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Primum scindere (perché il Pd deve tornare ai Ds, alla Margherita, al Partito di Renzi, se nascerà)
A qualcuno era abbastanza chiaro da prima. Ora lo dicono un po’ tutti, dopo la sconfitta del 4 marzo, che il Pd deve ritrovare la propria identità.
Domanda: ce l’ha mai avuta, un’identità, il Pd? Un’identità che andasse oltre il sostegno al leader di turno (non solo Renzi, attenzione, il “problema” c’era anche con Veltroni e Bersani) o il riconoscersi in una cerchia di potere (veltroniani, bersaniani, renziani) piuttosto che nelle altre che stavano di volta in volta in minoranza (dalemiani, bersaniani e chissà, da domani, renziani); un’identità che irrobustisse le idee di futuro invece che scioglierle dietro formule (dalla “vocazione maggioritaria” della campagna del 2008 al “senza di me” odierno, riferito al no secco a qualsiasi governo); un’identità che magari riducesse il bacino elettorale ma che consentisse, a chi vi si riconosceva, di dire “sì, cazzo, sono del Pd per questo, questo e quell’altro”.
La mia opinione? No, non l’ha mai avuta.
La prova? Nei primi anni della propria storia, molto prima che arrivasse Renzi, il Pd si ritrovò a fare i conti col radicale cambio delle relazioni industriali impresso dai nuovi contratti Fiat di Marchionne. Uno avrebbe detto: “Che colpo di cu.o, nasce un partito del lavoro e ha già l’occasione storica di dire la sua su un cambiamento drastico nel mondo del lavoro”. E invece nulla. A distanza di anni non ho capito come la pensasse il Pd su quell’aspetto decisivo del rapporto tra capitale e lavoro, tra padrone e operaio. Ma questo è solo uno dei mille esempi che si potrebbero fare.
Semplificare due tradizioni – quella post-comunista e quella cattolica popolare – in una sigla, Pd, doveva essere la molla per provare a prendere più voti. Invece, fate bene i conti, il Pd è stato uno dei partiti più perdenti della storia dei partiti. E persino la sua più grande vittoria, quella delle Europee, s’è rivelata più dannosa della peggiore delle sconfitte.
E adesso? Chi nasce tondo non può morire quadrato, dicono in Sicilia. A un partito nato e cresciuto senza identità, un’identità non gliela puoi dare ora che ha dieci anni e più. Convivono due o più identità nel centrosinistra? Bene, che ciascuno ritorni da dov’era venuto o che si piazzi dove ritiene di dover stare ora. E che poi ci si allei alle elezioni, se ciò che unisce è superiore a ciò che divide.
Tutto il resto sono cose magiche. Formule magiche, cerchi magici, gigli magici. Ma la magia, in politica, non funziona.
(Altrimenti Silvan avrebbe guidato più governi di Andreotti).
#direzionePd
Renzi, ahilui, aveva una sola strada. Questa.
La verità? Trovo davvero singolare la critica che molti tifosi e osservatori “renziani” – soprattutto quelli che solitamente facevano seguire all’aggettivo le tre paroline magiche “della”, “prima” e “ora” – sembrano rivolgere direttamente o indirettamente al sindaco di Firenze. In sintesi, il loro appunto è questo. Caro Matteo, dovevi andare a Palazzo Chigi solo dopo essere passato dalle urne.
Mettiamo che con la legge elettorale vigente, di fatto un proporzionale puro, Renzi fosse andato alle elezioni. E mettiamo che alle elezioni, togliendo la camicia bianca di Bruce Wayne e infossando la maschera e il mantello del suo alter ego (di Wayne) Batman, il Pd avesse ottenuto un risultato positivo oltre ogni immaginazione, diciamo il 38 o anche il 40 per cento. Con quel risultato forse (e sottolineo forse) Renzi sarebbe riuscito ad andare a Palazzo Chigi. Di sicuro, subito dopo le elezioni, sarebbe finito tra la padella dell’accordo con Berlusconi e la brace di un altro eterno streaming col Movimento Cinquestelle. Segno che, a conti fatti, gli conviene più andarci ora, con Alfano, Scelta Civica, i Popolari di Mauro, qualche leghista, qualche Sel, qualche pentastellato, un quarto di qualche scilipoti, mezzo razzi e soprattutto con l’intero Pd.
A quelli che “mica ora, Matteo doveva aspettare l’approvazione dell’Italicum e solo dopo andare al voto” non vorrei neanche rispondere. Ma, se proprio si deve rispondere, lo si può fare con una domanda. Ma davvero pensate che Berlusconi confezioni una qualsiasi riforma che mandi Renzi a Palazzo Chigi? Davvero pensate che il Cavaliere, che ha alle spalle una quindicennale esperienza di tavoli imbastiti e poi fatti saltare, – per citare Enrico Letta – “ci abbia scritto in testa Jo Condor”?
Morale della favola? Per andare a Palazzo Chigi, Renzi ha una sola strada. Andarci come Scelba o Fanfani, Spadolini o Craxi, D’Alema o Letta. Sulla base, cioè, di quella democrazia parlamentare prevista da quella stessa Costituzione che molti critici di Renzi definiscono “la più bella del mondo”, di quella che portano in piazza, di quella per cui si sono incatenati e imbavagliati per le strade o a Palazzo. L’altra via, arrivarci dopo un’indicazione più o meno diretta del popolo, com’è capitato nella storia soltanto a Romano Prodi o a Silvio Berlusconi, per adesso gli è preclusa. E non per colpa sua.
Sulla lealtà, la disciplina di partito, i rapporti umani, sul rapporto con Letta, insomma, rimando alla definizione che Mao Tse-tung dava della rivoluzione, e che va bene anche per i grandi cambiamenti della politica. “Non è un pranzo di gala. Non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità”.
Letta, semmai, va risarcito in altro modo. La maniera con cui sta combattendo a viso aperto dimostra che era errata la vulgata che lo voleva, e lo vuole, pargolo dell’alta burocrazia di Stato, allievo dei papaveri della Prima Repubblica, democristiano. Tutto sembra, soprattutto in queste ore, meno che il “nipote di”. E di questo, secondo me, bisogna dargli atto.
+++ Ore 2. Renzi annuncia via Twitter querela contro Lusi +++
Luigi Lusi sostiene di avergli dato 70 mila euro.
E Matteo Renzi, via Twitter, a domanda risponde che tra poche ore lo querelerà.
In fondo, anche le 2 di notte – quando magari si è reduci da una serata fredda di tramontana – sono un orario buono per tirare fuori una notizia.
Monti premier o foto di Vasto. Il Pd (e anche Angelino Alfano) si gioca tutto a Palermo.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 febbraio 2012)
Dal tramonto di «Roma 2020» all’ascesa di «Palermo 2012». Nei giorni in cui la Capitale ha visto sfumare il sogno olimpico, il capoluogo siciliano s’è guadagnato la finalissima di una partita che probabilmente segnerà le sorti della politica italiana. Perché stavolta non si tratta solo di delineare una semplice tendenza. Stavolta dalle urne palermitane potrebbe venir fuori, oltre al sindaco della città, anche l’assetto con cui i partiti si presenteranno alle elezioni del 2013.
L’ha capito benissimo Angelino Alfano, che la settimana scorsa s’è presentato da Pier Ferdinando Casini invocando il soccorso del Terzo Polo. Perché «le cose in Sicilia si stanno mettendo male». E soprattutto, ha aggiunto il leader del Pdl, «perché se perdo le amministrative sono morto, nel partito mi sbraneranno i falchi». Ma l’ha capito anche Pier Luigi Bersani. Consapevole che, tra le primarie del 4 marzo e le elezioni vere e proprie, la sua leadership si trova di fronte a un campo minato che non ammette remake del film andato in scena a Genova. Uno degli uomini più vicini al segretario del Pd la spiega così: «Cominciamo dalle primarie. Se vince la Borsellino diranno che è merito di Vendola. Se perde, invece, si dirà che è colpa nostra». E non è tutto. Se la Borsellino vince le primarie e perde le elezioni, «allora gli oppositori interni faranno a gara per sottolineare come il centrosinistra senza il Terzo Polo non va da nessuna parte. Non ci resta che sperare nel filotto. Rita che vince le primarie, Rita che diventa sindaco».
Forse sia i fedelissimi di Alfano sia i bersaniani difettano d’ottimismo. Ma una cosa è certa: tanto «Angelino» quanto «Pier Luigi» si aspettano che, da un’eventuale sconfitta di Palermo, possa scaturire un terremoto nei rispettivi partiti. Il che vorrebbe dire «licenziamento in tronco» nel caso del primo, la cui leadership è già ammaccata dal caso delle tessere false nel congresso; e l’apertura di un percorso che porterà al congresso anticipato nel caso del secondo. Con Casini che rimane alla finestra pronto ad accogliere tutti coloro (e ce ne sono, sia nel Pdl che nel Pd) che puntano a replicare la grande coalizione attorno a Monti anche nella prossima legislatura.
Che a Palermo si finirà a schifìo, per usare la sintesi di una video-ricostruzione che Pietrangelo Buttafuoco ha affidato al sito del Foglio, lo si capisce dalle intricatissime condizioni di partenza. E dal fatto che le formazioni ai blocchi di partenza dipenderanno dalle altrettanto intricate primarie del Pd del 4 marzo. Il tridente Bersani-Vendola-Di Pietro sostiene Rita Borsellino. I Democratici che spingono per mantenere in vita il patto regionale col governatore Raffaele Lombardo (da Giuseppe Lumia ad Antonello Cracolici) puntano invece sulla candidatura del trentenne Fabrizio Ferrandelli, che viene dall’Italia dei Valori. In pista c’è anche Antonella Monastra, consigliere comunale molto in vista in città, ex sostenitrice della Borsellino. E soprattutto un outsider di lusso, il deputato all’Assemblea regionale Davide Faraone, che conta sulla sponsorizzazione di Matteo Renzi (oggi il sindaco di Firenze sbarcherà a Palermo) e su una parte dei voti della Cgil.
In Sicilia dicono che, in caso di vittoria della Borsellino, l’ala “lombardiana” (nel senso di Raffaele) del Pd potrebbe abbandonare la casa madre (Cracolici, però, ha preventivamente smentito) per sostenere il candidato del Terzo Polo (il presidente del Coni regionale Massimo Costa?). Sia come sia, solo a quel punto il Pdl potrebbe dare il disco verde alla candidatura di Francesco Cascio. E non è tutto. La campagna delle primarie del centrosinistra è partita nel peggiore dei modi. Faraone, che a tutti gli effetti è l’unico iscritto al Pd della coalizione, ha denunciato i finanziamenti del partito nazionale alla campagna della Borsellino. E Renzi, oggi, potrebbe rilanciare quelle stessa accuse che, tra l’altro, hanno già fatto breccia tra i veltroniani.
Il sito Qdr.it (Qualcosa di riformista), pensatoio di riformisti vicini a «Walter», si chiedeva ieri: «Il Pd bara a Palermo? È vero che alle primarie il Pd finanzia la Borsellino contro Faraone, cioè una che non è del Pd contro uno che è del Pd?». Il tesoriere Antonio Misiani ha messo nero su bianco una smentita ufficiale. Ma l’;accenno di polemica è la spia che questa partita, che non è ancora neanche iniziata, può provocare un terremoto. E decidere, paradossalmente, quale partito tra Pdl e Pd franerà per primo. Aprendo definitivamente il dibattito sul replay nel 2013 di Monti a Palazzo Chigi.
Pd inquieto, bersaniani in allarme: «Dentro il partito, c’è chi punta a Monti candidato premier alle elezioni»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 novembre 2011)
«L’Italia ce la farà». Applausi. «Berlusconi deve andare a casa. O ci va da solo o ce lo manderemo noi, in Parlamento o alle elezioni». Applausi. «Il Pd è il primo partito del Paese e non sarà mai una ruota di scorta». Pier Luigi Bersani parla di fronte a una San Giovanni gremita. Piazza piena, sondaggi pure. Ma, dietro il palco, c’è un partito inquieto.
Ore 17.32. Alla fine della manifestazione sul palco salgono tutti. O quasi. Da Enrico Letta a Dario Franceschini, da Rosy Bindi a Beppe Fioroni. C’è pure Massimo D’Alema. Che un’oretta prima, interpellato dai cronisti su Matteo Renzi, se l’era cavata con una stroncatura a effetto: «Un fenomeno mediatico costruito dalla stampa».
Il sindaco di Firenze, che era entrato nel backstage di piazza San Giovanni nel primo pomeriggio, accompagnato dalle urla di una decina di contestatori, aveva già guadagnato la stazione Termini per una commemorazione di Giorgio La Pira. Non ha seguito il discorso di Bersani, «altrimenti faccio tardi a un appuntamento molto importante per tutti i fiorentini», e col segretario non s’è manco incrociato. Con Franceschini sì, si sono visti. E giusto perché il capogruppo, che ha atteso i cronisti terminassero l’assedio a Mister Big Bang, gli è andato incontro armato di battuta fulminante: «Oh, io sono venuto qua per avere un autografo di Renzi. Non è che torno a casa a mani vuote?».
Ma, nonostante dalla guerra a distanza tra Pier Luigi e Matteo sia passata solo una settimana, a creare tensione all’interno del partito non è il sindaco di Firenze. Bensì il modo in cui gestire l’uscita di scena di Berlusconi. Ufficialmente il segretario continua a tenere la barra dritta nella direzione del governo d’emergenza. Ma alcuni passaggi del suo intervento dal palco tradiscono la ferma volontà di arrivare quanto prima all’appuntamento con le urne. Anche in pieno inverno. «Siamo favorevoli a un governo di emergenza o di transizione», scandisce il leader. Ma «a condizione che sia composto da persone autorevoli, che non sia un ribaltone, e che non viva sul cabotaggio di un voto che arriva o no». Dietro di lui, però, il gotha democratico la pensa in maniera diversa. Da Massimo D’Alema, che nell’intervista rilasciata l’altro giorno al Messaggero ha fatto l’elogio del governo Monti evitando di adombrare date di scadenza. A Walter Veltroni, che continua a puntare sul 2013 e insiste sul medesimo obiettivo del suo “grande nemico”. Passando anche per Enrico Letta, che in privato continua a teorizzare che l’Europa e i mercati non prenderebbero affatto bene le elezioni anticipate.
Ugo Sposetti, deputato pd e tesoriere ds, scuote la testa: «Non vorrei che fossimo noi, il vero Partito delle libertà. Perché qui mi sa che ognuno fa come gli pare…». Franco Marini, altro veterano della politica, riduce a due le ipotesi: «Con tutto l’affetto per il mio corregionale Gianni Letta, che conosco da una vita, qui siamo a un bivio. O ci si rende conto che il problema vero è l’economia, e si fa in modo di arrivare a un governo guidato da una personalità autorevole anche in Europa, come Mario Monti. Oppure, se Berlusconi decide per il voto anticipato, prepariamoci per un esecutivo che gestisca la breve transizione. In questo caso potrebbe toccare al presidente del Senato, Renato Schifani».
Ma il “tema Monti” non è soltanto un esercizio che riguarda i prossimi giorni. No. Tra i fedelissimi di Bersani, infatti, c’è chi comincia a intravedere lo spettro dell’ex commissario europeo come candidato premier di una grande alleanza che vada da Vendola a Casini. Il ragionamento, che negli ultimi giorni è stato svolto alla presenza del segretario, suona più o meno così: se D’Alema, Veltroni, Letta e compagnia insistono sull’alleanza col Terzo Polo, non possiamo escludere che qualcuno di loro («O tutti insieme», maligna un giovane bersaniano) si alzi e proponga la candidatura di Monti alla guida della «Santa Alleanza». Magari con la scusa dell’emergenza, sicuramente con l’idea di togliere dal bouquet di ipotesi la sfida fratricida delle primarie (Bersani-Renzi-Vendola). Monti candidato premier di un fronte che va dall’Udc a Sel, insomma, sarebbe la quadratura del cerchio di chi – da tempo – va alla ricerca di una via di mezzo tra «nuovo Prodi» e «papa straniero».
I collaboratori di Bersani negano che il tema sia mai stato oggetto di discussioni interne. Ma, all’interno della cerchia di bersaniani doc, lo spettro è stato avvistato. «Qualcuno potrebbe provarci», sussurra il responsabile Giustizia Andrea Orlando. Mentre Matteo Orfini lo dice molto più chiaramente: «Monti sarebbe una soluzione dignitosa per un governo d’emergenza. Ma come candidato premier sarebbe improponibile». E si torna davanti al palco di piazza San Giovanni, ad ascoltare la fine dell’intervento di Bersani. E quell’appaluso scrosciante che dà il la all’ultimo all’ultimo week-end tranquillo della politica italiana. Berlusconi è chiuso nel suo bunker. E il segretario del Pd ripete: «Adesso tocca a noi».
«Si vota nel 2012». Renzi scende in campo e prepara il «grande annuncio»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 ottobre 2011)
Lo spazio per la diplomazia s’è esaurito. La settimana prossima Matteo Renzi farà il primo passo verso le primarie per la premiership.
A meno di colpi di scena dell’ultim’ora, alla kermesse dei post-Rottamatori convocata alla Stazione Leopolda tra otto giorni, il sindaco di Firenze mostrerà la proprie carte. Chiarendo oltre ogni ragionevole dubbio che, in caso di elezioni anticipate, lui stesso parteciperà alla primarie per la leadership del centrosinistra.
Stavolta non si tratta semplicemente di dar seguito alla generica promessa, ribadita ieri mattina su Rai Tre davanti alle telecamere di Agorà, secondo cui «uno di noi (sottinteso: della sua generazione, ndr) si candiderà». No. Perché il dossier «primarie 2012» istruito da Renzi sarebbe già arrivato a uno dei capitoli più delicati: quello della raccolta dei finanziamenti.
Chi lo conosce bene giura che «Matteo» ha già incontrato alcuni imprenditori in vista della delicatissima partita delle primarie, in cui si troverà a sfidare quantomeno l’unico iscritto “certo” alla competizione, e cioè Pier Luigi Bersani. I nomi, ovviamente, sono coperti dal più stretto riserbo. Il direttore dell’orchestra del fund raising quello no, è facilmente intuibile. Si tratta del presidente dell’Aeroporto di Firenze Vincenzo Manes, che è anche il numero uno di Intek spa, una società di partecipazioni industriali, finanziarie e di servizi con ottomila dipendenti tra Europa e Asia.
L’accelerazione di Renzi verso la candidatura a premier, in fondo, è l’elemento che ha catalizzato verso l’appuntamento della Stazione Leopolda una serie di «pezzi da novanta» che spaziano tra l’accademia e la finanza, i giornali e le banche. Come Pietro Ichino e Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e persino Corrado Passera, messi in fila l’altro giorno da un informato articolo apparso sul sito L’Inkiesta. O come Chicco Testa, managing director di Rothschild, già parlamentare, presidente dell’Enel e – più recentemente – del Forum nucleare italiano.
Domanda: perché Renzi, come in fondo tutto lo stato maggiore del Partito democratico, è sicuro che le elezioni politiche si terranno nella prossima primavera? Semplice. Perché tutti, come dimostra il moltiplicarsi delle fibrillazioni interne ai Democratici, scommettono che a gennaio Silvio Berlusconi staccherà la spina al suo stesso governo. Anche Walter Veltroni ed Enrico Letta, che pure ufficialmente continuano a spingere per la prospettiva dell’esecutivo istituzionale, sono convinti che gli spazi di manovra per i fan del governissimo si siano esauriti. Il proscioglimento del premier nel processo Mediatrade, che i legali del Cavaliere considerano come l’anticamera dell’assoluzione su Mills, ha fatto il resto. «A gennaio», riflette a voce alta un altissimo dirigente del Pd, «quando avrà scongiurato definitivamente il governo istituzionale e si sarà lasciato alle spalle parte delle rogne giudiziarie, Berlusconi provocherà lo showdown. Noi andremo alle primarie mentre lui lascerà che sia Alfano a giocarsi la partita…». Con quel porcellum che, ovviamente, consentirebbe al centrodestra di evitare l’ecatombe (con un’altra legge elettorale) del 2013.
Anche Bersani sa che la strada verso il combinato disposto “primarie-voto anticipato” è irrimediabilmente già tracciata. Il segretario del Pd, che ieri l’altro è volato a Madrid per il Global Progress, risponde stizzito a chi insinua che il suo temporeggiare sulle primarie sia dettato dalla paura di perdere. «Bersani – dice di se stesso, parlando in terza persona – è una persona seria che non ha paura di nessuno». Ma prima, aggiunge, «serve lo spartito». Poi sarà la volta «dei suonatori». Prima il programma, poi il leader.
Ma il big bang che Renzi ha programmato per la manifestazione della Leopolda è destinato a scombinare i piani di tutti. Oltre che a ridisegnare le geometrie interne del Pd, sia nella maggioranza che nella minoranza. Dentro il partito c’è chi giura che le ultime discussioni sulla linea politica – ad esempio sull’intervento della Bce, che ha visto i lettiani scontrarsi col responsabile economico Stefano Fassina – siano destinate ad avere un seguito. Letta, ad esempio, ha intensificato i suoi colloqui con Renzi. Al pari di Fioroni e Veltroni. Quest’ultimo, almeno a sentire i suoi, non avrebbe del tutto accantonato l’idea di «scendere in campo in prima persona». Certo, per una scommessa del genere, «Walter» avrebbe bisogno di almeno un anno in più di tempo. Ma l’orizzonte del voto nel 2013 sembra ormai uscito da tutti i radar. A cominciare da quello di «Matteo».
L’intervista politico-musicale di Bersani a Vanity fair.
di Tommaso Labate (piccolissimo estratto da Vanity fair di questa settimana)
Dica la verità, anche lei scrive un libro su se stesso per anticipare la discesa in campo per la guida del centrosinistra?
(…) Campo o non campo, la partita è da giocare (…).
Ha letto il libro di Matteo Renzi, no?
No, non ancora. Me ne manca qualcuno anche di Dostoevskij… (…)
Meglio Belén o la Canalis?
Belén. Ha dimostrato un po’ di professionalità in più. (…)