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S’avanza uno strano Passera. In campo per il Polo della Nazione di Casini.

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di Tommaso Labate per Lettera 43

Quando Pier Ferdinando Casini ha dichiarato in diretta tivù a Otto e mezzo che «nel Polo della Nazione ci saranno anche i ministri del governo Monti», in realtà aveva in mente un nome su tutti. Quello di Corrado Passera.
Sono finiti in tempi in cui valeva la profezia di Roberto Maroni, convinto già da novembre che fosse Silvio Berlusconi il king maker che avrebbe benedetto la corsa alla premiership dell’ex numero uno di Intesa San Paolo…

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Written by tommasolabate

20 aprile 2012 at 08:58

Monti propone la rivoluzione Rai al «vertice della lasagna». Ma la vera sfida è contro Passera.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 17 marzo 2012)

«Sia chiaro che sulla Rai io devo intervenire». Palazzo Chigi. Interno notte. Sono le 23 di giovedì quando Monti, di fronte al tridente AlfanoBersaniCasini, arriva al più delicato dei dossier del vertice. E tocca il tasto del «commissariamento».

Il presidente del Consiglio l’aveva messo in conto. L’aveva previsto, insomma, che quando il cavallo di viale Mazzini sarebbe diventato il convitato di pietra del vertice, in quello stesso istante la situazione avrebbe rischiato di precipitare. E non tanto, o non solo, per la grande guerra in corso tra un Pdl che vorrebbe il rinnovo dei vertici Rai con la legge Gasparri e un Pd che preme per il cambio delle regole. Quanto perché, come spiega uno dei tre leader in cambio della garanzia dell’anonimato, «Monti sa che lo scontro ormai s’è trasferito nelle stanze del governo». Dov’è in corso una sfida all’Ok Corral tra Super Mario, che sogna il commissariamento dell’azienda, e Corrado Passera, che invece spinge per il mantenimento dello status quo.

Davanti ad Alfano, Bersani e Casini, Monti – com’è ovvio – evita accuratamente di evocare il derby interno all’esecutivo. Ma si spinge fino a mostrare l’asso che tiene nella manica, sfruttando un assist involontario di Pier Luigi Bersani.

È il leader del Pd a dire, a un certo punto della riunione, che «noi non mettiamo veti». Semplicemente, aggiunge Bersani, «non parteciperemo alla spartizione dei posti nel consiglio d’amministrazione». E poi, sempre dalla voce del segretario dei Democratici, «parliamoci chiaro. Possiamo arrivare a fare tutte le nomine di alto profilo che volete. Ma quante ce ne sono state, di nomine di alto profilo, nella Rai degli ultimi anni? Tante, tantissime. Eppure la situazione è andata sempre peggiorando».

Monti coglie la palla al balzo. Prima rivelando – senza scendere nei dettagli – che «anche io, in passato, sono stato chiamato a scegliere se fare il presidente della Rai. Lo sapevate che anche al sottoscritto era stato proposto?». Poi aggiungendo quella che, secondo lui, rimane la strada maestra: un decreto legge che cambi le regole della governance conferendo più poteri al direttore generale. E trasformandolo, dice, «in un commissario che possa salvare l’azienda».

Di fronte al «commissariamento», che aveva già trovato la ferma opposizione di Passera, Bersani incassa un assist inaspettato e Casini prova a mediare. Ma è Alfano quello che reagisce male. «Presidente, il Pdl non accetterà mai questa ipotesi». La riunione arriva a un punto morto. A un triplice fischio che porterà la partita ai tempi supplementari. È sempre Monti a indicare la via: «Sappiate che, in ogni caso, sulla Rai io voglio intervenire. E che per me tutte le ipotesi sono in campo», è il senso del ragionamento del premier. Che invita i tre leader ad «abbandondare il mantra “legge Gasparri sì – legge Gasparri no”». E a concedersi «un po’ di tempo» per trovare il modo di «scendere dalle barricate».

Il totonomine è già partito. Piero Angela ammette ai microfoni della Zanzara di Giuseppe Cruciani (su Radio 24) di essere stato contattato. «Tutti mi stanno chiedendo se voglio fare il presidente della Rai», dice il “papà” di Quark. Risposta? «No, grazie. Penso che posso servire meglio la Rai continuando a fare il lavoro che faccio». In corsa c’è anche l’ex direttore della Stampa Giulio Anselmi. Ma è quella del dg, soprattutto se i poteri finiranno davvero per essere «pieni», la partita più importante. Il presidente del Consiglio punta a una personalità che abbia l’identikit di Enrico Bondi. E – all’interno di un risiko in cui spuntano qua e là i nomi di Francesco Caio, Mario Resca e Rocco Sabelli – anche Passera ha schierato la “sua” candidatura: quella di Claudio Cappon, ex direttore generale all’epoca dell’ultimo governo Prodi.

«Mi raccomando la solita riservatezza, eh?», si premura di dire Monti ai tre leader chiudendo i lavori del supervertice. È notte fonda. Poche ore dopo, tra le prime file del centrodestra, circolava già anche la pietanza servita a Palazzo Chigi. «Alfano dice che hanno mangiato lasagne. Si vede che il presidente del Consiglio ha voluto omaggiare Bersani e Casini, entrambi emiliani», dice un ex ministro del governo Berlusconi. Una battuta per ridere ovviamente. Al contrario del fuoco di fila che il Pdl ha aperto contro il premier sull’ipotesi di un cambio delle regole sulla Rai. Per tutti il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Non accetteremo il commissariamento dell’azienda. Nessuno pensi che facciamo finta».

Dalla lenzuolata alla coperta di Linus. Il promessificio delle liberalizzazioni.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

«Liberalizzazioni? Piegheremo le lobby», annuncia il 16 dicembre scorso Antonio Catricalà a Repubblica. «Su taxi e farmacie il governo non si ferma», giura tre giorni dopo il suo collega Fabrizio Barca alla Stampa.

E visto che evidentemente le lobby non avevano metabolizzato il concetto, e i “farmatassisti” nemmeno, ecco che l’esecutivo torna a farsi sentire dopo Natale, quando il “Cresci Italia” ha già visto la luce. «La nostra proposta è questa. E non può essere annacquata», mette nero su bianco Corrado Passera in un’intervista a Repubblica, la stessa in cui ricorda a baracca e burattini che l’Italia «resta in zona mortale» e, sottotesto, il governo non può permettersi traccheggiamenti. È il 22 gennaio scorso.

Lo stesso giorno, oltre al ministro dello Sviluppo economico, torna a prendere la parola anche Catricalà. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, in un colloquio con il Messaggero, spiega che l’operazione equità procede. Anzi, di più, l’obiettivo è praticamente raggiunto. «Stiamo eliminando i privilegi», giura. «Sui taxi nessun cedimento», afferma. «Abbiamo agito senza ideologie», aggiunge. «In modo pragmatico», insomma. A cominciare dai tassisti. Sulle licenze, dice, «decide l’Autorità dei trasporti come previsto nel testo entrato in Consiglio dei ministri». Tutto chiaro, no?

Sembrano i dialoghi di un film intitolato L’hobby di sconfiggere le lobby. Una grande storia in cui ciascuno si immagina, a mo’ di gran finale, il cittadino italiano che esce di casa, trova un taxi dopo cinque secondi e una farmacia dopo dieci, quest’ultima anche nella versione para, magari di quelle che può venderti anche i farmaci di «fascia C». Tutto molto bello.

Corrado Passera

E invece no. Perché l’annuncio del governo sull’Authority che avrebbe deciso – «sentiti i sindaci» – il numero delle licenze dei tassisti, viene rivoltato come un calzino. Adesso sono i sindaci che, «sentita l’Authority», prendono la decisione. Considerato che il primo cittadino di una città è la personalità più semplice da mettere sotto schiaffo con un blocco del traffico (della serie “Tu aumenti le licenze, io ti paralizzo le strade”), qualcuno è disposto ancora a scommettere sulla portata epocale della lenzuolata sui taxi? Certo, c’è sempre la possibilità che i sindaci sentano l’Authority dei Trasporti, perché quest’ultima può sempre ricorrere al Tar. Ma basterà? E non va meglio sul fronte farmacie. Il governo prevedeva che ne se aprissero altre cinquemila. Invece, se non interverranno nuove sorprese, ce ne saranno al massimo 3800. Da una nuova ogni tremila abitanti a una ogni 3800.

Non resistono solo i “farmatassisti”. Anche i manager pubblici sembrano sul punto di riuscire a conservare i loro stipendi. Con tanti saluti alle minacce di Maurizio Gasparri («Gli stipendi dei burocrati vanno tagliati e lo faremo», da Libero del 18 febbraio) e alla promessa fatta dal ministro Filippo Patroni Griffi al Corriere della Sera di quattro giorni fa. «Sui maxi stipendi nessuna deroga. Subito i tagli». Proprio nessuna nessuna? No, attenzione, «le deroghe saranno limitatissime», spiegano all’unisono Pdl e Pd con Renato Brunetta e Gianclaudio Bressa. Il tutto, però, incide nello stesso perimetro di incertezza ben delineato ieri sul Corriere da Sergio Rizzo in un articolo dal titolo: «Maxi stipendi, così può saltare il tetto massimo».

Antonio Catricalà

Com’è «saltato» l’obbligo dei professionisti di stilare un preventivo scritto qualora il cliente l’avesse richiesto. Non era una norma rivoluzionaria. Eppure anche quella è andata a farsi benedire in una delle tante stazioni di un calvario parlamentare che comincia il 22 gennaio. «Una piccola svolta chiamata preventivo scritto» (titolo del Corriere della Sera, 22 gennaio). «Preventivo scritto su richiesta» (Il Sole 24 ore, 25 gennaio). Dalla richiesta si passa all’obbligo. «Professionisti obbligati al preventivo scritto» (Il Sole 24 ore, 23 febbraio). Fino al triste annuncio. «Professioni, scompare l’obbligo del preventivo» (Il Sole 24 ore, 26 febbraio). Niente fiori. Niente opere di bene.

Certo, è difficile per qualsiasi governo districarsi tra lobbisti che affollano i corridoi del Parlamento e parlamentari che affollano i corridoi delle lobby. Ma anche al riparo da professionisti agguerriti e oligopolisti incalliti, dentro l’esecutivo la tendenza all’effetto annuncio rimane. Sul «tesoretto», croce (tanta) e delizia (poca, pochissima) di gente come Vincenzo Visco e Giulio Tremonti, i Professori non sembrano andare d’accordo. «Meglio evitarlo», mette a verbale Mario Monti cancellando il fondo per la riduzione delle tasse. Anzi no, «dobbiamo creare un tesoretto per favorire la crescita», replica Corrado Passera. Per non parlare dell’indecisione – ma è solo un eufemismo – che finora ha accompagnato lorministri nel delicato dossier sulla riforma del welfare. L’articolo 18? «Non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte», dice Elsa Fornero al Corriere della Sera il 18 dicembre scorso. Anzi no, «sono caduta in una trappola», spiega durante Porta a porta tre giorni dopo. «Fornero è caduta nella trappola di se stessa», osserva Ferruccio de Bortoli su Twitter commentando la retromarcia del ministro. Lo stesso ministro che, poco dopo, inverte nuovamente la rotta portando il direttore del Corriere della Sera a correggere il tiro: «Fornero ha chiarito che non vi è stata alcuna trappola del Corriere. Ringrazio il ministro per la sua onestà intellettuale». Tutto questo succedeva due mesi fa. Proprio mentre i Professori cominciavano a dilettarsi nell’hobby di dare la caccia alla lobby. All’alba di un processo che ha trasformato la lenzuolata in una coperta. Di Linus.

L’ultima disperata carta di Berlusconi. Il Colle in cambio del via libera alla Grande Coalizione.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 28 febbraio 2012)

Mentre lui, sul Corriere del Ticino, prova a superare ogni record di filomontismo ribadendo che non si candiderà mai più per Palazzo Chigi, il Giornale di famiglia – con un lungo articolo di Paolo Guzzanti – torna a darlo in corsa per il Quirinale. Che cosa ha davvero in mente Silvio Berlusconi?

Lo scenario che disegnano nella sua cerchia ristretta sembra una storia a metà tra il grottesco e la fantascienza. E parte da un’analisi sulla primavera del 2013 che alcuni berlusconiani hanno svolto alla presenza del Cavaliere qualche settimana dopo Natale. Della serie, «non dimentichiamoci che l’anno prossimo il primo atto della legislatura, dopo le elezioni dei presidenti di Camera e Senato, sarà la scelta del nuovo presidente della Repubblica. Sarà quest’ultimo a nominare il prossimo presidente del Consiglio…». Com’è successo nel 1992, quando fu Oscar Luigi Scalfaro, appena insediatosi al Colle, a conferire l’incarico a Giuliano Amato. E, ricordava l’altro giorno a Montecitorio il deputato del Pdl Peppino Calderisi, «com’è capitato anche nel 2006, quando prima si elesse Giorgio Napolitano, poi quest’ultimo nominò Romano Prodi presidente del Consiglio». Di conseguenza, prosegue il ragionamento che alcuni berluscones hanno condiviso col Capo, «in linea di principio potremmo ragionare sul Quirinale soltanto se avremo i numeri per minacciare la Grande coalizione a cui pensano Casini e una parte del Pd..».

Certo, a oggi è impossibile immaginare anche solo lontanamente Casini che dà il via libera per la corsa di Berlusconi verso il Colle in cambio del sostegno alla Grande coalizione. Sta di fatto che, da quando ha cominciato a sintonizzare le sue antenne sul 2013, il Cavaliere ha mutato la sua strategia, rivoluzionando persino l’approccio dei falchi del Pdl nei confronti di Monti.

Fino alla fine del 2011 Berlusconi è rimasto in silenzio. Adesso, come ha fatto anche ieri nell’intervista rilasciata al Corriere del Ticino, incensa il governo dei Professori e il suo comandante in capo in maniera fin troppo sospetta. «Oggi lui (Monti, ndr) si trova nella condizione di realizzare quelle riforme che il mio esecutivo aveva avviato (…). Per questo gli daremo il sostegno necessario». E ancora: «Conosco bene la serietà e la competenza di Monti, che io stesso nel 1995 sostenni per l’incarico di commissario europeo al Mercato interno». Per non parlare di tutti i falchi – politici e intellettuali – che incidono nello stesso perimetro del Cavaliere. Il Giornale, che insieme a Libero e il Foglio minacciava il «ricorso alla piazza» per fermare la tecnocrazia, adesso ha cambiato registro. Al punto che il suo direttore Alessandro Sallusti, ospite di Andrea Vianello durante la trasmissione di RaiTre Agorà, la settimana scorsa s’è spinto fino al punto di dire che voterebbe per Monti se quest’ultimo si candidasse alla guida di uno schieramento di centrodestra. Stesso discorso, tanto per fare un altro esempio, vale per Daniela Santanché: “prima della cura” le dichiarazioni di guerra contro i Professori, “dopo la cura” la conversione al montismo ortodosso condito dall’auspicio – affidato un paio di settimane fa al Foglio – di diventare «la sorella di Elsa Fornero».

Bastano le voci sulla speranza di tutelare Mediaset (anche nell’asta per le frequenze tv) per spiegare la scelta berlusconiana di giocare tutte le fiches sulla Grande Coalizione anche dopo il 2013? Bastano i veleni di Bossi sulla sentenza Mills («Pensavo che Berlusconi fosse condannato, invece i suoi voti sono determinanti per il governo Monti») per motivare la presenza del Cavaliere tra gli ultras dei Professori? Oppure c’è dell’altro? E qui si ritorna alla casella di partenza. A quell’ormai disperata rincorsa dell’ex presidente del Consiglio verso il Colle. Una rincorsa che, a prender per buona l’analisi di Paolo Guzzanti sul Giornale di ieri, potrebbe presto ricominciare. Titolo: «Adesso il Cavaliere è più forte: può puntare pure al Quirinale». Catenaccio: «La sentenza Mills rimette in pista Berlusconi».

Tutto, però, dipenderà dalle elezioni dell’anno prossimo. E dall’eventualità che Berlusconi, dopo la tornata elettorale del 2013, abbia ancora la forza di far dipendere da lui la nascita di una Grande Coalizione, magari con Mario Monti o Corrado Passera a Palazzo Chigi. Fino ad allora, però, rimarrà dietro le quinte. Uscendo allo scoperto solo per garantire il suo sostegno ai Professori. E continuando, in privato, a inventare barzellette. Come quella con cui ha allietato di recente alcuni amici, che ha per protagonista Bossi junior. «Il Trota va dall’Umberto per parlargli della stagione dei congressi della Lega. “Papà, papà, tra pochi giorni c’è il congresso a Bergamo. Che cosa dobbiamo fare?”. E Bossi, di rimando: “Andremo a parlare coi bergamaschi”. E il giovane Renzo, insospettito: “E con le bergafemmine no?”».

Passera vuole l’accordone, la Confindustria pure. Sul welfare Bersani ora spera nell’happy end.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di del 24 febbraio 2012)

Quando Pier Luigi Bersani varca il portone di Palazzo Chigi per il faccia a faccia con Mario Monti (terminato poco prima della chiusura del Riformista), sul dossier «lavoro» tra i suoi fedelissimi trapela un ottimismo forse imprudente ma tutt’altro che cauto. È come se, all’improvviso, il leader Pd si sia convinto che il presidente del Consiglio non arriverà alla rottura.

Nel braccio di ferro con l’esecutivo, il segretario del Pd non molla di un millimetro. Certo, Bersani si muove con la consapevolezza di chi non può permettersi di aprire la crisi con Monti. Ma il messaggio che invia al premier di buon mattino, rivolto anche al fronte grancoalizionista del Pd (da Walter Veltroni a Enrico Letta, passando per la new entry Dario Franceschini), è chiaro. «Trovo del tutto assurdo, immotivato e infondato il tema Monti sì-Monti no», scandisce il leader dei Democratici. «Monti sì. L’abbiamo detto e voluto», aggiunge. Ma, conclude, sul «patto di lealtà» che lega il Pd a Super Mario, almeno dal punto di vista di Bersani, c’è anche la data di scadenza: 2013. «Abbiamo intenzione di aiutare questo governo, rispetto al quale c’è un patto di lealtà che non verrà meno» e «che deve durare fino alla fine della legislatura». Sottotesto, “non un minuto di più”.

Il segretario del Pd nega le divisioni interne. «Non ci sono spaccature nel Pd». E lo stesso fa Rosy Bindi, altra nemica della Grande Coalizione, che camminando nel Transatlantico di Montecitorio scandisce: «Noi non ci di-vi-de-re-mo». Entrambi, però, sanno che il grande elemento di divisione riguarda il 2013. Ma tutti e due sono, nelle ultime ore, molto più tranquilli sul grande fronte che riguarda la riforma del Welfare e soprattutto l’articolo 18. Domanda: perché sperare in una riforma sottoscritta da tutti i sindacati (Cgil compresa) quando le premesse – soprattutto dopo gli ultimi interventi di Monti e della Fornero – vanno nella direzione opposta?

Tra i fedelissimi del segretario circola voce di uno o più contatti telefonici in cui il presidente del Consiglio, nel preparare il faccia a faccia di ieri sera, avrebbe rassicurato Bersani sull’happy end di tutta la trattativa. In fondo, si tratta della stessa tesi del pidiellino Guido Crosetto, convinto che «alla fine si tratterà di una riforma light, in cui magari si deciderà che il numero minimo di dipendenti delle aziende per cui verrà applicato l’articolo 18 passa da 15 a 18, al massimo 20».

Ma c’è dell’altro. A quartier generale del Pd hanno fiutato che, proprio sulla riforma del lavoro, c’è una spaccatura dentro l’esecutivo. Una spaccatura tra chi, come Elsa Fornero, è disposta ad andare avanti anche senza il consenso di tutte le parti. E chi, come Corrado Passera, insiste sull’importanza di trovare – come ha detto il titolare dello Sviluppo economico in una riunione – «l’accordo con tutti i sindacati, a cominciare dalla Cgil».

Strana la partita di Passera. È considerato il più vicino al centrodestra di tutti i ministri; eppure, come ha confidato a qualche amico il leader della Cgil Susanna Camusso, «è l’unico membro del governo con cui si può parlare serenamente». E non è tutto. A molti è sfuggito che, alla fine della delicata vertenza della Fincantieri di Genova, risolta grazie all’utilizzo degli ammortizzatori sociali, l’ex capo operativo di Intesa-Sanpaolo ha incassato (insieme a Giorgio Napolitano, naturalmente) nientemeno che l’applauso della Fiom.

Non c’è soltanto Passera a tranquillizzare i sonni del Pd su welfare e articolo 18. Anche Giorgio Squinzi, il favorito nella corsa (l’altro competitor è Alberto Bombassei) alla presidenza della Confindustria, è molto cauto sul dossier. Al punto che ieri ha messo a verbale che sì, «l’articolo 18 è un’anomalia tutta italiana». Ma, ha concluso, «non è l’unico problema né quello più importante».

Basteranno i dubbi di Passera e la posizione di Squinzi a blindare una riforma che non provochi una frattura tra governo e parti sociali? Chissà. Di certo c’è che Monti metterà mano all’articolo 18 perché, come ha spiegato agli altri ministri, «ce lo chiede l’Europa». In fondo, per il momento, anche Bersani si fida: «Il presidente del Consiglio ha davvero l’intenzione di trovare una soluzione condivisa da tutti».

La guerra sulla Grande Coalizione. Nel Pd s’aggira l’incubo della scissione.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 22 febbraio 2012)

Evidentemente l’argomento non è più tabù. Infatti anche un veterano come Pierluigi Castagnetti, passeggiando in Transatlantico, ammette che «i presupposti» di una scissione nel Pd «ci sono tutti». Perché altro che articolo 18. Il vero scontro tra i Democratici è sulla Grande coalizione.

L’ex segretario del Ppi ne parla con la cura di chi comunque evita di pronunciarla, la parola «scissione». Eppure basta un’ordinaria giornata a Montecitorio per capire come il Pd sia ormai diviso in due partiti. Che difficilmente continueranno a marciare uniti. Il primo, guidato da Pier Luigi Bersani, è pronto a negare al governo Monti il sostegno a qualsiasi riforma del mercato del lavoro che non abbia il disco verde della Cgil. Lo dice, senza nemmeno troppi giri di parole, il segretario stesso al Tg3: «Non condivido la tesi di andare avanti anche senza accordo», tesi che però rappresenta l’orientamento messo nero su bianco da Mario Monti. Di conseguenza, aggiunge, il «sì alla riforma è tutt’altro che scontato».

E poi c’è l’altro Pd. Quello di Walter Veltroni e di Enrico Letta, che lavora a un progetto di Grande coalizione costruito attorno a Monti anche nella prossima legislatura. Uno schema che, però, comincia a fare breccia anche in altre aree del partito.

Dario Franceschini, ad esempio, è un altro di quei dirigenti che sta per mostrare le sue carte. Prima di Natale il capogruppo a Montecitorio era stato il primo ad “aprire” a una riforma elettorale di tipo proporzionale, la stessa che consentirebbe alle forze politiche di imbastire una Grande coalizione attorno a Monti anche dopo le elezioni. Adesso l’ex segretario si spinge oltre. E, pur senza entrare nelle disputa aperta da Walter Veltroni domenica su Repubblica, fa un altro passo nella direzione di SuperMario. «Da qualche tempo», confidava ieri Franceschini a Montecitorio, «quando vado alle iniziative del Pd in cui so che non ci saranno giornalisti, mi metto a fare alcuni test. Dico sul governo delle cose che non penso, per vedere come reagiscono i nostri. Credetemi, stanno tutti con Monti. La sua popolarità tra la nostra gente è alle stelle». È il segnale che «Dario» sta per accodarsi all’area “grancoalizionista” di cui fanno parte, tra gli altri, «Enrico» e «Walter»? Chissà.

Massimo D’Alema rimane defilato. Ieri mattina, a margine di un convegno, ha archiviato alla voce «disputa priva di senso» il dibattito sul tema «Monti è di destra o di sinistra?». Eppure, nella cerchia ristretta dei dalemiani (di cui non fa più parte Matteo Orfini, ormai convertito al bersanismo ortodosso), c’è chi discute apertamente dell’ipotesi di lasciare che Monti rimanga a Palazzo Chigi per qualche anno ancora. È il caso del deputato lucano Antonio Luongo, dalemiano di lungo corso, che immagina per il 2013 un remake del film andato in scena nel 1946. «Parliamoci chiaro, la politica deve rendersi conto che nella prossima legislatura ci dev’essere l’Assemblea costituente. I partiti devono occuparsi della grande riforma istituzionale lasciando che Monti lavori almeno fino al 2015 per superare definitivamente la crisi economica».

Senza saperlo (oppure no?), Luongo cita quello stesso schema su cui i “grancoalizionisti” di Pd, Pdl e Terzo Polo (Berlusconi compreso?) stanno lavorando. Una strategia che parte dalla riforma elettorale ispano-tedesca. Si scardina l’attuale bipolarismo e le coalizioni si presentano alle urne sapendo già che il presidente del Consiglio sarà uno dei Professori attualmente in sella. In pole position c’è Monti. In subordine, visto che SuperMario potrebbe essere coinvolto nella corsa al Quirinale, Corrado Passera (gradito soprattutto al centrodestra) o qualche «Mister X» che alcuni (leggasi Veltroni) avrebbero già individuato in Andrea Riccardi.

Fantapolitica? Tutt’altro. Non a caso Rosy Bindi, che nella partita sta con Bersani, lascia l’assemblea del gruppo parlamentare del Pd furibonda come non mai. «No alla Grande coalizione. Un anno e mezzo di Monti è più che sufficiente», mette a verbale alla fine della riunione. E visto che la tela dei grancoalizionisti parte proprio dalla riforma elettorale, ecco che «Rosy» si oppone. Il sistema ispano-tedesco? «Se è questo l’accordo, allora è contrario alla nostra storia e alle deliberazioni del nostro partito, che verrebbe così mortificato in maniera inaccettabile».

Da dove comincerà la causa di divorzio tra le due anime del Pd? Dall’articolo 18 e dal «no» di Bersani a Monti. Oltre alla rissa sull’annunciata (durante la trasmissione Omnibus, su La7) partecipazione di Stefano Fassina alla manifestazione della Fiom del 9 marzo. «Non è in linea col sostegno del Pd a Monti», dice il veltroniano Stefano Ceccanti. «Il Pd non è con chi contesta Monti», aggiunge Andrea Martella. «Fassina non può stare col governo e con la Fiom», conclude il lettiano Marco Meloni. E la ruota continua a girare.

Dal pesto genovese alla cassata siciliana. Ecco il nuovo psicodramma Pd

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 febbraio 2012)

Marta Vincenzi commette l’errore filologico di paragonarsi a Ipazia, matematica egiziana uccisa dai cristiani nel quinto secolo dopo Cristo. Perché, nel suo sfogo post primarie, il sindaco di Genova sembrava più l’Ezechiele 25,17 di Quentin Tarantino. Un misto di «giustizia, grandissima vendetta e furiosissimo sdegno», insomma.

Marta Vincenzi

Passando dalla celluloide al pugilato è come se George Foreman, dopo la sconfitta a sorpresa di Kinshasa contro Mohammed Alì, si fosse svegliato la mattina dopo scazzottando a destra e a manca gli organizzatori del match. Così il primo cittadino di Genova, Marta Vincenzi, dopo le primarie che hanno premiato il candidato di Sel Marco Doria, si presenta di fronte alla tastiera del computer, apre Twitter, indossa i guantoni e attacca il suo partito. Testualmente: «Il rischio di una città che muore e non vuole riconoscerlo è lì. Nel voto a Doria come voto anticasta. Nel tutti uguali. Nel non riconoscere l’onesta fatica del riformismo vero. Nell’agitarsi dei gruppi di potere dentro e a fianco del Pd». E ancora: «Dovevo dargli una mazzata subito invece che aspettare che si rassegnassero».

Marco Doria

Lo sfogo prosegue. E «ho cercato di nobilitare la guerra che mi hanno fatto dipingendo le primarie come utili». E «speravo che il Pd mi digerisse elaborando il lutto del 2007». E «comunque a Ipazia è andata peggio», visto che – sottotesto – lei era morta. «Oggi le donne riescono a non farsi uccidere quando perdono», scrive Vincenzi. Che, tra una riflessione sulle donne in politica che tradisce un po’ di sfiducia nei confronti della corsa palermitana di Rita Borsellino («Da maggio non ci sarà più un sindaco donna in nessuna grande città italiana») e un attacco ai partiti locali («Ma con qualche assessorato si risolverà tutto, vedrai»), ricorda implicitamente che gli assassini di Ipazia erano cristiani. E quindi chiama in causa don Gallo, prete no global e sponsor di Doria: «A proposito, chissà dove sarebbe stato don Gallo al tempo di Ipazia». Il tutto mentre Roberta Pinotti, l’altra candidata del Pd, sostenuta dall’area vicina a Dario Franceschini e da un pezzo di mondo cattolico, preferisce il basso profilo: «Leccate le ferite, si guarda avanti con serenità. Il lavoro e le idee delle primarie a disposizione per vincere».

A più di cinquecento chilometri dalla tastiera del computer di Vincenzi, Bersani offre una spiegazione criptica delle puntate precedenti. «Se si va con più candidati del Pd alle primarie, se ne accetta l’esito». Traduzione: il Pd ha perso a causa della presenza di due pedine sulla stessa scacchiera. Un concetto che il segretario esplicita meglio nel pomeriggio, quando dice che «sarebbe un bene se selezionassimo prima il candidato da schierare alle primarie».

Pier Luigi Bersani

Che cosa vuol dire? Semplice. Vuol dire che Bersani ha provato fino all’ultimo a convincere Vincenzi a ritirarsi dalla competizione. «Cerchiamo un terzo nome», era stato il suo appello rivolto sia al sindaco che a Pinotti. Niente da fare. Le resistenze del primo cittadino, infatti, hanno creato tra «Marta» e «Pier Luigi» una frattura talmente profonda che alle 7 di ieri pomeriggio i due non si erano neanche sentiti per telefono.

Il caso Genova presenta al Pd un conto ancora più salato delle altre primarie andate a male. Il segretario provinciale Victor Rasetto e quello regionale Lorenzo Basso rimettono il proprio mandato. Col secondo che, insieme all’area di cui fa parte (quella di Enrico Letta), sottoscrive in via riservata la lettura secondo cui «a Genova è andata in scena una contesa tra ex Ds». Lo stesso tema sollevato sul Futurista dal sindaco di Bari Michele Emiliano, che in vista delle elezioni del 2013 auspica «una lista civica nazionale dei migliori, aperta anche al Terzo Polo», in cui si può valutare persino la candidatura a premier «di Corrado Passera».

Michele Emiliano

E i cahiers de doléances non si esauriscono qui. Il Pd viene attaccato da tutte le parti. Ed è tutto fuoco amico. «Se il candidato del Pd perde alle primarie non vanno cambiate le regole, va cambiato il candidato», annota Matteo Renzi. «Si perde se si sottovaluta il giudizio dei genovesi sul governo della città», aggiunge Enrico Letta. Il tutto mentre sulle prossime primarie, quelle di Palermo, pende come una spada di Damocle la mozione di sfiducia presentata da un pezzo di partito contro il segretario regionale Giuseppe Lupo.

Rita Borsellino

Bersani intanto prende carta e penna per rispondere al post scriptum dell’editoriale domenicale in cui Eugenio Scalfari, su Repubblica, l’aveva chiamato in correità per un documento che il tridente Orlando-Orfini-Fassina starebbe preparando con l’obiettivo di rifondare il Pd partendo dal Pse. «Non c’è nessun documento», mette a verbale il segretario. Che pure, su neoliberismo e capitalismo, ricorda come questa discussione, prima del Pd, sia stata affrontata «anche dal Times e da Benedetto XVI». E Genova, intanto, rimane un’idea come un’altra. Ma la sconfitta, stavolta, è più dolorosa.

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