabate

6 settembre 2011 at 11:06

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