Posts Tagged ‘Pisapia’
Cala il sipario sui Rottamatori. C’è uno splendido cinquantaduenne che ha rilanciato il centrosinistra.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 3 giugno 2011)
Ricordate la teoria della «rottamazione» di Pd e centrosinistra, formulata da Renzi&Co.? Puff, sparita nel nulla.
E quel variopinto movimento dei Rottamatori, che s’era raccolto attorno a Matteo Renzi e Pippo Civati? Evaporato. Infatti dell’idea di «rottamare» la classe dirigente del Pd e del centrosinistra partendo da un controllo sulle carte d’identità dei big (o presunti tali), almeno per qualche tempo, non si parlerà più.
La «rottamazione», insomma, è stata rottamata prima che il primo rottamando finisse sotto il compattatore. E come nell’antico adagio attribuito a Pietro Nenni («A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura»), i Rottamatori in quanto tali hanno trovato qualcuno più rottamatore di loro che li ha rottamati.
Questo qualcuno è il Mister X che è appena riuscito nell’impresa di spingere Silvio Berlusconi sull’orlo del precipizio. La stessa persona che ha creato le condizioni perché tutto il centrodestra finisse per sedersi sopra una polveriera.
Il Mister X in questione è un signore che ha più di 52 anni. E si chiama Giuliano Pisapia (anni 62) ma anche Luigi de Magistris (anni 44), Massimo Zedda (anni 35) e pure Piero Fassino (anni 62), e ancora Roberto Cosolini (anni 55), e Virginio Merola (anni 56). Dalla media aritmetica delle età dei neo-sindaci che nei sei campi centrali (Milano, Napoli, Cagliari, Torino, Trieste, Bologna) hanno messo il berlusconismo all’angolo, viene fuori uno «splendido cinquantaduenne». Per la precisione, un Mister X che ha 52 anni e quattro mesi esatti.
È il segno che puoi essere trentenne o sessantenne, l’importante è vincere. E lo stesso Renzi, che rimane una delle principali risorse del Partito democratico, adesso l’ha capito perfettamente.
La prova? Basta guardare la differenza tra il Renzi dell’estate scorsa e il Renzi di pochi giorni fa. «Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio, dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni fra D’Alema, Veltroni e Bersani… Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi», metteva a verbale il sindaco di Firenze in un’intervista rilasciata a Repubblica a fine agosto 2010. Dopo l’ultima tornata elettorale, invece, Renzi ha cambiato idea. E quel Bersani che andava rottamato (tra l’altro senza incentivi) adesso è diventato un segretario «rafforzato e con un carico di responsabilità su di sé molto bello» (questa volta, l’intervista è stata rilasciata Corriere della sera di tre giorni fa).
Morale della favola? In un centrosinistra in cui vincono tutti, il segretario del Pd appare come il massimo comun denominatore che mette tutti d’accordo. Non a caso, nell’analisi sulla necessità di rompere con «capicorrente e schemini sulle alleanze» che ieri ha affidato ai taccuini di Maria Teresa Meli del Corriere, Nicola Zingaretti lo dice chiaramente: «Bersani, che io ho sempre difeso anche quando era “cool” dire che era un leader finito, adesso ha attorno a sé un clima molto più sereno». Non solo. Il segretario del Pd, aggiunge il presidente della provincia di Roma, «ha una grande chance: quella di promuovere una profonda innovazione dello strumento partito».
L’innovazione della vittoria, insomma, rottama la rottamazione dell’anagrafe. Anche perché i ballottaggi si sono portati via quell’atmosfera da redde rationem che poteva nascondersi dietro la «verifica» chiesta da Veltroni (sul Foglio) prima del voto. E pure perché, all’interno del centrosinistra, l’aria pare talmente serena che persino Antonio Di Pietro s’è affrettato (durante l’ultima puntata di Ballarò) a lanciare con un bel po’ d’anticipo la corsa di Bersani verso la premiership. Il tutto mentre Vendola, forse per la foga di attribuirsi un risultato che comunque era in parte suo, ha finito addirittura per trascinarsi in un’«amichevole» disputa nientemeno che con Giuliano Pisapia.
Il cantiere del centrosinistra trainato dal cinquantaduenne Mister X si gioca il tutto per tutto al referendum del 12 e 13 giugno, voluto fortemente da Di Pietro l’anno scorso e rilanciato da Bersani dopo il primo turno delle amministrative. L’ascesa al Monte Quorum è più dura del Mortirolo o dello Zoncolan. Ma l’obiettivo è comunque raggiungibile. Soprattutto se i militanti della Lega Nord, come anche l’orientamento della Padania lascia immaginare (titolo in prima pagina di ieri: «Referendum, l’acqua è un bene pubblico»), si recheranno in massa alle urne. Magari benedetti da un segnale del loro leader, Umberto Bossi. Se quel colpaccio riesce, torneranno i «rottamatori». Ma non quelli di Renzi e Civati. Se venisse raggiunto il quorum, infatti, tutto il cantiere del centrosinistra avrà tra le mani la possibilità storica di rottamare una stagione politica. Che non si evince tanto dall’età del suo protagonista (75 anni e mezzo). Quanto dal suo nome di battesimo: «Silvio».
“Basta politicismi”. Lo scatto di Bersani nell’ascesa al Monte Quorum.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 giugno 2011)
«Sul referendum ci metto la faccia», ha spiegato ieri Pier Luigi Bersani riunendo la segreteria del partito. Nel day after la vittoria elettorale, il leader del Pd ha deciso che farà anche il testimonial della campagna degli spot sul 12 giugno.
La road map bersaniana era stata messa nero su bianco subito dopo il primo turno delle amministrative. «Colpire il Cavaliere ai ballottaggi, tentare di affondarlo al referendum». E ora che la prima parte del «piano» può dirsi riuscita in pieno, Bersani vuole completare l’opera.
Ai tanti dirigenti di primo piano del Pd che sono scettici sull’operazione di inseguire un quorum che manca da un decennio (tra questi ci sarebbero D’Alema e Veltroni), il segretario risponde in due modi. Primo, «anche pensare di vincere Milano, solo un mese fa, era considerato l’esercizio di un matto». Secondo, «adesso dobbiamo lasciarci alle spalle le mosse politiciste e fare politica a viso aperto, come abbiamo fatto in questa tornata elettorale».
Detto fatto. Ieri, riunendo la segreteria del suo partito, Bersani ha incassato il via libera su una campagna referendaria che lo vedrà impegnato in prima persona. Addirittura come testimonial di tre video (su nucleare, legittimo impedimento e acqua) che sono pronti per la messa in onda. «Diciamo no al piano nucleare del governo», spiega il segretario nello spot dedicato all’atomo, quando sullo sfondo scorrono le immagini della Fukushima devastata dall’esplosione dei reattori della centrale. «La legge è uguale per tutti. Vogliamo una giustizia riformata, che funzioni», scandisce invece nel video in cui invita i cittadini a votare «sì» al quesito sul legittimo impedimento.
C’è un’altra obiezione: l’eventuale decisione della Cassazione di considerare il quesito sul nucleare “assorbito” dal decreto omnibus riconvertito in fretta e furia dalla maggioranza («Ma è tutto da vedere») renderà ancor più difficile la già complicata ascesa al “monte quorum”. Obiezione che gli spin doctor del leader democratico rovesciano, facendo notare che «lo spudorato trucchetto dei berluscones potrebbe incentivare l’indignazione degli italiani e portarli ai seggi», che si apriranno il 12 e 13 giugno. Anche a questo serviranno i cinque milioni di lettere – firmate, manco a dirlo, da Bersani – che il Pd sta per inviare ad altrettante famiglie dei capoluoghi italiani. Senza dimenticare che tutti i protagonisti delle recenti vittorie alle amministrative – da Pisapia a de Magistris, da Merola a Fassino, da Zedda a Cosolini – saranno impegnati ventre a terra nell’operazione.
Nella strategia del Pd, però, c’è anche un terzo punto. Ed è quello che, in deroga ai paletti sul “politicismo”, riguarda la «tela» col Carroccio. Nell’agenda di Bersani, a dispetto delle smentite della sua cerchia ristretta, c’è già un appuntamento con Roberto Maroni, che il segretario dei democratici e il titolare del Viminale avevano fissato (tramite amici comuni) nel bel mezzo della campagna elettorale. E il colloquio, si mormora a Palazzo, potrebbe avvenire già prima della fine di questa settimana, magari approfittando del ponte del 2 giugno.
Su quello che succede tra le quattro mura del quartier generale leghista, Bersani mostra di essere ben informato. «Non metto il cronometro, ma dopo quello che è successo al Nord non credo che la Lega riuscirà a rimontare portandosi a casa un ministero o un vicepremier», ha spiegato ieri a Repubblica tv evocando il piano (caldeggiato dai bossiani del “cerchio magico”) di siglare una tregua col premier “accontentandosi” della promozione di Tremonti a numero due del governo. Anche perché quell’operazione non ha il via libera di Bossi né quello di «Giulietto» né tantomeno il placet del titolare del Viminale, ormai impegnato nella fortificazione della sua corrente anti-berlusconiana. Di conseguenza, è la chiosa del leader pd, «se non domani o domani l’altro, prima o poi la Lega si autonomizzerà».
Bersani spera che il processo di “autonomizzazione” del Carroccio dia i suoi primi frutti il 19 giugno a Pontida. E le dichiarazioni di Bossi («Il governo va avanti, ma non so se è tranquillo») sembrano avvalorare la tesi. Senza dimenticare che, ormai, anche le “grandi firme” della Lega seguono il leitmotiv dei militanti inferociti che telefonano a Radio Padania. «La maggioranza è sotto l’attacco degli italiani», dice Maroni. «A Milano ha perso Berlusconi. Ora rifletta sul suo passo indietro», sottolinea il sindaco di Verona Flavio Tosi.
All’incontro con Maroni, Bersani non andrà a mani vuote. E l’offerta del Pd di spendersi per una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni (un Mattarellum col 50% di maggioritario e l’altro 50 di proporzionale) potrebbe essere formalizzata a breve.
“Sembra che facciano la gara contro di me”. Il premier incassa l’ultima doccia gelata della Lega
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Ha passato una giornata intera a rilasciare interviste, il Cavaliere. Alla partenopea Radio Kiss Kiss ha annunciato l’intenzione di stoppare gli abbattimenti delle case abusive. Al Gr1 ha giurato che non punta al Colle. Al Tg5, invece, ha raccontato che l’asticella per considerare le elezioni «un successo» è «strappare una grande città» alla sinistra. Il tutto (anche) per nascondere l’ennesima doccia gelata che ieri è arrivata dal Carroccio.
Nella ristrettissima cerchia delCavaliere hanno il problema di «evitare una rissa interna» a poche ore dall’apertura dei seggi. D’altronde, è quella stessa «rissa» che il premier ha cercato di scongiurare in mille modi, arrivando persino a negare il sostegno telefonico al candidato sindaco delPdl di Gallarate (che, tra l’altro, fa Bossi di cognome) «solo per evitare di urtare la suscettibilità di Umberto, che passa là giornate intere per lanciare la volata alla sua Giovanna Bianchi Clerici».
Ma la misura, per chi conosce bene gli sbalzi d’umore del presidente del Consiglio, è praticamente colma. Soprattutto da quando, ieri, Roberto Calderoli s’è preso la briga di annunciare il rinvio di una settimana del raduno leghista di Pontida, spostato al 19 giugno per consentire a Umberto Bossi di fare «un annuncio epocale».
La «svolta» che ha in mente il Senatur, per il quale sarà necessario un passaggio in Cassazione, riguarda una proposta di legge di iniziativa popolare per il decentramento di alcuni ministeri. «Pensate a quanto il responsabile Saverio Romano sarebbe contento di fare le valigie e spostarsi con tutto il suo dicastero qui a Milano», scherza un autorevole esponente del Carroccio.
La voglia di scherzare, dalle parti del premier, non c’è più. E non tanto perché il decentramento dei ministeri sarebbe una prospettiva talmente lontana da rendere inimmaginabile un parallelo con l’attuale compagine di governo. Quanto perché «Silvio» ha ormai capito che l’alleanza con la Lega – e con essa la maggioranza parlamentare che sostiene il governo – è ormai appesa a un filo. Senza la vittoria di Milano, l’esecutivo è a rischio. E, come nella war room berlusconiana hanno ormai capito, un eventuale successo di Lettieri a Napoli – paradossalmente – finirebbe solo per complicare le cose. «Ve l’immaginate il premier vincente grazie ai voti di Cosentino e sconfitto a casa sua? Pensate a questa scena e provate a capire come potrebbe prenderla l’elettorato della Lega», riflette l’autorevole fonte del Carroccio di cui sopra.
A quarantott’ore dall’apertura dei seggi, i margini di manovra sono ridotti al minimo. Berlusconiha alzato l’asticella
dello scontro milanese dando man forte alle accuse della Moratti a Pisapia? Il leghista Matteo Salvini, esponente di spicco del Carroccio meneghino (tra l’altro “papabile” per la poltrona di vicesindaco) s’è presentato ai microfoni di Un giorno da pecora per “infilzarla”: «Su Pisapia la Moratti è stata bugiarda». Berlusconi annuncia lo stop alla demolizione delle case abusive a Napoli? «Il premier dovrà parlarne con la Lega. Personalmente, indipendentemente da dove siano collocati gli immobili, sono contrario a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive», ha replicato a stretto giro Roberto Calderoli.
Sono due segnali di quanto nel retropalco ci sia rimasto ben poco. Ormai è tutto sotto gli occhi della platea: Berlusconi e la Lega marciano su due binari separati. «A volte sembra quasi che la campagna elettorale la stiano facendo contro di me», ha confidato mercoledì il Cavaliere riferendosi ai continui “smarcamenti” del Carroccio rispetto alla “linea”del centrodestra. La giornata di ieri gli ha dato ragione. Al punto che, nel giro dei berluscones milanesi, si sta addirittura arrivando a sospettare un boicottaggio elettorale ai danni della Moratti. «E se i militanti della Lega non andassero alle urne?», riflette a voce alta un big del Pdl lombardo.
È il segno che, da lunedì, si va in mare aperto. Pubblicamente il presidente del Consiglio continua a ripetere, come ha fatto ieri intervenendo telefonicamente a un’iniziativadel candidato torinese Michele Coppola, che «abbiamo alla Camera una nuova maggioranza coesa, che ci permetterà di fare quello che non abbiamo potuto fare finora per lo statalismo di Fini e Casini». Ma lontano da microfoni e taccuini, il premier ha un’altra verità: «Se non vinciamo Milano, questi faranno cadere il governo a Pontida». D’altronde, l’intervento con cui Bossi ha concluso la giornata politica di ieri dà forza ai più oscuri presagi dei berluscones. «Bisogna parlare di programmi e non di quello che ruba la macchine», ha scandito il Senatur a Gallarate, stroncandola Moratti. E aggiungendo, come se non fosse stato sufficientemente chiaro in precedenza, che«se non servono a guadagnare voti, meglio non farle certe mossi. Se si comincia a tirar fuori cose personali non si finisce più».
L’allarme di Granata: “Dal Pdl segnali per il voto dei mafiosi”.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 maggio 2011)
Fabio Granata mette insieme «le accuse di Berlusconi e dei berlusconiani ai magistrati napoletani, alla procura di Palermo, a Ilda Boccassini». Il finiano vicepresidente della commissione parlamentare Antimafia, intervistato dal Riformista, sostiene che «si tratta di una strategia mirata. Un chiaro segnale ai mafiosi, a quegli ambienti oscuri che controllano pacchetti consistenti di voti sul territorio».
Granata, il tema centrale delle ultime ore sono le accuse rivolte dalla Moratti a Pisapia.
Una cosa ridicola, semplicemente ridicola. Parlando di queste accuse inesistenti si rischia di mascherare lo stato di illegalità diffusa che sta caratterizzando la campagna elettorale del Pdl su gran parte del territorio nazionale.
In che senso, scusi?
Ma vi rendete conto che, stranamente, Berlusconi e i suoi stanno prendendo di mira tutti i magistrati impegnati nella lotta alle più importanti organizzazioni criminali che agiscono in questo Paese? L’attacco ai pubblici ministeri di Milano, culminati negli insulti a Ilda Boccassini. E poi le polemiche contro la procura di Palermo. Infine, le accuse che il presidente del Consiglio ha rivolto alla procura di Napoli, che è in prima fila nella sfida alla camorra.
Sta dicendo che…
Sto dicendo che non si tratta di battute estemporanee. Questa è una strategia mirata, fatta di messaggi molto pericolosi. Vogliono dire ai classici «ambienti oscuri», a quella zona grigia che sta tra i clan e la politica, che le mafie possono tranquillamente votare per loro.
Sta per caso sostenendo che Berlusconi e i suoi stanno facendo campagna elettorale usando messaggi cripto-mafiosi?
Al di là delle etichette, in alcuni settori del Pdl si sta realizzando una nitida connessione con ambienti criminali. Con quegli stessi ambienti che, sul territorio, controllano pacchetti di voti non indifferenti.
Accuse tutt’altro che lievi, le sue. Significa che il Terzo Polo, di cui lei fa parte, farà di tutto pur di non agevolare i candidati di questo centrodestra al ballottaggio?
Sulle strategie future decideremo tutti insieme.
Però si può dire che, a Milano…
Milano è la partita principale. Lo ha fatto capire anche Berlusconi, che dal capoluogo lombardo ha fatto partire l’ennesimo referendum su se stesso. Noi lì sosteniamo la corsa di un candidato eccellente, Manfredi Palmeri.
Lasciando perdere i suoi compagni di strada, viene difficile immaginare il “cittadino” Granata che al secondo turno vota per la Moratti.
Se fossi un elettore milanese, al ballottaggio non voterei per la Moratti.
E a Napoli? Il candidato del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, non ha chances di arrivare al secondo turno.
L’obiettivo principale è impedire che il candidato di Nicola Cosentino, Lettieri, diventi sindaco di Napoli. Se arrivasse al ballottaggio, noi avremmo delle buone alternative. A cominciare dal prefetto Morcone, che è in campo per il Pd. Quanto all’uomo dell’Italia dei valori, Luigi de Magistris, ha delle posizioni a volte “estreme”, diverse dalle nostre. Ma è senz’altro una persona perbene. Però, oltre alle sfide nelle città principali, invito tutti a prestare attenzione a quello che succederà a Latina e a Olbia. Sul primo fronte, dove noi siamo impegnati con la lista di Pennacchi, la curiosità è vedere se esiste ancora un elettorato moderato e di centrodestra libero da eventuali “condizionamenti”. A Olbia, dove il candidato sindaco Gianni Giovannelli è sostenuto da una coalizione che va da Fli a Vendola, potrebbe succedere qualcosa di molto interessante. Tipo che a Silvio Berlusconi, dopo il voto, venga ritirata la cittadinanza onoraria.
Se il Cavaliere uscisse “ammaccato” dal voto, avrebbe ben altri problemi rispetto alla cittadinanza onoraria di Olbia. Non trova?
Sicuramente succederebbe qualcosa. Anche in Parlamento.
D’Alema, intervistato dal Piccolo di Trieste, è tornato a parlare della Santa Alleanza di tutti – Fini compreso – contro Berlusconi.
Ho visto. Però questo è un tema che affronteremo quando le prossime elezioni politiche avranno una data certa. Intanto va registrato che le opposizioni, in Parlamento, affrontano già moltissime battaglie insieme. E non è una cosa da poco.
Se Moratti perde Milano, tenterete di riagganciare la Lega?
Tolti quelli che puntano solo alla distruzione dell’avversario, in politica bisogna discutere con tutti. E quello con la Lega può diventare un dialogo molto importante. Il Carroccio, tra l’altro, esprime il miglior esponente di questo governo. Anzi, tolto il clamoroso errore che ha fatto a Napoli l’altro giorno, quando s’è presentato in città per sostenere il candidato di Cosentino, credo che Roberto Maroni sia il miglior ministro dell’Interno degli ultimi anni.
Habemus sondagges. Letizia e Lettieri giù, de Magistris in risalita, Fassino ok.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 19 aprile 2011)
Letizia Moratti tra il 46 e il 48 per cento, comunque sotto la soglia della vittoria al primo turno, a Milano. Va peggio Gianni Lettieri a Napoli, che oscilla attorno al 40. Al contrario dei democrat Piero Fassino e Virginio Merola, dati per vincenti subito a Torino e Bologna.
Nonostante i sondaggi arrivati ieri sulla sua scrivania, Bersani si guarda bene «dal parlare di spallata».
L’ultima infornata di rilevazioni demoscopiche dimostra, come d’altronde il segretario del Pd va ripetendo negli ultimi giorni, «che Berlusconi fa bene ad avere paura». I sondaggi, di cui però Bersani non si è mai fidato ciecamente, indicano che il centrosinistra, nella griglia di partenza delle amministrative “che contano”, è posizionato bene. Come un ciclista “succhiaruote”, pronto a sfruttare la scia del velocista per tentare di batterlo a pochi passi dal traguardo.
Stando ai foglietti planati ieri ai piani alti del quartier generale del Pd, a Milano Letizia Moratti non vincerebbe al primo turno. La forbice di consensi dell’ex ministro dell’Istruzione oscilla tra il 46 e il 48 per cento. Otto punti in più di Giuliano Pisapia, che al ballottaggio potrebbe contare sul sostegno del Terzo Polo.
Più difficile da decrittare la situazione di Napoli. A poco meno di un mese dal voto, la candidatura di Mario Lettieri non è decollata. L’ex presidente dell’Unione industriali della Campania, stando ai dati in possesso del Pd, starebbe ben al di sotto del totale delle liste che lo sostengono: 40 per cento, decimo in più, decimo in meno. Il tutto mentre sia a Torino che a Bologna, sia Piero Fassino che Virginio Merola vincerebbero al primo turno senza soffrire troppo.
Eppure, nonostante la tentazione di rispolverare l’obamiano Yes, we can, Bersani vuole evita il muro contro muro col Cavaliere. «Non parliamo mica di spallata», ha ripetuto nelle ultime riunioni coi fedelissimi. L’obiettivo minimo, ovviamente non dichiarato, è evitare di cadere nel tranello del Cavaliere, «che polarizza lo scontro per trasformare la tornata nell’ennesimo referendum su se stesso». Perché questo, aggiunge, «è un voto per le città. Certo, se poi il centrodestra subisce una débâcle, allora dopo si tireranno le somme…».
Oltre i puntini di sospensione del ragionamento bersaniano, c’è una prospettiva che il Pd non può vedere nitidamente. Anche perché gli effetti collaterali del voto primaverile possono arrivare a intaccare anche i democrat. Come? Basta prendere il caso di Napoli. Dove l’eurodeputato dell’Italia dei valori Luigi de Magistris si sta avvicinando pericolosamente allo score del candidato del Pd Mario Morcone. Col risultato che, se il trend venisse confermato, potrebbe essere proprio l’ex pm di Why not? a sfidare Lettieri (l’uomo del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, è stabile attorno al 10 per cento).
Il centrosinistra, a questo punto, deve fare i conti con la paura di vincere. Nell’intervista rilasciata ieri al Corriere della sera, Pier Ferdinando Casini ha quasi invocato la discesa in campo di Montezemolo e Marcegaglia, chiudendo nel contempo ogni spiraglio per la Santa Alleanza cara a Bersani. Emma Bonino, nella consueta intervista del lunedì mattina con Radio Radicale, ha invece preso di mira direttamente il Pd sulle elezioni nel capoluogo lombardo. «A parte la presenza di un candidato dei grillini che toglie voti a Pisapia in una operazione che trovo discutibile», ha argomentato la vicepresidente del Senato, «credo che i vertici del Pd non abbiano colto l’importanza di Milano dal punto di vista politico e del possibile mutamento di un sistema di potere costruito in tanti anni».
Anche Bonino, come Bersani, è convinta che non si possano trasformare le amministrative «in un referendum sul presidente del Consiglio». Quanto alle critiche, il segretario del Pd risponderà col calendario alla mano. «Pier Luigi», dicono nella sua cerchia ristretta, «ha già iniziato il suo tour in giro per le città del voto. E, negli ultimi giorni prima dell’apertura delle urne, chiuderà la campagna elettorale sia a Torino, sia a Bologna, sia a Milano».
Ieri, invece, il segretario del Pd era a Macerata, a sostenere il candidato sindaco. «Che è dell’Udc», spiegano i suoi, dedicando una punta di veleno a Casini. «Nelle Marche la Santa alleanza c’è. Eppure non ci pare che Pier abbia qualcosa da ridire…».
Santa Alleanza o meno, la madre di tutte le partite del 2011 sta per iniziare. Come nelle telecronache domenicali di Tutto il calcio minuto per minuto, anche in questo caso c’è un «campo centrale». Milano. «Io sono sicuro che la Milano democratica risponderà a Berlusconi nelle urne», è l’auspicio del leader del Pd. «E io sarò lì più di una volta».
Si decide tutto a Milano.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 aprile 2011)
Angelino Alfano aveva appena definito «senza giustificazioni» il paragone giudici-Br. Le agenzie non hanno quasi tempo di darne notizia che Silvio Berlusconi sale sul palco per lanciare un attacco contro «i magistrati eversivi». Roma, ore 17.15, ieri. È l’inizio della campagna elettorale di un premier preoccupato. Soprattutto per il voto di Milano.
Le parole che il presidente del Consiglio scandisce dal palco del Palazzo dei congressi di Roma, dove ieri è andato in scena il meeting Al servizio degli italiani organizzato da Michela Vittoria Brambilla, fanno cadere il gelo anche sulle stanze (semi-deserte) del Quirinale, della Consulta, del Palazzo dei Marescialli e financo in quelle del ministero della Giustizia del “suo” Alfano.
Dopo che il guardasigilli aveva appena finito di stigmatizzare in una nota i manifesti apparsi a Milano contro le toghe, il Cavaliere torna all’attacco dei magistrati. «Bisogna accertare se c’è un’associazione a delinquere. Molti giudici seguono la sinistra e hanno un progetto eversivo», grida il premier prima di citare il 1993, in cui «vennero fatti fuori i socialisti, la Dc e i repubblicani». L’equazione che ha in testa è fin troppo scontata: «Hanno fatto fuori un leader come Craxi, oggi stanno cercando di far fuori Berlusconi». Sono tesi che quantomeno provocheranno, oltre al solito giro di reazioni dell’Anm, anche la replica istituzionale del Csm.
Non è tutto. Dal palco del palazzo dei Congressi, il premier ammette l’aspetto ad personam della norma sulla prescrizione breve («Devo essere tutelato»), definisce quello su Mediatrade «un processo risibile in un’atmosfera surreale», dà dello «sfigato» all’avvocato inglese Mills e conferma il forcing sulla restrizione delle intercettazioni: «In uno Stato che si definisce democratico, i cittadini non possono sentirsi spiati».
È il segnale che, nell’ottica del presidente del Consiglio, l’ora X della campagna elettorale per le amministrative è ormai scoccata. «E ditemi se non vale la pena di andare a votare», spiega tornando a evocare deliberatamente persino lo scioglimento anticipato della legislatura.
Nella tornata che si concluderà il 29 maggio con i ballottaggi, la posta in gioco è molto più alta delle amministrazioni comunali di Milano e Bologna, Napoli e Torino. Berlusconi, ad esempio, sa che perdere Milano provocherebbe degli effetti collaterali incalcolabili per la tenuta della coalizione, a cominciare dagli scossoni del Carroccio. E così, da quando Letizia Moratti ha cominciato a manifestare i dubbi sulla vittoria al primo turno e i finiani hanno lasciato trapelare l’eventuale sostegno a Giuliano Pisapia al ballottaggio, il premier ha capito che l’unica strada da prendere era quella già battuta (con successo) in passato: polarizzare lo scontro.
Da qui la decisione di alzare ulteriormente i toni, all’indomani dell’appello bipartisan lanciato da Beppe Pisanu e Walter Veltroni dalle colonne del Corriere della sera. Per adesso, i berluscones della cerchia ristretta non temono alcun contraccolpo. Ma sanno benissimo che, dopo una sconfitta alle amministrative, la piattaforma messa nero su bianco dal presidente dell’Antimafia e dal segretario del Pd potrebbe essere l’unica in grado di coagulare consensi anche fuori dal Palazzo. Dalla Cei alla Confindustria, dagli immancabili «poteri forti» che il premier cita in continuazione a Luca Cordero di Montezemolo. Certo, anche con l’obiettivo di arginare l’inizio di una nuova discussione sul governo tecnico, il Cavaliere preferisce evocare lo spettro di elezioni anticipate («Ditemi voi se non è meglio andare a votare»). Ma che cosa succederebbe se, come argomentano nelle loro conversazioni riservate anche Fini e Casini, «Bossi e Tremonti voltassero gli voltassero le spalle?».
Ipotesi, dubbi, congetture. A cui si aggiungono quelli che Berlusconi nutre sulla sua stessa creatura, il Pdl. «Anche noi, come tutti i partiti, siamo caduti in una forse evitabile patologia», ha ammesso ieri il premier annunciando il ricambio generazionale. «Spalanchiamo le porte al nuovo». Dove per «nuovo» potrebbe intendersi la mossa di affidare ad Angelino Alfano (che si è tatticamente chiamato fuori dalla successione per la leadership del centrodestra) anche le “chiavi” del partito. Un partito di cui, a stretto giro, non farà più parte Beppe Pisanu. L’ex ministro dell’Interno, che potrebbe persino spingersi a votare contro la prescrizione breve al Senato, adesso è davvero sull’uscio. «Che cosa ci faccio nel Pdl? Cerco di cambiarlo, finché ci rimarrò», ha detto ieri il presidente della commissione Antimafia rispondendo alla domanda di uno studente di Oristano.