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La notte del Cavaliere. L’incubo del «314» prende forma.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
«È il mio ultimo desiderio. Venitemi a prendere e portatemi in barella alla Camera. Voglio sentire l’applauso mentre dico “no”». La voce di Mirko Tremaglia, al telefono, si sentiva appena.
Quando aderì alla Repubblica di Salò aveva appena diciassette anni. Adesso che di anni ne ha ottantacinque, Mirko Tremaglia vive da mesi chiuso in casa, nella sua Bergamo. L’emozione che ha scandito i suoi momenti più appassionanti dell’ultimo decennio è la stessa che lo accompagna da quando, nel 2000, perse il figlio Marzio. La stessa con cui due giorni fa, al telefono con i colleghi finiani, ha espresso il suo desiderio: «Venitemi a prendere con un’ambulanza. È l’ultima cosa che chiedo alla politica. Voglio sentire quell’ultimo applauso dell’Aula mentre voto contro Berlusconi». Difficile accontentarlo. «Non ce la può fare, gliel’abbiamo detto tutti», spiega Fabio Granata.
Con Tremaglia fuori campo, il pallottoliere dell’opposizione – quello dei «no» al governo Berlusconi – è destinato a fermarsi a quota 305. Compresi gli antiberlusconiani dell’ultim’ora, l’ex diccì Calogero Mannino detto «Lillo» e l’onorevole fashion Santo Versace. Una cifra, questa, che tiene conto del presidente dell’Aula Gianfranco Fini che non voterà e dell’assenza fisiologica di Antonio Gaglione.
Con l’opposizione ferma a 305, tutti coloro che nella maggioranza vogliono rifilare un siluro all’indirizzo del Cavaliere hanno più frecce nel loro arco. Il perché lo spiega uno dei tanti anonimi scajoliani che agitano nervosamente la vigilia a Palazzo: «La fiducia deve passare senza problemi. Il nostro gioco è sfruttare qualche assenza tattica per far sì che il governo rimanga al di sotto della maggioranza assoluta». Semplice. D’altronde lo dice anche Giorgio Stracquadanio, fedelissimo del Cavaliere: «Finiremo a 314». Come il 14 dicembre del 2011. «D’altronde è un numero aritmeticamente affascinante», insiste il deputato azzurro, «che ci rimanda alla perfezione del pi greco…».
Sarebbe un colpo da maestro, quasi degno della vecchia scuola democristiana. In fin dei conti, «Claudio» dovrebbe spostare le sue pedine come se si muovessero «a sua insaputa». È Scajola stesso, infatti, a far filtrare la notizia di aver convinto il “falco” Roberto Antonione, «che voleva votare contro la fiducia, a esprimersi a favore». Però, nella sua corrente, i nomi dei fab five che potrebbero portare il Cavaliere dai 319 voti assicurati ai 314 previsti (321 è il totale, che scende a 318 con gli infortunati Porfidia e Franzoso, e il carcerato Papa) circolano. A cominciare da Giustina Destro, per continuare con Fabio Gava, entrambi veneti. E poi Paolo Russo e Pietro Testoni. Più il classico «mister X», dietro cui si potrebbe celare chiunque.
Perché è tutto un gioco a chi mette più paura al prossimo suo. Tutto un cercare le risposte più disparate alla più classica delle domande: per conservare il seggio conviene tenere in vita il governo? Franco Frattini, appoggiato a una colonna del Transatlantico, si sbilancia con qualche collega: «Gli scajoliani stanno tradendo Scajola. Almeno sei di loro, tra cui Abbrignani e Cicu, hanno trattato la ricandidatura con Verdini». Verità? Menzogna? Chissà. Di certo c’è che in serata, sia Pier Ferdinando Casini che il finiano Carmelo Briguglio mandano in rete dichiarazioni degne del più oscuro dei presagi di Eschilo. «L’intenzione di Berlusconi è quella di andare a votare non ricandidando metà dei parlamentari che gli votano la fiducia: uomo avvisato, mezzo salvato. Se poi gliela votano lo stesso…». Oltre i puntini di sospensione dell’ex presidente della Camera c’è una semplice considerazione: «Non serve Einstein per capire che metà dei parlamentari del Pdl resterà a casa. Basta guardare i sondaggi: il premio di maggioranza non ci sarà». Un film che agli occhi dello scajoliano ignoto ha senz’altro la gradevolezza di un horror. Una pellicola a cui cui Denis Verdini prova a rispondere in serata, assicurando ai microfoni del Tg1 che «domani (oggi, ndr) allargheremo la maggioranza».
Il Palazzo si svuota prima del tramonto. Mentre Scajola e compagnia sono appena stati avvistati a piazza San Lorenzo in Lucina, colti sul fatto mentre siglavano un fantomatico «patto del the». «Avete mai visto Vite vendute con Yves Montand?», chiede Stracquadanio. «Era la storia di un alcuni lavoratori che guidavano camion carichi di dinamite. Erano persone impaurite, perché trasportare dinamite è pericoloso. Poi, però, ci si abitua a tutto. Solo che basta una buca e….». E bum. Anche se per la fine del film ci vuole ancora un po’. L’inizio dell’ultimo giro di boa potrebbe materializzarsi oggi, se il governo tornerà a casa con uno score inferiore a 315.
Paura e delirio a Montecitorio. Il premier furibondo: «Fanno tutti schifo». E Renato Farina, arrabbiato con Bossi, invoca «il pannolone».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 ottobre 2011)
Entra in Aula quasi di corsa, alle 17. Quando esce, una manciata di minuti dopo, Silvio Berlusconi borbotta tra i denti: «Che schifo. Fanno tutti schifo». Colposo, preterintezionale o voluto che sia, l’Incidente con la «I» maiuscola travolge l’esecutivo sull’articolo 1 del rendiconto del bilancio. Nell’unico precedente della storia della Repubblica, 13 aprile 1988, il governo Goria s’era dimesso.
Ventiré anni fa, per il governo sostenuto dal pentapartito (il vicepresidente del Consiglio era Giuliano Amato) la bocciatura sul bilancio aveva rappresentato l’imbocco di una strada senza ritorno. In quell’esecutivo, coi galloni di ministro dei Trasporti, c’era anche Lillo Mannino, uno degli assenti che ieri pomeriggio ha fissato il voto al «290 a 290» che ha comportato la bocciatura del provvedimento. Un dettaglio, in fondo, se si pensa che alla votazione non hanno partecipato né Giulio Tremonti, che stava sull’uscio dell’Aula. Né Umberto Bossi, che parlava con una giornalista nel cortile di Montecitorio. Né Claudio Scajola, che poche ore prima aveva incontrato Berlusconi e Alfano avanzando ufficialmente la richiesta «di fare il vicesegretario del Pdl» (per sé), un pacchetto di ricandidature assicurate (per i suoi), più «la discontinuità» (magari con Gianni Letta premier).
Non è la sfortuna animata da quel numeretto (il 17) che coincide con l’orario della votazione. Il governo Berlusconi cade in un autentico trappolone. Marcano visita i veterodemocristiani Giuseppe Cossiga e Piero Testoni. Non ci sono i responsabili Francesco Pionati, Pippo Gianni, Paolo Guzzanti, Americo Porfidia e Mimmo Scilipoti.
Ma sono le assenze dei ministri a mandare su tutte le furie il Cavaliere. Manca Tremonti, che sta a pochi metri dalla pulsantiera. Manca Bossi, nelle stesse condizioni. «Che schifo. Fanno tutti schifo», ripete il premier tra i denti. I fotogrammi successivi alla votazione sono scene di autentico panico. Panico e rabbia. Rabbia e panico. Il giornalista-deputato Renato Farina, che si fionda in Transatlantico dopo aver notato l’assenza del Senatur, agita le braccia. E dice testualmente: «Gliel’ho detto a Rosi Mauro che a Bossi deve mettergli il pannolone». Esattamente così. Non una parola di più, non una di meno. A pochi metri da lui, il Pd si complimenta con il segretario d’Aula Roberto Giachetti, che aveva “nascosto” un paio dei deputati democratici (salvo farli rientrare all’ultimo) per far credere alla maggioranza di avere la votazione in pugno. «Mi aspetto che Berlusconi vada al Quirinale», dice Bersani. «Le dimissioni sono un atto dovuto», aggiunge Franceschini. Veltroni è fuori di sé dalla gioia: «Che vi avevo detto? Eccolo, l’Incidente. Significa che abbiamo fatto bene a insistere sul governo istituzionale».
La caduta è a dir poco rovinosa. E che sia la peggiore dall’inizio della legislatura lo dimostra l’autorevole voce che arriva in serata dal fortino del Pdl. Poche parole, soprattutto una: «dimissioni». Adesso, è il leimotiv che qualche big berlusconiano ammette a denti stretti, «Napolitano potrebbe far sapere al governo che deve lasciare». Perché? Semplice. Dal punto di vista politico, un governo “normale” non può non dimettersi di fronte alla bocciatura del rendiconto, che è un disegno di legge governativo che spiega come sono stati utilizzati i fondi pubblici. Dal punto di vista tecnico, mettere una pezza sarà complicato. Perché il governo, in ogni caso, dovrebbe tornare al Senato per rivotare l’articolo 1 bocciato dalla Montecitorio. «È un fatto senza precedenti», scandisce Gianfranco Fini dallo scranno più alto dell’Aula. Rispetto al quale, gli scenari elaborati dalla maggioranza si moltiplicano come schegge impazzite.
Una parte del Pdl, a cui dà voce Ignazio La Russa, sa che adesso c’è «l’ostacolo del Quirinale da aggirare». Di conseguenza, l’unico modo per porre rimedio è “provocare” un bis del 14 dicembre dell’anno scorso. «Non sottovaluto la gravità tecnica del voto. Ma non possono derivare le dimissioni chieste dall’opposizione», premette il ministro della Difesa. Che però aggiunge: «Credo sia corretto dimostrare subito con un voto di fiducia se il governo c’è o non c’è. Se c’è, allora si dimostrerà che quello delle opposizioni è abbaiare alla luna. Se la fiducia non c’è, le conseguenze politiche sono inevitabili».
È quello che nel poker è l’all in. Tutta la posta sul tavolo. Se si vince, si resta in campo. Altrimenti, partita chiusa. Ma, in questo caso, è impossibile fare i conti senza la fronda di Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo Economico, che aveva incontrato Berlusconi e Alfano prima del voto sul bilancio, presenta al premier e al segretario del Pdl la richiesta di «discontinuità». Però, stando all’autorevole tam tam della prima cerchia di dirigenti berlusconiani, l’ex democristiano tira fuori dal mazzo un’altra carta: «Voglio fare il vicesegretario del partito». L’incontro, a dispetto delle annotazioni di Denis Verdini («È andato bene, la sconfitta alla Camera è stata solo una casualità), non va benissimo. Soprattutto perché i deputati vicini ad Alfano, in serata, ammettono: «Sicuramente riconosceremo a Claudio un ruolo politico anche dentro il partito. Di certo non avrà tutto quello che chiede».
Una lettura, questa, che dà adito alla teoria dell’incidente preterintenzionale. Della serie, «volevano semplicemente dare un segnale, invece ci hanno portato oltre il baratro». Ma nel variopinto bouquet di richieste che «Claudio» avrebbe posto all’attenzione di «Silvio» ci sono anche altre ipotesi. Compreso quello di «un governo diverso, guidato da Gianni Letta, con la maggioranza allargata». Nel frattempo, quando (come anticipato dal Riformista di ieri) lo slittamento sine die della legge bavaglio diventa ufficiale, Berlusconi e il suo stato maggiore si infilano dentro l’ennesimo vertice. Decisivo, come saranno i giorni a venire. All’esperienza di uscire dalla Camera con il bilancio respinto, il governo Goria aveva risposto con le dimissioni. Tredici aprile 1988. Ventitré anni fa. Anzi, qualcosa in più.
Stravolgimento o slittamento: il «bavaglio» sta per uscire di scena.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’11 ottobre 2011)
Nella stanza dei bottoni del Pdl stanno pensando all’ennesimo dietrofront sulle intercettazioni. Visto che quando il Riformista va in stampa l’incontro tra Silvio Berlusconi e Angelino Alfano è ancora in corso, è impossibile stabilire se i boatos che arrivano da Montecitorio troveranno conferma. Di certo c’è che da ieri pomeriggio, nelle stanze del gruppo del Pdl, la «legge bavaglio» non è più considerata «irrinunciabile». Che cosa potrebbe succedere domattina, quando nel calendario dell’Aula della Camera è prevista l’approvazione della norma sulle intercettazioni? Un berlusconiano della prima cerchia, al riparo da microfoni e sguardi discreti, ammette che «forse non ci sono le condizioni per andare avanti». Di conseguenza la soluzione, magari benedetta dal Cavaliere, «potrebbe essere quella di “ammorbidire” il provvedimento, provando in extremis ad andare nella direzione del Terzo Polo». Oppure, «di congelarlo, rinviandolo per l’ennesima volta a tempi migliori».
I movimenti di Claudio Scajola, le tensioni all’interno di una maggioranza in cui scricchiola anche la “gamba” dei Responsabili, le perplessità sul provvedimento di pezzi significativi del mondo berlusconiano: nelle ultime quarantott’ore il Cavaliere ha capito che il gioco non vale la candela. Anche perché i pericoli che s’annidano dietro il voto di domani sono troppo alti. E rischiano di travolgere l’intero esecutivo. Lo spin doctor dell’Udc Roberto Rao, che ha seguito da vicino l’iter della “legge bavaglio”, mette in fila tutti i tasselli del puzzle: «Al punto in cui sono arrivati, non hanno tante strade da percorrere. Hanno ancora il tempo per fermare il provvedimento. Oppure possono ingranare la retromarcia per ritornare al testo Bongiorno», che ovviamente non prevedeva il carcere per i giornalisti. E se invece la maggioranza decidesse di andare avanti nella versione «bavaglio» della legge, magari mettendo la fiducia? Il braccio destro di Pier Ferdinando Casini non nasconde un sorrisetto velenoso: «Ovviamente il governo otterrebbe la fiducia. Ma che cosa succederebbe se, nel voto segreto sul provvedimento, la maggioranza andasse sotto? Non credo che in quel caso, un minuto dopo, potrebbero fare finta di niente…».
Non è tutto. La retromarcia sulle intercettazioni potrebbe servire anche a ricucire lo strappo con la truppa di Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che nelle prossime ore incontrerà Angelino Alfano, l’aveva confidato già sabato: «Una legge sulle intercettazioni serve. Ma sono sicuro che il testo di cui stanno parlando i giornali non sarà quello definitivo». In questo caso, il ritorno a una versione soft del provvedimento potrebbe servire agli scajoliani come «scusa» per rientrare – seppur momentaneamente – nei ranghi. A prendere per buona la lettura del ministro Gianfranco Rotondi, che sabato sera in un ristorante di Saint-Vincent commentava con amici e colleghi la partecipazione dell’«amico Claudio» al suo convegno, «la vicenda di Scajola potrebbe anche risolversi facilmente. Basta garantirgli la rielezione dei suoi e farlo tornare ai vertici del partito, magari con la carica di vicesegretario». Se il pronostico del democristiano Rotondi fosse azzeccato, allora la rinuncia al «bavaglio» avrebbe anche un altro significato. Quello, ragiona un berlusconiano che forse pecca di eccessivo ottimismo, di «dare al buon Claudio la chance per motivare il ritorno sui suoi passi».
A prescindere da Scajola, che ha congelato l’offensiva del frondisti (l’ex ministro ha scritto una lettera al premier per spiegare le ragioni dei malpancisti), senza un «cambio di passo» prima di domani il Vietnam parlamentare è assicurato. «Il voto finale sul provvedimento non è scontato», spiega il deputato dei Responsabili Domenico Grassano. «Anche perché nell’accordo con Berlusconi non c’era il ddl intercettazioni e soprattutto non c’erano alcune proposte insensate come l’arresto per i giornalisti». Identico il canovaccio recitato da Luciano Sardelli: «Va trovato un punto di mediazione e di sintesi che allarghi e riarticoli il centrodestra. Il carcere ai giornalisti? Ma non esiste…».
Il countdown è partito. L’Aula di Montecitorio potrebbe trasformarsi per l’ennesima volta in un bunker con ostacoli disseminati per ogni dove. E la voce che arriva dal gruppo del Pdl, la stessa che evoca il colpo di scena prima del voto, tocca sempre la stessa corda: «Forse non ci sono le condizioni per andare avanti. Neanche stavolta…». Il Cavaliere continua a resistere. Anche se il ministro Rotondi, nel fine settimana, ha lanciato la sua amara profezia: «Quando sarà l’ora, di noi non si salverà più nessuno. Cadremo tutti appresso a Berlusconi. Per chi ha fatto il ministro in questo governo, non ci saranno altre possibilità. Nemmeno per Tremonti».
Il sorpasso. Dai sondaggi il dramma del Cavaliere: Pd primo partito.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 giugno 2011)
L’allarme rosso ha la forma di un foglietto di carta, che venerdì è passato da Palazzo Grazioli allo stanzone del Pdl che attende il neo-segretario Alfano. Sul foglietto c’è scritto: Pd 29,2 per cento, Pdl 27,5 per cento.
Fossero veri i dati in possesso dei vertici berlusconiani (Ipsos), per la prima volta il Partito democratico avrebbe sorpassato il Popolo delle libertà. E le “sorprese” contenute nella rilevazione demoscopica non sono finite. Basta guardare il capitolo sulla popolarità dei leader. Crolla quella di Silvio Berlusconi (l’asticella è ferma al 26,9 per cento), cresce quella del leader democratico Pier Luigi Bersani (45 per cento).
Sull’asse che unisce la war room del presidente del Consiglio e il sancta sanctorum pidiellino di via dell’Umiltà, il morale è sotto i tacchi. E al dramma dei numeri si aggiunge la paura per quello che potrebbe succedere la settimana prossima se, come gli sherpa del Cavaliere cominciano a sospettare, la percentuale degli italiani che si recherà alle urne «sarà tale da superare il quorum». Che a quel punto determinerebbe la validità della consultazione referendaria.
Chi ha avuto occasione di confrontarsi col «Capo» nelle ultime quarantott’ore giura che «Berlusconi è disperato». I numeri dei sondaggi, che hanno orientato tutte le sue mosse dal 1994, stavolta lo stanno spingendo verso un cul de sac.
C’è un esempio che vale più di molti altri. Come spiega un ministro a lui vicino, «durante la sua ormai lunga carriera da presidente del Consiglio, in ogni momento di grave difficoltà il Presidente ha minacciato il ricorso alle elezioni anticipate». Stavolta, invece, «della minaccia di “provocare” lo scioglimento anticipato della legislatura non c’è traccia da nessuna parte». Niente. La solita arma fine-di-mondo, che Berlusconi usava puntualmente per mettere paura all’opposizione, è scomparsa da tempo da qualsiasi radar.
Il perché sta nel «foglietto di carta» di cui sopra, nel capitoletto dedicato al «testa a testa» tra centrosinistra e centrodestra. La forbice tra le due coalizioni vede lo schieramento trainato dal Pd in vantaggio di 9 punti rispetto a quello “capitanato” dal Pdl. Un vantaggio che, nel caso in cui il «Terzo Polo» si schierasse col Nuovo Ulivo (Pd, Sel, Idv), salirebbe addirittura a 17 punti percentuale.
E non è tutto. Il primo «sondaggio riservato» del dopo-amministrative fa paura al Cavaliere anche perché alle difficoltà di un Pdl al 27,5 per cento si accompagna una sostanziale “tenuta” del Carroccio. La Lega, infatti, rimane comunque ancorata alla doppia cifra (poco più del 10%). Uno score, spiegano da via Bellerio, che ovviamente «crescerebbe a dismisura qualora la nostra strada si separasse da quella di Berlusconi».
Alla débâcle post-elettorale dei berluscones si accompagna un centrosinistra trainato dall’effetto-amministrative. Pd al 29.2, Sinistra e libertà al 9, Italia dei valori al 6, Udc al 5.5. E, al di là delle cifre attribuite ai singoli partiti, nel sondaggio in questione si annota che la percentuale degli italiani convinti che «sarà il centrosinistra a vincere le prossime elezioni» (42%) è superiore a quella degli elettori che scommettono su una riconferma dell’attuale maggioranza berlusconiana (solo il 31,9% degli interpellati è convinto che, se si votasse domani, il centrodestra rivincerebbe le elezioni).
Tolta la nomina di Alfano a segretario, nel Pdl le contromosse sembrano toppe peggiori del buco. Intervistato da Repubblica, Claudio Scajola ha invitato a «buttare via» la creatura politica del Cavaliere. «Serve una casa dei moderati che ci riunifichi all’Udc», è l’opinione dell’ex ministro. Non quella di Fabrizio Cicchitto, però. «Il Pdl va rinnovato, non smontato», ha messo a verbale il capogruppo a Montecitorio.
La proposta di Scajola, tra l’altro, è stata respinta al mittente dal Terzo Polo. Con un coro di niet che ha raggiunto la vetta massima con un caustico commento che Enzo Carra ha pubblicato sul suo blog. «In case pagate da ignoti, noi dell’Udc non vogliamo abitarci», ha scritto il deputato centrista evocando lo scandalo di Affittopoli che l’anno scorso costrinse Scajola a dimettersi dal governo.
Intanto Alfano ha affidato a un’intervista al Corriere della sera il suo manifesto sulla forma-partito del Pdl. Primarie e congressi sì, «e subito». Correnti «no». Sembra di rivivere, anche nell’utilizzo dei termini, lo stesso calvario attraversato dal Pd fino all’anno scorso. Con una differenza. Nell’eterogeneo mondo del berlusconismo, ci sono big che ancora non hanno mostrato le loro carte. Uno su tutti, Giulio Tremonti.
Il ministro dell’Economia, che nei desiderata del Cavaliere dovrebbe “accontentarsi” di un posto da vicepremier (insieme a Roberto Calderoli) e in cambio sotterrare l’ascia di guerra, ha liquidato i cronisti che gli chiedevano di Alfano facendo ricorso al «cuius regio, eius religio». Significa che il suddito deve conformarsi alla religione del principe dello Stato in cui vive. Ma nel gruppetto (bipartisan) di parlamentari con cui si confronta spesso, c’è chi giura che l’ultimo successore di Quintino Sella ha timore di finire risucchiato dentro «una nuova Democrazia cristiana», come si configurerebbe quel partito «che ha Alfano alla segreteria». Da qui i rumors, che si faranno sempre più insistenti, sulla possibilità che «Giuletto» abbandoni il Pdl con un gesto plateale. Magari all’indomani dei referendum.
Ciascuno per i fatti suoi, con gli scatoloni in mano. L’effetto Lehman Brothers si abbatte sul Pdl.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 maggio 2011)
C’è un direttore d’orchestra che abbandona le bacchette. E gli orchestrali che iniziano a suonare ciascuno per i fatti propri, senza alcuna guida. Ma non si tratta del momento in cui la Filarmonica di Vienna, verso la fine del tradizionale concerto di capodanno, attacca con la Marcia di Radetzky e tutti applaudono. No, qua di applausi non v’è nemmeno l’ombra.
A poche ore dalla riapertura delle urne, Silvio Berlusconi sembra un uomo solo senza comando. «Sofferente», come l’ha definito ieri Franco Frattini. La spia di una situazione pressoché inedita s’era intravista ieri l’altro, quando i “sussurri” (virgolette d’obbligo) del premier a Obama sulla «dittatura dei giudici di sinistra» erano rimasti praticamente senza fuoco di copertura. Falchi a riposo, dichiarazioni zero, spalle scoperte. Ieri, quando il presidente del Consiglio ha replicato lo show internazionale sulla «patologia» della giustizia italiana, la stessa scena s’è ripetuta. «Chi non mi difende si vergogni», ha scandito il Cavaliere. Non l’hanno difeso neanche i suoi. «Sulle parole di Berlusconi non rispondo», ha spiegato il Guardasigilli Angelino Alfano. E tolto un Sandro Bondi ormai votato all’understatement («Bene Berlusconi che parla con altri capi di governo») e soprattutto con un piede già fuori dalla tolda di comando del Pdl, attorno alle urla del «capo» c’è stato soltanto silenzio. Niente Cicchitto, niente Quagliariello, niente Gasparri. Nulla, manco due righe di Capezzone, che ieri s’è disturbato giusto per denunciare «il clima infame» che, a suo dire, avrebbe prodotto il rogo nella sede del comitato di Lettieri a Napoli.
Il berlusconismo sembra a un passo dallo scioglimento. Basta guardare la calviniana leggerezza con cui Franco Frattini, intervistato da Mario Ajello sul Messaggero, ha fatto il disegnino della fine dell’Impero. «Questo leader (Berlusconi, ndr) deve indicare il momento politico per passare la mano», ha spiegato il titolare della Farnesina. Il Pdl? «È vero. Ci sono le correnti ma non c’è il partito». E ancora: «Stavolta, se non riusciamo a strutturarci come si deve, molti di noi torneranno alle professioni che avevano un tempo e amici come prima». Sembra di rivedere l’immagine dei dipendenti che abbandonavano scatoloni alla mano il quartier generale della Lehman Brothers appena fallita.
E non finisce qui, come scandiva Corrado lanciando la pubblicità durante la Corrida. Roberto Formigoni, che è uscito dai blocchi anticipando una sua candidatura alla leadership del Pdl, si prepara ad aprire il fuoco di fila (sulla candidatura sbagliata di Letizia Moratti) qualora Milano finisse nelle mani del centrosinistra. Allo stesso modo il blocco di Liberamente (Alfano, Gelmini, Frattini) partirà lancia in resta per ridiscutere la posizione del potentissimo coordinatore Denis Verdini. Magari stringendo un patto di ferro con chi, come Claudio Scajola, prepara la sua grande rentrée in un condominio che potrebbe essere già sfollato. Senza dimenticare che gli ex di An sono ormai proiettati verso la ricostruzione di quella «destra senza Fini» che sancirà lo scioglimento anticipato della creatura del Cavaliere.
Lo scenario apocalittico è sotto gli occhi di tutti. Infatti, mentre una buona parte di cittadini italiani si appresta a ritornare ai seggi, il governatore del Lazio Renata Polverini ha intonato il de profundis della sua stessa maggioranza nel consiglio regionale. E mica ha fatto sfoggio di eufemismi, l’ex leader dell’Ugl, nel commentare il passaggio di due eletti nella sua lista civica nel gruppo pidiellino della Pisana. No. Ha parlato di «atto di ostilità», «autolesionismo politico», «coalizione finita».
Detto in due parole «Renata», che con la sua lista contende i candidati a sindaco di Sora (Frosinone) e Terracina (Latina) al Pdl, è stata sconfessata. Alemanno la sostiene, gli ex forzisti la attaccano. «Rispettiamo gli elettori, bando alle polemiche», ha messo a verbale ieri sera Maurizio Gasparri. Come un pugno arrivato dopo il gong. O, peggio, come un velocista al Giro d’Italia che finisce fuori tempo massimo durante il tappone di montagna. Manca la gigantesca scritta game over, certo. Ma l’orchestra s’è già sciolta.
Tra pitoni e Nobel mancati. Who’s who del rimpasto
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 maggio 2011)
Antonio Gentile, parlamentare calabrese del Pdl, è l’uomo che nel settembre 2002 propose Silvio Berlusconi per il Nobel per la pace. Per «il forte ruolo svolto a favore dell’ingresso della Russia nella Nato; per la cancellazione dei crediti che l’Italia vantava verso alcuni Paesi poveri; per aver interpretato la sua funzione istituzionale come un percorso limpido e coerente di mediazione dei conflitti internazionali; perché ha restituito all’Italia una vocazione diplomatica dispersa», disse all’epoca Gentile esaltando il Cavaliere.
Bruno Cesario, ex rutelliano campano passato coi Responsabili, ha fatto di più. Nel 2008, camminando per una via di San Giorgio a Cremano (provincia di Napoli), s’accorse che un pitone di tre metri e mezzo aveva appena assaltato un’automobile, provocando la fuga del conducente. E intervenne, coraggiosamente, frapponendosi tra il mastodontico rettile e l’autovettura e agevolando quindi l’intervento delle forze dell’ordine.
E visto che Gentile e Cesario sono andati entrambi a fare i sottosegretari al ministero dell’Economia,
si può ragionevolmente sostenere che i “pezzi pregiati” del rimpasto se li è accaparrati Giulio Tremonti.
Nove nomine, arrivate ieri a chiudere quel cerchio che s’era aperto il 14 dicembre con quel voto di fiducia che aveva consentito al Cavaliere di passare indenne attraverso le forche caudine di Montecitorio. Ma «ne faremo altre dieci», aggiunge il presidente del Consiglio per placare l’ira funesta di chi è rimasto lontano dall’agognato posto al sole.
Alla lotteria del rimpasto vengono premiati – oltre a Gentile e Cesario – gli ex finiani Roberto Rosso (Agricoltura), Luca Bellotti (sosia dell’allenatore Luciano Spalletti e centravanti della nazionale Parlamentari, al Welfare) e Catia Polidori (Sviluppo economico). Aurelio Misiti, eletto nelle liste dell’Italia dei valori, va alle Infrastrutture, l’ex pd Riccardo Villari ai Beni culturali, mentre la liberaldemocratica Daniela Melchiorre s’accasa – come la Polidori – al ministero guidato da Paolo Romani. Completa il quadro l’ex centrista (transitato da Fli) Giampiero Catone, da ieri sottosegretario all’Ambiente. Il più lesto a rivendicare che «ho parlato direttamente con Berlusconi delle mie competenze, spiegandogli che avrebbe potuto usarle nei tempi e nei modi per lui più opportuni». Un modo come un altro per precisare che «in questa storia ho fatto riferimento al premier, e solo a lui».
Caso chiuso? Tutt’altro. Nella war room dei Responsabili d’ogni credo i malumori si sprecano. Pino Galati, esponente di punta dei Cristiano popolari guidati da Mario Baccini, nonché marito della leghista Carolina Lussana (i testimoni di nozze furono Bossi&Casini), ha dato voce alla sua rabbia. «Prendiamo atto che gli impegni assunti dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non sono stati mantenuti», ha messo nero su bianco in una nota vergata a quattro mani (le altre due sono quelle di Baccini). Ma il vero ispiratore del comunicato al vetriolo – e qui arrivano i primi guai per il premier – sarebbe Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che ha Galati sotto la sua ala protettiva, ieri è uscito dall’inchiesta relativa agli appalti sui Grandi eventi. «Mi sono sempre proclamato totalmente estraneo a questa vicenda: la chiusura dell’inchiesta lo conferma in modo ufficiale e definitivo», ha scandito. Che cosa c’entra col rimpasto? Semplice. Con un peso (giudiziario) in meno sul groppone, l’ex ministro ligure tornerà alla carica sul partito. «E il segnale che ha ricevuto da Berlusconi con la “bocciatura” di Galati non è certo un bell’inizio», commentano nella sua cerchia ristretta.
Difficile circoscrivere l’area del disagio “responsabile”. Nel gruppetto di Noi Sud, dove la guerra fratricida per una poltrona tra Elio Belcastro e Antonio Milo s’è conclusa 0-0 (bocciati entrambi), c’è il sospetto che “il padre nobile” Enzo Scotti adesso punti al ministero delle Politiche comunitarie. E furibondo è anche Francesco Pionati, che al Riformista dice: «Tanto questi durano poco». Massimo Calearo, invece, andrà a fare il consigliere del premier per il commercio estero. Al contrario dell’ex finiana Maria Grazia Siliquini, che dopo il giro sulle montagne russe, si ritrova a fare la regina delle occasioni sprecate. Niente posto alle Poste (ha rifiutato), niente posto al governo. Con grande gioia dei suoi ex colleghi finiani, che nel giorno dell’ultimo botta e risposta tra «Silvio» e «Gianfranco» («Il premier è ossessionato da me, merita compassione», dice il presidente della Camera) trovano finalmente qualcosa di cui sparlare.
I colleghi lo temono. E lui, Giulio, confessa alla Bindi: “Rosy, non sai quanto ti invidio”
di Tommaso Labate (dal Riformista del 13 aprile 2011)
È la bionda Stefania Prestigiacomo, sua nemica giurata, ad aprire le danze: «Che cos’è, domani quello viene in consiglio dei ministri a varare qualche manovrina economica senza avvertire nessuno, come al solito?».
Sembra una di quelle rarissime classi disciplinate, in cui gli studenti stanno composti anche quando il maestro è assente. Mancano per l’appunto il maestro, Silvio Berlusconi, e un assente giustificato, Franco Frattini, impegnato in Lussemburgo con gli altri ministri degli Esteri. Il resto della squadra di governo è tutta al proprio posto, nell’Aula di Montecitorio, a “marcare” l’approvazione del processo breve caro al maestro. L’armonia dura fino a che la Presigiacomo non solleva i suoi dubbi sull’esame del documento di economia e finanza nonché sul Piano nazionale delle riforme, che oggi saranno al vaglio di un Consiglio dei ministri che si riunirà alla Camera. «Quello ci farà uno dei suoi soliti scherzi?», è il ritornello che la bionda titolare dell’Ambiente affida alle orecchie poco discrete di alcuni suoi colleghi.
Quello, che non ha certo bisogno di presentazioni, è Giulio Tremonti. L’uomo su cui si addensano sistematicamente i sospetti di mezzo governo, soprattutto dopo il ticket Berlusconi-Letta ha perso la sponda di Cesare Geronzi nel salotto buono della finanza nostrana. L’uomo del «rigore» e dei cordoni della borsa rigorosamente sigillati, insomma.
Quando «Stefy» e altri ministri ne parlano male, lui, l’ultimo successore di Quintino Sella a via XX settembre, è impegnato nella prima delle tante chiacchierate «eterodosse» (la definizione, tra il perfido e l’ironico, è di un suo collega di governo) in cui s’è intrattenuto ieri. Che «Giulio» non sia contento di stare in Aula a «perdere tempo» si vede lontano un miglio. E così, quando incrocia Rosy Bindi, le sussurra in un orecchio: «Rosy, non sai quanto ti invidio». «E perché?», replica la pasionaria del Pd. «Perché rimpiango la legislatura passata, quando facevo il vicepresidente della Camera. Credimi», insiste Tremonti, «stavo molto meglio di oggi». «Perché avevi meno rogne, caro Giulio», è la controreplica della Bindi.
Che trami alle spalle del Cavaliere oppure no, resta il fatto che ogni mossa di Tremonti viene sempre vista con sospetto. E così, quando s’avvicina al “frondista” Claudio Scajola, suo acerrimo (ex?) nemico per una chiacchierata, Dagospia gli dedica l’apertura dell’home page. Titolo: «Gli ultimi giorni di Pompei». Sommario: «Di cosa confabulano per 22 minuti, oggi a Montecitorio, Tremonti o Scajola? Le conseguenze per il Cainano si potranno vedere in futuro, o anche domani».
Una cosa è certa. La full immersion di ieri alla Camera dimostra quello che Radiotransatlantico sostiene da tempo: tra i banchi dell’opposizione, Giulio Tremonti rimane una star. Di più, è l’unico esponente della maggioranza a essere apprezzato da Bersani, Fini, Casini e financo da Di Pietro, con cui “dialoga” attraverso il professor Vincenzo Fortunato, il suo capo di gabinetto che ha ricoperto lo stesso incarico per «Tonino».
Quale sarà il punto di caduta della «settimana incandescente» evocata da Gianni Letta non è dato saperlo. Ma se il castello di carte berlusconiano crollasse, l’unico nome per la guida di un governo di transizione sarebbe quello di Tremonti.
Alle 18.14, quando l’aria dell’emiciclo di Montecitorio gli dev’essere sembrata irrespirabile, «Giulio», versione ipersorridente, dribbla tutti i colleghi della maggioranza che gli capitano a tiro e raggiunge Enrico Letta nel cortile interno. I due chiacchierano per una decina di minuti. Fino a che, al tandem Tremonti-Letta jr., non si aggiunge Walter Veltroni, che quando vede il ministro dell’Economia abbandona il quasi ex finiano Andrea Ronchi alla compagnia di Marco Minniti.
«Giulio», «Walter» ed «Enrico» fanno giusto in tempo a tornare in Aula per godersi un piccolo momento storico. Alle 18.39, quando il pd Roberto Giachetti attacca Gianfranco Fini per non aver concesso la parola alle opposizioni dopo l’intervento di Angelino Alfano, dai banchi di Pdl e Lega arrivano applausi all’indirizzo del presidente della Camera. Sono i primi dopo oltre un anno. Poi ci sono i brusii di Palazzo. Su Ronchi e Urso, che starebbero pensando di anticipare l’addio a Fli. Sui Responsabili, che stanno per diventare un partito vero e proprio. Sulla prescrizione breve, la cui approvazione passa attraverso altri attimi di palpitazione. A Roma, nel bel mezzo del corridoio dei passi perduti, il centrodestra trattiene ancora il fiato. Se la passano meglio i pidiellini di Milano, dove una mozione di Nicole Minetti contro i parrucchieri abusivi ha passato tranquillamente il vaglio del Consiglio regionale.