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La Russa risponde al Riformista. “Perché era meglio Zenga di Ranieri”

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lettera di Ignazio La Russa (dal Riformista del 23 settembre 2011)
Caro direttore, il Riformista, che mi ostino a comprare ogni giorno, negli ultimi tempi mi riserva sorprese mattutine che, se non fossero reiterate e quindi spia di una malcelata avversione preconcetta (ma perché?), mi lascerebbero di buon umore per il loro involontario umorismo.
Giorni fa, un articolo raccontava con dovizia di particolari e senza troppa cattiveria, che mio fratello maggiore Vincenzo (già parlamentare Dc e Udc e avvocato a Milano) sarebbe in pole position per candidarsi a sindaco nel mio paese natale, Paternò, in Sicilia, dove non risiede da 50 anni!
Nei giorni successivi un altro articolo, stavolta con maggiore cattiveria e calcolata ambiguità, candidava l’altro mio fratello, Romano, ad aspirante sindaco di Sesto San Giovanni (cosa che lui stesso ha inutilmente precisato essere priva di ogni attinenza al vero).
Manca all’appello mia sorella Emilia che, benché non impegnata in politica, potrebbe offendersi per essere trascurata dalle vostre attenzioni.
Oggi il Riformista ha cambiato scenario. Pur di riservarmi un titolo (grazie) scrive: “Difendiamo l’Inter dai La Russa”,dove però non ci si riferisce per fortuna alla mia famiglia ma a tutti coloro che, nel giudizio dell’articolista, sono “i cattivi consiglieri” di Moratti.
La mia unica colpa? L’avere ipotizzato che a Gasperini, ormai esonerato (certamente senza miei consigli) avrebbe potuto subentrare Walter Zenga, che, se non sbaglio, ha all’estero un percorso di vittorie di tutto rispetto e in Italia un passato da interista doc in campo e di buon allenatore del Catania in panchina.
Sul web in tanti hanno manifestato la mia stessa opinione. Solo l’articolista del Riformista è sicuro che questo semplice desiderio di molti sia stato un “cattivo consiglio” da cui addirittura “salvare” Moratti.
Scelto Ranieri, un buon interista dice “Viva Ranieri”, ma mancherà la controprova che fosse buona o cattiva l’idea Zenga.
La cattiva opinione del giornalista sulla proposta Zenga (chissà perché ritiene il suo nome una “provocazione”?) è invece, ovviamente, comprovata e inappellabile. Proprio come le fantomatiche candidature a sindaco dei miei fratelli.
Grazie direttore, con un sorriso e senza rancore.
Ignazio La Russa

risposta:
Mi creda, ministro La Russa, per chi come me dorme da anni sotto un poster di Walter Zenga è stata davvero dura bollare come <cattivo> un consiglio che segnalava il nostro <Uomo ragno> per il dopo Gasperini. Eppure, secondo me, quello non era un buon suggerimento per Moratti.
Basta seguire i parametri che lei stesso ha segnalato nella sua lettera: il percorso estero <di tutto rispetto> di Zenga (National Bucarest, Steaua Bucarest e Stella Rossa, solo per citare i club più noti in cui è stato) e quello di Ranieri (il Valencia rilanciato alla fine degli anni Novanta, il Chelsea riportato nel gotha del calcio inglese negli anni Duemila); i club allenati in Italia da Zenga (bene a Catania, male a Palermo) e quelli guidati da Ranieri (Cagliari, Napoli, Fiorentina, Parma, Juve e Roma). Che altro dire? In bocca al lupo a tutti noi, ques’anno ne abbiamo bisogno. (t.l.)

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Written by tommasolabate

23 settembre 2011 at 08:41

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Gasp paga (anche) colpe non sue. Moratti ci fa Tarzan, sorvola sui La Russa e prende Ranieri.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 22 settembre 2011)

Dispiace. All’interista ortodosso, formidabile sintesi tra la boria da triplete e la depressione da 5 maggio, dispiace che uno con la faccia e i modi che ricordano Gigi Simoni venga licenziato. Dispiace che Gian Piero Gasperini – l’allievo del profeta Galeone, l’uomo di cui José Mourinho disse «è il migliore» – debba abbandonare la panchina senza aver vinto, unico nella storia della Beneamata, neanche una partita ufficiale.

Certo, la fatal Novara, la difesa a tre, il trequartista più quotato dalla piazza (Sneijder) costretto a vagare in mezzo al campo alla ricerca di se stesso: Gasperini ha dato un contributo all’avvicinamento al baratro. S’è accanito su un cadavere. Ma non può essere accusato di omicidio. Perché l’Inter è per tre quarti la stessa squadra – più vecchia di due anni – di un ciclo finito. Perché il restante quarto ancora «in palla» – vedasi Eto’o – è stato ceduto sull’altare delle regole di un fair play finanziario di là da venire. Perché, insomma, Moratti ha fatto come il titolare di un ristorante che ha applicato il divieto di fumo prima dell’approvazione della legge Sirchia, perdendo anzitempo quei clienti che avrebbe dovuto conservare.

Perso «Gasp», adesso è il tempo di salvare Moratti. Di salvarlo dalla sua storica bestia nera, i «consiglieri». A cui s’è aggiunto un esterno, diciamo così, «di lusso». Il ministro Ignazio La Russa, sulla cui fede nerazzurra non si può dubitare, ha suggerito al presidente di ingaggiare Walter Zenga. Consiglio scontato, come indicare Marina Berlusconi per il Pdl del dopo-Silvio. Consiglio carico di provocazione, come segnalare la Terry De Nicolò del «racchie, rimanete a casa» per un corso sull’autostima destinato a giovani fanciulle. All’Inter, invece, serve l’unico ingrediente che può sopperire a un organico non più di lusso. La solidità. Per cui, il suggerimento migliore per il suo presidente lo si trova nello scrigno di perle Alberto Sordi. Mora’, facce Tarzan. Attàccati alla liana, vola sugli improvvisati consiglieri e prendi un allenatore solido. Come Claudio Ranieri, che infatti è a un passo dalla firma del contratto.

post scriptum: poco prima delle 22, quando il Riformista era già andato in stampa, Ranieri ha firmato il contratto che lo legherà all’Inter per due anni.

Written by tommasolabate

22 settembre 2011 at 09:24

“Sembra che facciano la gara contro di me”. Il premier incassa l’ultima doccia gelata della Lega

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

Letizia Moratti col premier

Ha passato una giornata intera a rilasciare interviste, il Cavaliere. Alla partenopea Radio Kiss Kiss ha annunciato l’intenzione di stoppare gli abbattimenti delle case abusive. Al Gr1 ha giurato che non punta al Colle. Al Tg5, invece, ha raccontato che l’asticella per considerare le elezioni «un successo» è «strappare una grande città» alla sinistra. Il tutto (anche) per nascondere l’ennesima doccia gelata che ieri è arrivata dal Carroccio.

Nella ristrettissima cerchia delCavaliere hanno il problema di «evitare una rissa interna» a poche ore dall’apertura dei seggi. D’altronde, è quella stessa «rissa» che il premier ha cercato di scongiurare in mille modi, arrivando persino a negare il sostegno telefonico al candidato sindaco delPdl di Gallarate (che, tra l’altro, fa Bossi di cognome) «solo per evitare di urtare la suscettibilità di Umberto, che passa là giornate intere per lanciare la volata alla sua Giovanna Bianchi Clerici».
Ma la misura, per chi conosce bene gli sbalzi d’umore del presidente del Consiglio, è praticamente colma. Soprattutto da quando, ieri, Roberto Calderoli s’è preso la briga di annunciare il rinvio di una settimana del raduno leghista di Pontida, spostato al 19 giugno per consentire a Umberto Bossi di fare «un annuncio epocale».
La «svolta» che ha in mente il Senatur, per il quale sarà necessario un passaggio in Cassazione, riguarda una proposta di legge di iniziativa popolare per il decentramento di alcuni ministeri. «Pensate a quanto il responsabile Saverio Romano sarebbe contento di fare le valigie e spostarsi con tutto il suo dicastero qui a Milano», scherza un autorevole esponente del Carroccio.
La voglia di scherzare, dalle parti del premier, non c’è più. E non tanto perché il decentramento dei ministeri sarebbe una prospettiva talmente lontana da rendere inimmaginabile un parallelo con l’attuale compagine di governo. Quanto perché «Silvio» ha ormai capito che l’alleanza con la Lega – e con essa la maggioranza parlamentare che sostiene il governo – è ormai appesa a un filo. Senza la vittoria di Milano, l’esecutivo è a rischio. E, come nella war room berlusconiana hanno ormai capito, un eventuale successo di Lettieri a Napoli – paradossalmente – finirebbe solo per complicare le cose. «Ve l’immaginate il premier vincente grazie ai voti di Cosentino e sconfitto a casa sua? Pensate a questa scena e provate a capire come potrebbe prenderla l’elettorato della Lega», riflette l’autorevole fonte del Carroccio di cui sopra.
A quarantott’ore dall’apertura dei seggi, i margini di manovra sono ridotti al minimo. Berlusconiha alzato l’asticella

Matteo Salvini

 dello scontro milanese dando man forte alle accuse della Moratti a Pisapia? Il leghista Matteo Salvini, esponente di spicco del Carroccio meneghino (tra l’altro “papabile” per la poltrona di vicesindaco) s’è presentato ai microfoni di Un giorno da pecora per “infilzarla”: «Su Pisapia la Moratti è stata bugiarda». Berlusconi annuncia lo stop alla demolizione delle case abusive a Napoli? «Il premier dovrà parlarne con la Lega. Personalmente, indipendentemente da dove siano collocati gli immobili, sono contrario a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive», ha replicato a stretto giro Roberto Calderoli.
Sono due segnali di quanto nel retropalco ci sia rimasto ben poco. Ormai è tutto sotto gli occhi della platea: Berlusconi e la Lega marciano su due binari separati. «A volte sembra quasi che la campagna elettorale la stiano facendo contro di me», ha confidato mercoledì il Cavaliere riferendosi ai continui “smarcamenti” del Carroccio rispetto alla “linea”del centrodestra. La giornata di ieri gli ha dato ragione. Al punto che, nel giro dei berluscones milanesi, si sta addirittura arrivando a sospettare un boicottaggio elettorale ai danni della Moratti. «E se i militanti della Lega non andassero alle urne?», riflette a voce alta un big del Pdl lombardo.

Umberto Bossi

È il segno che, da lunedì, si va in mare aperto. Pubblicamente il presidente del Consiglio continua a ripetere, come ha fatto ieri intervenendo telefonicamente a un’iniziativadel candidato torinese Michele Coppola, che «abbiamo alla Camera una nuova maggioranza coesa, che ci permetterà di fare quello che non abbiamo potuto fare finora per lo statalismo di Fini e Casini». Ma lontano da microfoni e taccuini, il premier ha un’altra verità: «Se non vinciamo Milano, questi faranno cadere il governo a Pontida». D’altronde, l’intervento con cui Bossi ha concluso la giornata politica di ieri dà forza ai più oscuri presagi dei berluscones. «Bisogna parlare di programmi e non di quello che ruba la macchine», ha scandito il Senatur a Gallarate, stroncandola Moratti. E aggiungendo, come se non fosse stato sufficientemente chiaro in precedenza,  che«se non servono a guadagnare voti, meglio non farle certe mossi. Se si comincia a tirar fuori cose personali non si finisce più».

Written by tommasolabate

13 Maggio 2011 at 11:25

L’allarme di Granata: “Dal Pdl segnali per il voto dei mafiosi”.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 maggio 2011)

Fabio Granata (Fli), vicepresidente della Commissione Antimafia

Fabio Granata mette insieme «le accuse di Berlusconi e dei berlusconiani ai magistrati napoletani, alla procura di Palermo, a Ilda Boccassini». Il finiano vicepresidente della commissione parlamentare Antimafia, intervistato dal Riformista, sostiene che «si tratta di una strategia mirata. Un chiaro segnale ai mafiosi, a quegli ambienti oscuri che controllano pacchetti consistenti di voti sul territorio».      

Granata, il tema centrale delle ultime ore sono le accuse rivolte dalla Moratti a Pisapia.
Una cosa ridicola, semplicemente ridicola. Parlando di queste accuse inesistenti si rischia di mascherare lo stato di illegalità diffusa che sta caratterizzando la campagna elettorale del Pdl su gran parte del territorio nazionale.

In che senso, scusi?
Ma vi rendete conto che, stranamente, Berlusconi e i suoi stanno prendendo di mira tutti i magistrati impegnati nella lotta alle più importanti organizzazioni criminali che agiscono in questo Paese? L’attacco ai pubblici ministeri di Milano, culminati negli insulti a Ilda Boccassini. E poi le polemiche contro la procura di Palermo. Infine, le accuse che il presidente del Consiglio ha rivolto alla procura di Napoli, che è in prima fila nella sfida alla camorra.

Sta dicendo che…
Sto dicendo che non si tratta di battute estemporanee. Questa è una strategia mirata, fatta di messaggi molto pericolosi. Vogliono dire ai classici «ambienti oscuri», a quella zona grigia che sta tra i clan e la politica, che le mafie possono tranquillamente votare per loro.

Sta per caso sostenendo che Berlusconi e i suoi stanno facendo campagna elettorale usando messaggi cripto-mafiosi?
Al di là delle etichette, in alcuni settori del Pdl si sta realizzando una nitida connessione con ambienti criminali. Con quegli stessi ambienti che, sul territorio, controllano pacchetti di voti non indifferenti.

Accuse tutt’altro che lievi, le sue. Significa che il Terzo Polo, di cui lei fa parte, farà di tutto pur di non agevolare i candidati di questo centrodestra al ballottaggio?
Sulle strategie future decideremo tutti insieme.

Però si può dire che, a Milano…
Milano è la partita principale. Lo ha fatto capire anche Berlusconi, che dal capoluogo lombardo ha fatto partire l’ennesimo referendum su se stesso. Noi lì sosteniamo la corsa di un candidato eccellente, Manfredi Palmeri.

Lasciando perdere i suoi compagni di strada, viene difficile immaginare il “cittadino” Granata che al secondo turno vota per la Moratti.
Se fossi un elettore milanese, al ballottaggio non voterei per la Moratti.

E a Napoli? Il candidato del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, non ha chances di arrivare al secondo turno.
L’obiettivo principale è impedire che il candidato di Nicola Cosentino, Lettieri, diventi sindaco di Napoli. Se arrivasse al ballottaggio, noi avremmo delle buone alternative. A cominciare dal prefetto Morcone, che è in campo per il Pd. Quanto all’uomo dell’Italia dei valori, Luigi de Magistris, ha delle posizioni a volte “estreme”, diverse dalle nostre. Ma è senz’altro una persona perbene. Però, oltre alle sfide nelle città principali, invito tutti a prestare attenzione a quello che succederà a Latina e a Olbia. Sul primo fronte, dove noi siamo impegnati con la lista di Pennacchi, la curiosità è vedere se esiste ancora un elettorato moderato e di centrodestra libero da eventuali “condizionamenti”. A Olbia, dove il candidato sindaco Gianni Giovannelli è sostenuto da una coalizione che va da Fli a Vendola, potrebbe succedere qualcosa di molto interessante. Tipo che a Silvio Berlusconi, dopo il voto, venga ritirata la cittadinanza onoraria.

Se il Cavaliere uscisse “ammaccato” dal voto, avrebbe ben altri problemi rispetto alla cittadinanza onoraria di Olbia. Non trova?
Sicuramente succederebbe qualcosa. Anche in Parlamento.

D’Alema, intervistato dal Piccolo di Trieste, è tornato a parlare della Santa Alleanza di tutti – Fini compreso – contro Berlusconi.
Ho visto. Però questo è un tema che affronteremo quando le prossime elezioni politiche avranno una data certa. Intanto va registrato che le opposizioni, in Parlamento, affrontano già moltissime battaglie insieme. E non è una cosa da poco.

Se Moratti perde Milano, tenterete di riagganciare la Lega?
Tolti quelli che puntano solo alla distruzione dell’avversario, in politica bisogna discutere con tutti. E quello con la Lega può diventare un dialogo molto importante. Il Carroccio, tra l’altro, esprime il miglior esponente di questo governo. Anzi, tolto il clamoroso errore che ha fatto a Napoli l’altro giorno, quando s’è presentato in città per sostenere il candidato di Cosentino, credo che Roberto Maroni sia il miglior ministro dell’Interno degli ultimi anni.

Written by tommasolabate

12 Maggio 2011 at 12:24

Gasparri attacca: «Il Pdl in preda al tafazzismo. Ci sono troppi untorelli».

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 aprile 2011)

Maurizio GasparriC’è Daniela Santanchè che attacca Letizia Moratti sul caso Lassini. C’è Giancarlo Galan che prende di mira Giulio Tremonti sulle colonne del Giornale. E c’è Maurizio Gasparri che allarga le braccia e dice al Riformista: «Si vede che la sinistra ci ha contagiato. Anche il Pdl ha preso questa benedetta malattia del tafazzismo». Non è tutto: «Io e altri», aggiunge il capogruppo al Senato, «cerchiamo di mettere pace, di distribuire gli “antibiotici” contro quest’infezione. Ma niente… Ci sono troppi untorelli in azione».

A Milano dovevate vincere a mani basse. E invece litigate su Lassini.

«Scusi, ma il caso Lassini non era già chiuso?»

Non per la Santanchè. Che, attaccando il sindaco di Milano, ha detto che su Lassini «decideranno gli elettori».

«Per noi il caso Lassini è chiuso. Dopo i manifesti sui giudici e le Br, il partito ha preso le distanze da Lassini e lui non solo ha ammesso l’errore, ma s’è ritirato dalla campagna elettorale. Tutto questo significa che il Pdl invita i cittadini milanesi a non votare quel candidato. La questione resta aperta solo da un punto di vista tecnico. Che cosa dobbiamo fare di più, un decreto legge per evitare che gli elettori scrivano il suo nome sulla scheda?»

E l’attacco di Santanchè alla Moratti?

«Io davvero non ci capisco più niente. Ciascuno di noi dovrebbe fare la campagna per il nostro candidato sindaco e invece c’è chi addirittura attacca Letizia…».

Tafazzismo puro.

«Lo ripeto: forse la sinistra ci ha trasmesso il virus di questa malattia. E pensare che c’è gente come me, come Cicchitto e come Quagliariello che convoca delle riunioni per parlare, per discutere tra di noi, per cercare di vedere se ci sono problemi, per evitare che ci si metta a fare delle interviste che creano solo danni. Io ho aperto una farmacia, distribuisco antibiotici contro questo tafazzismo. Ma nel Pdl ci sono un po’ di untorelli…».

«Non saranno certo dei poveri untorelli a spiantare Bologna», disse Berlinguer nel ’77 attaccando il Movimento.

«Io cito i Promessi Sposi di Manzoni: «Va, va, povero untorello. Non sarai tu quello che spianti Milano…». Solo che qua gli untorelli sono più di uno».

Infatti c’è anche l’attacco di Galan a Tremonti.

«Appunto. Vede, i litigi tra i ministri di spesa e quelli del Tesoro sono un tema vecchio quanto Adamo ed Eva. Nella prima Repubblica queste sfide erano una costante. Immaginate oggi che Tremonti assomma le deleghe dei dicasteri di Tesoro, Finanze, Bilancio e pure qualcosa delle vecchie Partecipazioni statali».

È una potenza.

«E invece no, forse è l’esatto contrario. Ma sapete quanti sono i fattori che condizionano l’operato del povero Giulio? L’Unione europea, la globalizzazione, il mercato interno. Basti pensare che, sul fronte dell’energia, tra Libia e Fukushima nelle ultime settimane è cambiato tutto».

Eppure l’attacco al «rigorista» Tremonti, pubblico o meno che sia, è diventato uno degli sport più praticati, nel centrodestra.

«Pure io ci ho discusso molte volte, con Tremonti. Ma c’è qualcuno che può pensare che Giulio chiuda i cordoni della borsa solo per il gusto di mettere in difficoltà il governo di cui fa parte?».

Evidentemente sì.

«Io dico che, invece che rilasciare interviste per incassare qualche applauso facile facile, ciascuno dovrebbe fermarsi un attimo e pensare che Tremonti ha mille parametri da rispettare».

Forse Tremonti ha un caratteraccio.

«Questo di sicuro. Soprattutto perché, qualsiasi cosa succeda, pensa che ci sia sempre un “grande disegno” contro di lui. E poi perché qualche volta non sa ascoltare».

Gasparri, lei ha provato a farglieli notare, questi difetti?

«Certo. Ma Giulio dà sempre risposte del tipo: “Perché, vuoi dire che io non sto ad ascoltare gli altri?”».

Che fatica il mestiere di paciere nel Pdl.

«Tutti dovremmo cercare di smussare gli angoli più spigolosi del nostro carattere. Anche io, che certe volte ero troppo esuberante, mi sono dato una calmata».

La ricetta della tranquillità pidiellina del “medico” Gasparri?

«Niente psicofarmaci né sonniferi, quelli fanno male. Però una bella tisana dovremmo berla tutti, soprattutto di questi tempi».

Dopo le amministrative, il Pdl cambierà forma?

«Io sono per fare i congressi, come dice il mio amico La Russa, che per aver espresso questa posizione è stato ingiustamente attaccato. E sapesse le risate che mi faccio quando leggo di esponenti del nostro partito che sui giornali invocano i congressi e nelle riunioni dicono l’esatto contrario…».

Fuori i nomi.

«Niente nomi. Ho detto che dobbiamo tutti darci una calmata e mi metto io ad attaccare gli altri?».

Pisanu, un autorevole senatore del gruppo che lei presiede, ha chiesto un governo che superi quello attuale. Per i finiani chiedeste l’espulsione…

«L’altro giorno ho letto una dichiarazione di Pisanu che diceva: “Resto nel Pdl finché mi sopportano”, e cose così. Quando l’ho incontrato gliel’ho detto: “Caro Beppe, guarda che io ti sopporto benissimo”. La differenza tra Pisanu e Fini è che il primo ha delle idee diverse, che io non condivido. Il secondo, invece, era uno che boicottava…».

In che senso scusi?

«Basta un esempio solo. L’anno scorso, quando la Polverini era in difficoltà nel Lazio, disse che non poteva fare campagna elettorale da presidente della Camera. Quest’anno, però, vedo che in giro per sostenere Fli ci va, eccome se ci va».

Written by tommasolabate

23 aprile 2011 at 09:01

Habemus sondagges. Letizia e Lettieri giù, de Magistris in risalita, Fassino ok.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 19 aprile 2011)

Letizia Moratti tra il 46 e il 48 per cento, comunque sotto la soglia della vittoria al primo turno, a Milano. Va peggio Gianni Lettieri a Napoli, che oscilla attorno al 40. Al contrario dei democrat Piero Fassino e Virginio Merola, dati per vincenti subito a Torino e Bologna.

Nonostante i sondaggi arrivati ieri sulla sua scrivania, Bersani si guarda bene «dal parlare di spallata».
L’ultima infornata di rilevazioni demoscopiche dimostra, come d’altronde il segretario del Pd va ripetendo negli ultimi giorni, «che Berlusconi fa bene ad avere paura». I sondaggi, di cui però Bersani non si è mai fidato ciecamente, indicano che il centrosinistra, nella griglia di partenza delle amministrative “che contano”, è posizionato bene. Come un ciclista “succhiaruote”, pronto a sfruttare la scia del velocista per tentare di batterlo a pochi passi dal traguardo.
Stando ai foglietti planati ieri ai piani alti del quartier generale del Pd, a Milano Letizia Moratti non vincerebbe al primo turno. La forbice di consensi dell’ex ministro dell’Istruzione oscilla tra il 46 e il 48 per cento. Otto punti in più di Giuliano Pisapia, che al ballottaggio potrebbe contare sul sostegno del Terzo Polo.
Più difficile da decrittare la situazione di Napoli. A poco meno di un mese dal voto, la candidatura di Mario Morcone de MagistrisLettieri non è decollata. L’ex presidente dell’Unione industriali della Campania, stando ai dati in possesso del Pd, starebbe ben al di sotto del totale delle liste che lo sostengono: 40 per cento, decimo in più, decimo in meno. Il tutto mentre sia a Torino che a Bologna, sia Piero Fassino che Virginio Merola vincerebbero al primo turno senza soffrire troppo.
Eppure, nonostante la tentazione di rispolverare l’obamiano Yes, we can, Bersani vuole evita il muro contro muro col Cavaliere. «Non parliamo mica di spallata», ha ripetuto nelle ultime riunioni coi fedelissimi. L’obiettivo minimo, ovviamente non dichiarato, è evitare di cadere nel tranello del Cavaliere, «che polarizza lo scontro per trasformare la tornata nell’ennesimo referendum su se stesso». Perché questo, aggiunge, «è un voto per le città. Certo, se poi il centrodestra subisce una débâcle, allora dopo si tireranno le somme…».
Oltre i puntini di sospensione del ragionamento bersaniano, c’è una prospettiva che il Pd non può vedere nitidamente. Anche perché gli effetti collaterali del voto primaverile possono arrivare a intaccare anche i democrat. Come? Basta prendere il caso di Napoli. Dove l’eurodeputato dell’Italia dei valori Luigi de Magistris si sta avvicinando pericolosamente allo score del candidato del Pd Mario Morcone. Col risultato che, se il trend venisse confermato, potrebbe essere proprio l’ex pm di Why not? a sfidare Lettieri (l’uomo del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, è stabile attorno al 10 per cento).
Il centrosinistra, a questo punto, deve fare i conti con la paura di vincere. Nell’intervista rilasciata ieri al Corriere della sera, Pier Ferdinando Casini ha quasi invocato la discesa in campo di Montezemolo e Marcegaglia, chiudendo nel contempo ogni spiraglio per la Santa Alleanza cara a Bersani. Emma Bonino, nella consueta intervista del lunedì mattina con Radio Radicale, ha invece preso di mira direttamente il Pd sulle elezioni nel capoluogo lombardo. «A parte la presenza di un candidato dei grillini che toglie voti a Pisapia in una operazione che trovo discutibile», ha argomentato la vicepresidente del Senato, «credo che i vertici del Pd non abbiano colto l’importanza di Milano dal punto di vista politico e del possibile mutamento di un sistema di potere costruito in tanti anni».
Anche Bonino, come Bersani, è convinta che non si possano trasformare le amministrative «in un referendum sul presidente del Consiglio». Quanto alle critiche, il segretario del Pd risponderà col calendario alla mano. «Pier Luigi», dicono nella sua cerchia ristretta, «ha già iniziato il suo tour in giro per le città del voto. E, negli ultimi giorni prima dell’apertura delle urne, chiuderà la campagna elettorale sia a Torino, sia a Bologna, sia a Milano».
Ieri, invece, il segretario del Pd era a Macerata, a sostenere il candidato sindaco. «Che è dell’Udc», spiegano i suoi, dedicando una punta di veleno a Casini. «Nelle Marche la Santa alleanza c’è. Eppure non ci pare che Pier abbia qualcosa da ridire…».
Santa Alleanza o meno, la madre di tutte le partite del 2011 sta per iniziare. Come nelle telecronache domenicali di Tutto il calcio minuto per minuto, anche in questo caso c’è un «campo centrale». Milano. «Io sono sicuro che la Milano democratica risponderà a Berlusconi nelle urne», è l’auspicio del leader del Pd. «E io sarò lì più di una volta».

Written by tommasolabate

19 aprile 2011 at 12:10

Si decide tutto a Milano.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 aprile 2011)

Angelino Alfano aveva appena definito «senza giustificazioni» il paragone giudici-Br. Le agenzie non hanno quasi tempo di darne notizia che Silvio Berlusconi sale sul palco per lanciare un attacco contro «i magistrati eversivi». Roma, ore 17.15, ieri. È l’inizio della campagna elettorale di un premier preoccupato. Soprattutto per il voto di Milano.

Bossi Berlusconi MorattiLe parole che il presidente del Consiglio scandisce dal palco del Palazzo dei congressi di Roma, dove ieri è andato in scena il meeting Al servizio degli italiani organizzato da Michela Vittoria Brambilla, fanno cadere il gelo anche sulle stanze (semi-deserte) del Quirinale, della Consulta, del Palazzo dei Marescialli e financo in quelle del ministero della Giustizia del “suo” Alfano.

Dopo che il guardasigilli aveva appena finito di stigmatizzare in una nota i manifesti apparsi a Milano contro le toghe, il Cavaliere torna all’attacco dei magistrati. «Bisogna accertare se c’è un’associazione a delinquere. Molti giudici seguono la sinistra e hanno un progetto eversivo», grida il premier prima di citare il 1993, in cui «vennero fatti fuori i socialisti, la Dc e i repubblicani». L’equazione che ha in testa è fin troppo scontata: «Hanno fatto fuori un leader come Craxi, oggi stanno cercando di far fuori Berlusconi». Sono tesi che quantomeno provocheranno, oltre al solito giro di reazioni dell’Anm, anche la replica istituzionale del Csm.

Non è tutto. Dal palco del palazzo dei Congressi, il premier ammette l’aspetto ad personam della norma sulla prescrizione breve («Devo essere tutelato»), definisce quello su Mediatrade «un processo risibile in un’atmosfera surreale», dà dello «sfigato» all’avvocato inglese Mills e conferma il forcing sulla restrizione delle intercettazioni: «In uno Stato che si definisce democratico, i cittadini non possono sentirsi spiati».

È il segnale che, nell’ottica del presidente del Consiglio, l’ora X della campagna elettorale per le amministrative è ormai scoccata. «E ditemi se non vale la pena di andare a votare», spiega tornando a evocare deliberatamente persino lo scioglimento anticipato della legislatura.

Nella tornata che si concluderà il 29 maggio con i ballottaggi, la posta in gioco è molto più alta delle Duomo Milanoamministrazioni comunali di Milano e Bologna, Napoli e Torino. Berlusconi, ad esempio, sa che perdere Milano provocherebbe degli effetti collaterali incalcolabili per la tenuta della coalizione, a cominciare dagli scossoni del Carroccio. E così, da quando Letizia Moratti ha cominciato a manifestare i dubbi sulla vittoria al primo turno e i finiani hanno lasciato trapelare l’eventuale sostegno a Giuliano Pisapia al ballottaggio, il premier ha capito che l’unica strada da prendere era quella già battuta (con successo) in passato: polarizzare lo scontro.

Da qui la decisione di alzare ulteriormente i toni, all’indomani dell’appello bipartisan lanciato da Beppe Pisanu e Walter Veltroni dalle colonne del Corriere della sera. Per adesso, i berluscones della cerchia ristretta non temono alcun contraccolpo. Ma sanno benissimo che, dopo una sconfitta alle amministrative, la piattaforma messa nero su bianco dal presidente dell’Antimafia e dal segretario del Pd potrebbe essere l’unica in grado di coagulare consensi anche fuori dal Palazzo. Dalla Cei alla Confindustria, dagli immancabili «poteri forti» che il premier cita in continuazione a Luca Cordero di Montezemolo. Certo, anche con l’obiettivo di arginare l’inizio di una nuova discussione sul governo tecnico, il Cavaliere preferisce evocare lo spettro di elezioni anticipate («Ditemi voi se non è meglio andare a votare»). Ma che cosa succederebbe se, come argomentano nelle loro conversazioni riservate anche Fini e Casini, «Bossi e Tremonti voltassero gli voltassero le spalle?».

Ipotesi, dubbi, congetture. A cui si aggiungono quelli che Berlusconi nutre sulla sua stessa creatura, il Pdl. «Anche noi, come tutti i partiti, siamo caduti in una forse evitabile patologia», ha ammesso ieri il premier annunciando il ricambio generazionale. «Spalanchiamo le porte al nuovo». Dove per «nuovo» potrebbe intendersi la mossa di affidare ad Angelino Alfano (che si è tatticamente chiamato fuori dalla successione per la leadership del centrodestra) anche le “chiavi” del partito. Un partito di cui, a stretto giro, non farà più parte Beppe Pisanu. L’ex ministro dell’Interno, che potrebbe persino spingersi a votare contro la prescrizione breve al Senato, adesso è davvero sull’uscio. «Che cosa ci faccio nel Pdl? Cerco di cambiarlo, finché ci rimarrò», ha detto ieri il presidente della commissione Antimafia rispondendo alla domanda di uno studente di Oristano.

Written by tommasolabate

18 aprile 2011 at 09:16

Giovanni Galeone, il 4-3-3 e la sinistra perduta.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 gennaio 2011)

È tornato Zeman, è tornato Dan Peterson. Lui no, non tornerà. È l’ultimo dei 54 minuti di chiacchierata col Riformista, l’unico momento in cui la voce del Profeta tradisce una punta d’amarezza. «No, non mi siederò mai più su una panchina. Un po’ per la condizione fisica, che comunque è un problema che si risolverebbe chiamando un “secondo” giovane e in forma. Ma soprattutto perché non riesco ad avere più un rapporto con i calciatori. Me ne sono reso conto quattro anni fa, ad Udine. Non li sopporto più, i calciatori. Ormai hanno un potere contrattuale spaventoso, che porta molti di loro a non avere rispetto per la divisione dei ruoli. Scegli di non far giocare uno e quello mica te lo dice in faccia. No, si lamenta col suo procuratore, che poi chiama il direttore sportivo, che il giorno dopo chiama te».

Giovanni GaleonePeccato, non è più calcio per Giovanni Galeone. Il Profeta che tra dieci giorni compirà settant’anni. Dal «suo» 4-3-3 a «quella notte a Vienna con Silvio Berlusconi», dalle partitelle a pallone col «genio» Pasolini all’intuizione su Ibrahimovic, dal «maestro» Liedholm alla «puttanata» sui libri di Prévert portati in panchina. E il Pescara dei miracoli. E il calciatore più forte mai allenato, Blaž Sliškovic, «uno che nel calcio di oggi, con un procuratore dietro le spalle, si giocherebbe il pallone d’oro».

Galeone sfoglia un album dei ricordi lungo sette decenni. E ora che manca poco all’appuntamento con le settanta candeline, scaccia ancora una volta la parola «rimpianto» dal suo vocabolario: «La verità è che non sono mai stato invidioso. Giusto un po’ d’invidia nei confronti degli intelligenti e dei colti. Per il resto, me ne sono fregato dei soldi, della fama e dei successi altrui. Quando ho potuto, ho brindato con lo champagne. Altrimenti mi son sempre andati bene anche il prosecco o la spuma Cirutti».

Impossibile cavarsela dicendo che «in fondo è solo un allenatore di calcio». D’altronde, il suo bouquet di aforismi lo rende più simile al Barney dell’omonima Versione di Richler che a un Guidolin qualsiasi. Ha mandato pubblicamente «affanculo» Berlusconi negli anni 2000, disse che non avrebbe fatto marcare a uomo nemmeno Maradona («Perché mi creerebbe un buco a centrocampo») nel 1989, impose ai suoi atleti solo «allegria e libertà d’azione, come se giocassero sul pavimento di casa» nel 1986 e soprattutto ha sempre ricordato che la zona e il 4-3-3 li fatti prima lui, «e poi Zeman».

La sua storia di giovane emigrato napoletano si fa favola nel 1986. Quando gli scarpini da calciatore sono al chiodo da un pezzo. «La mia fortuna», racconta al Riformista, «era stata allenare le giovanili dell’Udinese. Altra epoca. Trovavi ragazzini che venivano agli allenamenti e ti dicevano: “Mister, ma sa che ieri ho visto il Bruges, giocavano con 5 difensori, 2 centrocampisti e 3 punte?”. Sperimentavamo, provavamo». A furia di provare e riprovare viene fuori il 4-3-3, con cui il Profeta fa girare la Spal dall’83 all’86. «Gustinetti, Bresciani e Trombetta avanti. Dietro di loro tre mezz’ali vere». Nel 1986 è l’ora di Pescara. «Giocavamo a zona solo noi e il Parma di Arrigo Sacchi. Solo che la mia era una squadra costruita per non retrocedere. Arrivammo primi». Il battesimo in serie A, l’anno dopo, è a San Siro contro l’Inter. «Vincemmo per 2 a 0. Ricordo ancora che la sera finii a discutere con Sivori alla Domenica sportiva. Il grande Omar sosteneva che chi giocava a zona era destinato a retrocedere. Io risposi che di 40 squadre che retrocedevano ogni anno, almeno 39 giocavano a uomo. Ti credo, a zona giocavamo solo noi…». Oggi tutto il calcio è la rivoluzione di Galeone. «L’unico da cui un po’ ho copiato è stato il grande maestro Nils Liedholm. No, Zeman no. Lui è arrivato dopo di me».

IL PAPA’ DELLA RIVOLUZIONE. Il Pescara di Galeone è leggenda ancora oggi. «Non c’erano grandi soldi, per cui fummo costretti a sacrificare i due “gioielli” che erano stati protagonisti in serie B. Rebonato e Bosco», racconta il Profeta. In società fa il suo ingresso l’imprenditore Pietro Scibilia, che con la sua «Gis» sponsorizzava le pedalate di Francesco Moser. «Cominciammo a girare nei migliori hotel. Le divise, elegantissime, le produceva una nota azienda abruzzese, da cui si serviva anche l’Avvocato Agnelli. Romeo Anconetani, presidente del Pisa, diventava matto quando le vedeva. Una volta mi disse: “Ma dove cazzo le prendete queste sciccherie qua?”». La squadra diventa uno squadrone. Undici uomini, di cui due star: il pluri-blasonato brasiliano Junior e soprattutto il bosniaco Sliškovic. «Leo Junior era già stato in Italia, al Torino. Ma con Gigi Radice s’era trovato malissimo. Lo convinse il suo grande amico Zico», ricorda il mister, «a venire a Pescara. “Vai da Galeone ché è tutta un’altra musica”. gli disse. Lo vedo ancora, Junior. Ragazzo generosissimo. È venuto dal Brasile per giocare una partita di vecchie glorie per i terremotati dell’Aquila».

I PIEDI DI SLISKOVIC. Quando gli si chiede chi è stato il giocatore più forte mai Blaz Sliskovicallenato, Galeone risponde senza esitazioni. «Sliškovic. Mai vista una mezz’ala con quel tocco di palla. A Marsiglia l’avevano scaricato per lanciare Abedì Pelè. Quando venne da noi, dopo un’amichevole estiva, Liedholm mi disse: “Giovanni, ma dove l’hai preso questo qua?” Giocasse nel calcio di oggi, con un Moggi qualsiasi alle spalle sarebbe da pallone d’oro». A Pescara segna 8 gol in 23 partite. Poi l’oblio. «“Baka” non raccolse quel che meritava. Anche per colpa della guerra. Lui era un bosniaco, la nazionale jugoslava venne cancellata e per lui cominciò il declino. Peccato, davvero un peccato. Soprattutto perché era ed è un ragazzo serio, una persona splendida. Se lo sento ancora? Certo, chiama sempre per farmi gli auguri durante le feste».

LA PUTTANATA DI PREVERT. Accanto al Galeone «maestro del calcio champagne», emerge il Galeone intellettuale. Il mister «di sinistra», l’acuto divoratore dei libri di Camus e Sartre. Il «Profeta», insomma, che porta Prévert in panchina. «Ma quella era una puttanata», sorride oggi a tanti anni di distanza. «In panchina portavo le Marlboro, mica Prévert. Successe tutto perché dissi a un giornalista che leggevo gli autori francesi. E quello tirò fuori questa storiella». E poi, «il mio calcio era soprattutto allegria. Al contrario di Prévert, che era uno scrittore triste». Gli ideali di sinistra no, quelli erano e sono autentici. Galeone nasce da una famiglia benestante e liberale. «Papà era un ingegnere, non mi è mai mancato nulla. Però da casa sono andato via subito, senza mai chiedere nulla. Nel Dopoguerra ho visto la fame, quella vera, negli occhi della gente. E una sinistra che, nonostante momenti drammatici come i fatti d’Ungheria, è sempre stata unita. Adesso non è più così. Oggi la sinistra, di fatto, è quasi inutile. Infatti Berlusconi è ancora là da quindici anni». Speranze? «I comunisti di una volta erano un’altra cosa. Avesse avuto un Berlinguer da sconfiggere, Berlusconi non avrebbe vinto manco uPier Paolo Pasolinin’elezione. Oggi però i comunisti non ci sono più. O meglio, esistono solo nelle fantasie del presidente del Consiglio». Quel che vede, a Galeone, non piace. Neanche in politica. «A sinistra litigano, fanno un’opposizione “contro”. Però non hanno una proposta politica seria da fare al Paese. Prendiamo Vendola, che pure sembra uno serio e intelligente… Ma che cosa ha da proporre? Spero che le cose cambino». In fondo, sono riflessioni di chi ha visto da vicino anche Pier Paolo Pasolini. «Fine anni ’60. A Grado lui stava girando Medea con la Callas. Noi – io, Capello, Reja, Sormani – passavamo le estati là, anche per fare le sabbiature. Giocavamo a pallone, e Pier Paolo era fortissimo. Ma la cosa che mi rimase più impressa successe nello spogliatoio. Quando Raf Vallone, che pure era una star internazionale, ascoltava le parole di questo grande intellettuale a bocca aperta».

TRA BERLUSCONI E MORATTI. All’alba dei settant’anni, Galeone vive tra Udine e Pescara. Per lui, che ha innaffiato di calcio champagne le piazze di provincia (Pescara e Perugia su tutte) e ha lanciato per primo l’allarme doping («Fui il primo a parlare di Epo»), non c’è mai stata una “grande”. «Moratti mi chiamò due volte. La prima, nel 1995, disse però che mi stimava troppo per affidarmi una squadra che lui stesso non riteneva all’altezza». Con Berlusconi fu diverso. «A Vienna, nel 1990, la sera della finale vinta dai rossoneri contro il Benfica, mi ritrovo a passeggiare con Sacchi verso il loro albergo. In hotel, erano le 3 di notte, troviamo Berlusconi che parlava con altri giocatori, tra cui Massaro. Quando il Cavaliere mi vede chiede ad Arrigo: “Non ti dispiace se parlo un po’ col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Alla fine Berlusconi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l’ho mai fatto».

Un decennio più tardi, quando si trattò di difendere il ct Zoff dal j’accuse berlusconiano dopo la finale dell’Europeo persa contro la Francia di Zidane, il Profeta disse pubblicamente: «Avesse detto quelle cose a me, l’avrei mandato affanculo». Oggi al Milan c’è un suo allievo, Allegri. «Volete sapere com’era Max da calciatore? Primo, intelligente. Secondo, credo che non abbia mai messo piede in una discoteca. Terzo, non l’ho mai visto con una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima. Adesso lo sento almeno una volta a settimana. Mi dice che al Milan è molto contento, che là si lavora benissimo». Però è un peccato che, nell’anno del signore 2011, questo non sia più un calcio per Galeone. «Questo pallone s’è ripreso lentamente dopo essere stato mortificato per 10 anni dal 4-4-2 dei falsi imitatori di Sacchi. Per un decennio il calcio è stato prendersi a calci a centrocampo, nulla di più. Il più forte oggi? Ibrahimovic, sui cui avevo puntato nel 2001. Una sera telefono al mio secondo a Pescara, Marco Giampaolo. E gli dico: “Accendi la tv e vedi che cosa sa fare il centravanti dell’Ajax, quello alto. Poi fammi sapere”. Oggi però il pallone è scaduto. In serie A arriva gente che vent’anni fa non l’avrebbe vista manco col binocolo. Allora in difesa c’era gente come Maldini e Baresi. Negli ultimi tempi, invece, Chiellini e Materazzi sono stati considerati tra i difensori più forti d’Italia. Non so se mi spiego…». Irriverente e spumeggiante come il Barney dell’omonima Versione di Richler. Un «Profeta» anche in patria. Galeone Giovanni da Napoli, tra dieci giorni settantenne. Rimarrà ancora l’idolo dei cultori del calcio gourmet. Ma non allenerà più. Potendo, berrà ancora champagne. Altrimenti s’accontenterà di prosecco o della spuma Cirutti. Senza rimpianti e senza invidia. Mai. Auguri.

Written by tommasolabate

10 aprile 2011 at 12:20

Corrado Orrico. Il Maestro di Volpara e la sua gabbia.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 luglio 2010)

«La struttura della Gabbia riproduce quella di un campo di calcio, di dimensioni ridotte e variabili, ma in cui la presenza di barriere (originariamente una gabbia, appunto) impedisce l’uscita del pallone dal campo di gioco. Queste barriere, oltre a poter variare per dimensioni e materiali, possono interessare solo i bordi del campo oppure creare anche una sorta di soffitto che copra lo stesso». (Dalla voce «Gabbia (calcio)» di Wikipedia).

«In the 1990s, Juventus (with Gigi Maifredi) and Inter (with Corrado Orrico) both tried to revoluzionize their teams with supposedly spectacular systems of play. Both experiments ended in a disaster». (John Foot, A history of Italian football, 2006, pagina 221).

È bastata una frase smozzicata. Un inciso. Una di quelle cose che, se riportate per iscritto, finiscono all’interno di un periodo lungo, inesorabilmente confinate tra due virgole. L’ha detta Rafa Benitez, il nuovo allenatore dell’Inter, quella Frase che, per quello che evoca, ha acquisito dignità da effe maiuscola. Smozzicandola, ovviamente. E facendola piombare nel caldo torrido di una normale conferenza stampa di metà luglio: «Recupereremo la gabbia e la palestra».

Ora chiunque non mastichi (o non smozzichi) di cose di pallone non può sapere, nel momento in cui s’imbatte davanti alla tivvù nel faccione tondo del mister spagnolo, che quest’ultimo ha appena menzionato la parola «gabbia» nell’unica accezione in cui la stessa non dà l’idea di «prigione», di «costrizione», di «servitù». Ma, al contrario, di «fantasia», di «bellezza». Di «libertà», insomma. Perché la gabbia di cui ha parlato Benitez in quell’inciso – «Recupereremo la gabbia e la palestra» – è legata agli schemi di un profeta del calcio di vent’anni fa. Un profeta fallito. Corrado Orrico.

UN PROFETA DI PERIFERIA. Quando arriva all’Inter, nell’estate del 1991, Corrado Orrico è un acclamato santone di periferia. Difese solide e calcio spettacolo. Messa così pare la via di mezzo tra un ossimoro e la perfezione. Il problema è che le sue idee, il cinquantenne Orrico, le ha sviluppate nelle serie minori. Quasi sempre in squadre che finiscono per “-ese”, come succede alle Cenerentole: Sarzanese, Carrarese, Massese, Udinese, Lucchese. Quando Gianni Brera lo battezza «Maestro di Volpara», dal nome del borgo carrarese da cui proviene, il profeta è già a Milano con la lista di richieste da sottoporre all’attenzione del presidente nerazzurro Ernesto Pellegrini, che cercava la risposta interista al sacchismo (nel senso di Arrigo) prodotto da Berlusconi. La richiesta, in realtà, è una sola. E non si tratta del ritocco allo stipendio bassissimo («Da operaio specializzato»), di calciatori da acquistare o di un collaboratore da far assumere a tutti i costi. Tutt’altro. «Per portare qui il mio calcio – dice Orrico – ho bisogno di una sola cosa. Dobbiamo costruire una gabbia». E gabbia fu.

IL MAESTRO DI VOLPARA. È il Primo comandamento del Maestro di Volpara: «La gabbia serve a tante cose: ad affinare la tecnica, a sviluppare i riflessi, a velocizzare il gioco, a migliorare la condizione fisica perché si gioca senza un attimo di sosta e, a livello organico, è un impegno mica da ridere». Al centro tecnico dell’Inter di Appiano Gentile, siamo nel luglio 1991, Orrico perde una settimana insieme a un ingegnere per progettare una gabbia ultramoderna. Il costo finale per la realizzazione dell’opera si aggira attorno ai trecento milioni di lire. «Occorreva», avrebbe raccontato anni dopo il Maestro, un materiale insonorizzato per attutire i rumori e un altro per aumentare la velocità del pallone». Il tutto funzionale all’elaborazione di un calcio pratico come la prosa e musicale come la poesia. Ossimoro e perfezione. Libertà. Ma la squadra mugugna. Perché in gabbia si sta chiusi, perché il pallone schizza come la pallina di un flipper, perché non c’è un attimo di pausa. Walter Zenga, il portiere, fa il capofila degli scontenti. Di quelli che, quando arriva l’ora della gabbia, vengono presi dai conati di vomito. Jürgen Klinsmann, il centravanti campione del mondo con la Germania, resiste anche perché, nelle pause dalla gabbia, almeno lui trova ristoro per l’anima conversando col Maestro di libri d’arte.

LA VISIONE, A LIVORNO. Com’era nata, la gabbia? Orrico ha sempre ammesso di non aver inventato nulla. «Il merito è di quei ragazzini che giocavano sulle spiagge livornesi. Semmai sono stato il primo a scoprire la gabbia e a utilizzarla in modo scientifico negli allenamenti». La Visione risale a un’estate della metà degli anni Sessanta. La Livorno operaia, quella dei portuali e dei figli dei portuali, degli operai e dei figli degli operai, si riversa in brache di tela verso il mare sotto casa. Ci sono le urla di gioia e i ghiaccioli colanti a causa del solleone, le mamme con la borsa di paglia e i papà coi baffoni come quelli di Giuseppe Stalin, i bambini e il pallone. Il Maestro di Volpara, che ancora maestro non era, se li trova davanti, i gabbioni. «Campetti di calcio quasi in riva al mare, in cemento, avvolti da una rete tirata su per evitare che il pallone finisse ogni due minuti in acqua». Eccola, la Visione. In uno di quei campi, ma questo Orrico non lo può sapere, il livornese Armando Picchi, anche prima di diventare il capitano della Grande Inter, trascorreva le sue estati. Leo Picchi, suo fratello, avrebbe poi tramandato la storia di quelle giornate torride ai Bagni Fiume: «Ogni giorno si finiva nella gabbia. Partite interminabili, a piedi nudi. I primi calci erano terribili, perché ti venivano le vesciche. Poi il piede faceva il callo. Potevi chiamarti Mazzola o Suarez, ma dentro la gabbia ognuno perdeva le sue stellette. Se c’era da picchiare, si picchiava. Se c’era da stringere qualcuno sulla rete, lo si stringeva. E pazienza se il dito ci rimaneva dentro».

LA SCOMMESSA. Orrico elabora la Visione avuta nelle spiagge livornesi. E il suo gioco a zona, fatto di una libertà che s’alza in volo da una gabbia, inizia a fare il giro dei campi della Toscana. Carrarese e poi Massese, Camaiore e poi di nuovo Carrara, dove porta la squadra di casa dai dilettanti alla C1. Il miracolo si arresta all’Udinese, dove fallisce nella sua prima esperienza nella massima serie (esonerato dopo ventidue giornate). Ma il Maestro risorge dalle ceneri e torna in auge. Ancora alla Carrarese, poi a Prato, quindi a Lucca, dove lo champagne che sgocciola dal suo calcio consente alla Lucchese di sfiorare la promozione in serie A. È la primavera del 1991. L’Inter di Pellegrini ha già deciso di affidare al Profeta della gabbia le chiavi del dopo Trapattoni e soprattutto il guanto di una grande sfida: superare con un asso di briscola tutte le carte del Milan di Sacchi.

«GABBIA DI MATTI ». Dopo un’estate nella gabbia, la squadra di Orrico si presenta il primo settembre al taglio del nastro del campionato 1991-92. A San Siro è di scena il Foggia di don Pasquale Casillo e Zdenek Zeman, che quel giorno esordisce in serie A. Tutti si aspettano che l’Inter del crepuscolo di Matthaus annienti le neo-promossa. Invece no. Gli uomini del boemo vanno in vantaggio con Ciccio Baiano e i nerazzurri pareggeranno con la riserva Massimo Ciocci. Ma l’uno-a-uno finale del tabellino, da solo, non racconta lo spettacolo di una partita che un tempo si sarebbe detta «ricca di capovolgimenti di fronte». Tiri e parate, tanti fraseggi zero dribbling, tutto collettivo e niente singolo. Il «WM a zona» creato in una gabbia dal Maestro di Volpara contro il calcisticamente eterodosso 4-3-3 del Maestro di Praga. In quarantamila si godono uno spettacolo che pare uscito da una canzone di Sergio Caputo. Una partita swing and soda, con sprazzi di jazz, atmosfere da night club e tanto alcol. Anche se sono le quattro di pomeriggio. Per Orrico, però, l’inizio coincide col declino. La squadra, abituata a giocare a uomo, non digerisce la nouvelle vague zonista. Vince a Roma con la Roma e in casa col Verona. Ma poi comincia a barcamenarsi tra sconfitte e pareggi fino a che, dopo il crollo con l’Atalanta a Bergamo, il Maestro di Volpara saluta tutti e se ne va. A fine partita Amedeo Goria gli porge il microfono della Rai: «In fondo sono i calciatori che vanno in campo. Non pensa che le colpe siano di tutti?». E lui, con quella dignità che può trasformare anche il più piccolo degli uomini in un eroe: «Ringrazio tutti, i giocatori e il presidente. Purtroppo ho fallito. Se me ne vado vuol dire che la colpa è solo mia». È il 19 gennaio 1992. L’Inter di Orrico è pronta per il dimenticatoio. Con l’etichetta fissata da un titolo del “Guerin sportivo”: «Gabbia di matti».

IL MAUSOLEO. I resti della gabbia fatta costruire da Orrico sono sopravvissuti ad Appiano Gentile per anni. Un mausoleo fatiscente alla memoria di una grande illusione. Quando nel 2002 arrivò ad allenare l’Inter, Roberto Mancini chiese che quella cattedrale venisse trasformata in un campetto coperto. E pensare che, pochi mesi prima, la Nike aveva recuperato l’idea orrichiana per la fortunata campagna pubblicitaria in cui i grandi calciatori dell’epoca (Totti, Figo, Ronaldo, also starring Cantona) si sfidavano all’interno di una gabbia, appunto. Oggi, a tanti anni di distanza, Rafa Benitez recupera l’Idea. Infilando un sogno dentro una frase smozzicata. E il Maestro di Volpara, che ora ha quasi settant’anni?

LE CARTE IN REGOLA. È un uomo triste, oggi, Orrico. Come tutti i padri che sopravvivono ai figli. Il suo, di figlio, s’è suicidato l’anno scorso. E neanche la casa di Volpara c’è più. «L’ho messa in vendita», disse in un’intervista al “Tirreno”. «Io non ho debiti, ma vivo con la pensione da operaio e non basta per gestire quella proprietà». E poi, aggiunse, «sto bene perché vivere con il salario di un operaio specializzato mi fa essere più in sintonia con il partito che ho sempre votato». Il ricordo dell’Inter è lontano anni luce. Nessun rimpianto tranne uno, nel cuore del Maestro: «Con il denaro si possono acquistare molti libri. Per il resto ho poche esigenze. Quello che mangio, ad esempio, me lo coltivo da solo». E a uno viene quasi da immaginarselo, Corrado Orrico, negli anni Sessanta. Mentre guarda quei ragazzi giocare a pallone chiusi nei gabbioni. E visto che la scena è ambientata a Livorno, sembra di sentire la voce di Piero Ciampi che canta in sottofondo: «Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ Ha un carattere melanconico/ beve come un irlandese./ Se incontra un disperato/ non chiede spiegazioni… ».

Written by tommasolabate

11 marzo 2011 at 12:00

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