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Paura e delirio a Montecitorio. Il premier furibondo: «Fanno tutti schifo». E Renato Farina, arrabbiato con Bossi, invoca «il pannolone».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 ottobre 2011)
Entra in Aula quasi di corsa, alle 17. Quando esce, una manciata di minuti dopo, Silvio Berlusconi borbotta tra i denti: «Che schifo. Fanno tutti schifo». Colposo, preterintezionale o voluto che sia, l’Incidente con la «I» maiuscola travolge l’esecutivo sull’articolo 1 del rendiconto del bilancio. Nell’unico precedente della storia della Repubblica, 13 aprile 1988, il governo Goria s’era dimesso.
Ventiré anni fa, per il governo sostenuto dal pentapartito (il vicepresidente del Consiglio era Giuliano Amato) la bocciatura sul bilancio aveva rappresentato l’imbocco di una strada senza ritorno. In quell’esecutivo, coi galloni di ministro dei Trasporti, c’era anche Lillo Mannino, uno degli assenti che ieri pomeriggio ha fissato il voto al «290 a 290» che ha comportato la bocciatura del provvedimento. Un dettaglio, in fondo, se si pensa che alla votazione non hanno partecipato né Giulio Tremonti, che stava sull’uscio dell’Aula. Né Umberto Bossi, che parlava con una giornalista nel cortile di Montecitorio. Né Claudio Scajola, che poche ore prima aveva incontrato Berlusconi e Alfano avanzando ufficialmente la richiesta «di fare il vicesegretario del Pdl» (per sé), un pacchetto di ricandidature assicurate (per i suoi), più «la discontinuità» (magari con Gianni Letta premier).
Non è la sfortuna animata da quel numeretto (il 17) che coincide con l’orario della votazione. Il governo Berlusconi cade in un autentico trappolone. Marcano visita i veterodemocristiani Giuseppe Cossiga e Piero Testoni. Non ci sono i responsabili Francesco Pionati, Pippo Gianni, Paolo Guzzanti, Americo Porfidia e Mimmo Scilipoti.
Ma sono le assenze dei ministri a mandare su tutte le furie il Cavaliere. Manca Tremonti, che sta a pochi metri dalla pulsantiera. Manca Bossi, nelle stesse condizioni. «Che schifo. Fanno tutti schifo», ripete il premier tra i denti. I fotogrammi successivi alla votazione sono scene di autentico panico. Panico e rabbia. Rabbia e panico. Il giornalista-deputato Renato Farina, che si fionda in Transatlantico dopo aver notato l’assenza del Senatur, agita le braccia. E dice testualmente: «Gliel’ho detto a Rosi Mauro che a Bossi deve mettergli il pannolone». Esattamente così. Non una parola di più, non una di meno. A pochi metri da lui, il Pd si complimenta con il segretario d’Aula Roberto Giachetti, che aveva “nascosto” un paio dei deputati democratici (salvo farli rientrare all’ultimo) per far credere alla maggioranza di avere la votazione in pugno. «Mi aspetto che Berlusconi vada al Quirinale», dice Bersani. «Le dimissioni sono un atto dovuto», aggiunge Franceschini. Veltroni è fuori di sé dalla gioia: «Che vi avevo detto? Eccolo, l’Incidente. Significa che abbiamo fatto bene a insistere sul governo istituzionale».
La caduta è a dir poco rovinosa. E che sia la peggiore dall’inizio della legislatura lo dimostra l’autorevole voce che arriva in serata dal fortino del Pdl. Poche parole, soprattutto una: «dimissioni». Adesso, è il leimotiv che qualche big berlusconiano ammette a denti stretti, «Napolitano potrebbe far sapere al governo che deve lasciare». Perché? Semplice. Dal punto di vista politico, un governo “normale” non può non dimettersi di fronte alla bocciatura del rendiconto, che è un disegno di legge governativo che spiega come sono stati utilizzati i fondi pubblici. Dal punto di vista tecnico, mettere una pezza sarà complicato. Perché il governo, in ogni caso, dovrebbe tornare al Senato per rivotare l’articolo 1 bocciato dalla Montecitorio. «È un fatto senza precedenti», scandisce Gianfranco Fini dallo scranno più alto dell’Aula. Rispetto al quale, gli scenari elaborati dalla maggioranza si moltiplicano come schegge impazzite.
Una parte del Pdl, a cui dà voce Ignazio La Russa, sa che adesso c’è «l’ostacolo del Quirinale da aggirare». Di conseguenza, l’unico modo per porre rimedio è “provocare” un bis del 14 dicembre dell’anno scorso. «Non sottovaluto la gravità tecnica del voto. Ma non possono derivare le dimissioni chieste dall’opposizione», premette il ministro della Difesa. Che però aggiunge: «Credo sia corretto dimostrare subito con un voto di fiducia se il governo c’è o non c’è. Se c’è, allora si dimostrerà che quello delle opposizioni è abbaiare alla luna. Se la fiducia non c’è, le conseguenze politiche sono inevitabili».
È quello che nel poker è l’all in. Tutta la posta sul tavolo. Se si vince, si resta in campo. Altrimenti, partita chiusa. Ma, in questo caso, è impossibile fare i conti senza la fronda di Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo Economico, che aveva incontrato Berlusconi e Alfano prima del voto sul bilancio, presenta al premier e al segretario del Pdl la richiesta di «discontinuità». Però, stando all’autorevole tam tam della prima cerchia di dirigenti berlusconiani, l’ex democristiano tira fuori dal mazzo un’altra carta: «Voglio fare il vicesegretario del partito». L’incontro, a dispetto delle annotazioni di Denis Verdini («È andato bene, la sconfitta alla Camera è stata solo una casualità), non va benissimo. Soprattutto perché i deputati vicini ad Alfano, in serata, ammettono: «Sicuramente riconosceremo a Claudio un ruolo politico anche dentro il partito. Di certo non avrà tutto quello che chiede».
Una lettura, questa, che dà adito alla teoria dell’incidente preterintenzionale. Della serie, «volevano semplicemente dare un segnale, invece ci hanno portato oltre il baratro». Ma nel variopinto bouquet di richieste che «Claudio» avrebbe posto all’attenzione di «Silvio» ci sono anche altre ipotesi. Compreso quello di «un governo diverso, guidato da Gianni Letta, con la maggioranza allargata». Nel frattempo, quando (come anticipato dal Riformista di ieri) lo slittamento sine die della legge bavaglio diventa ufficiale, Berlusconi e il suo stato maggiore si infilano dentro l’ennesimo vertice. Decisivo, come saranno i giorni a venire. All’esperienza di uscire dalla Camera con il bilancio respinto, il governo Goria aveva risposto con le dimissioni. Tredici aprile 1988. Ventitré anni fa. Anzi, qualcosa in più.
Milanese adesso parla in codice. E Giulio finisce sotto tiro.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 24 settembre 2011)
Ma come? La salvezza di Milanese non doveva coincidere con quella di Tremonti? Al contrario, nel giorno in cui il suo ex braccio destro viene salvato dal carcere, i berluscones avviano l’attacco finale contro «Giulietto». Pubblicamente. Con dichiarazioni a tappeto.
Non è vero che i conti non tornano. «È vero», come spiega uno smaliziato berlusconiano della prima cerchia del Cavaliere, «il contrario. I conti tornano perfettamente». Marco Milanese, da ex braccio destro di Tremonti, rischia di diventare il suo più grande accusatore. Nel partito del premier si sprecano le richieste di ridurre il potere del titolare dell’Economia «spacchettando il dicastero di via XX settembre». Come suggerisce – da ieri – anche Daniela Santanché. E il premier, a sentire i suoi confidenti delle ultime ore, è pronto a qualsiasi passo pur di provocare le dimissioni del suo ministro più odiato. Qualsiasi passo. Persino, come gli è balenato in testa negli ultimi giorni, «quello di tenere Giulio al Bilancio», promuovendo il collega che Tremonti odia di più – Renato Brunetta – «al Tesoro». Una suggestione, nulla di più. Destinata a rimanere tale soltanto perché, come più d’uno ha fatto notare al Cavaliere, «Bossi, che detesta Brunetta, si rivolterebbe come una furia».
Fin qui il gioco politico. La guerra tra chi sta con Berlusconi e chi con Tremonti. Che, parlando con un amico poche ore dopo il voto su Milanese, ha messo le mani avanti col fare di chi ha capito benissimo quello che si muove attorno a lui: «Tanto non mi dimetto. Non mi muovo da dove sto». È una guerra che, come in un classico caso di eterogenesi dei fini, sta portando tutta l’ala critica nei confronti del premier a schierarsi dalla parte di «Giulietto». Gianni Alemanno, che su Repubblica di ieri ha escluso una ricandidatura di «Silvio» nel 2013, lo dice chiaramente: «Tremonti ha sbagliato a disertare il voto su Milanese? Secondo me, no». Come lo dice Alessandra Mussolini, da tempo lontana dal berlusconismo ortodosso di Daniela Santanché e compagnia: «Con la sua assenza, Tremonti ha marcato una distanza, sapendo che le opposizioni volevano farci cadere e che c’era molta tensione sul voto. Dobbiamo accendere un cero a Sant’Antonio».
Ma fuori dal gioco politico, c’è una partita a scacchi dall’esito imprevedibile. Che collega i Palazzi della politica alle stanze delle procure. Il primo tassello di un puzzle scombinato è proprio Marco Milanese. Un uomo che, dopo essere stato salvato dall’Aula di Montecitorio, ha cambiato la propria posizione sulla scacchiera. Sembra parlare solo per messaggi in codice, ormai, l’ex braccio destro di Tremonti. Ieri, durante un’intervista a Klauscondicio, ha evocato «il tema» a cui probabilmente il superministro si riferiva quando, mesi fa, accusò Berlusconi di volerlo stritolare con la macchina del fango. Dice Milanese: «Certe dicerie sul rapporto tra me e Tremonti non mi hanno ferito assolutamente. Anche perché non ci sarebbe nulla di male, se non fossero inventate di sana pianta». Fin qui tutto, o quasi, nella norma. Ma il passaggio chiave dell’intervista a Klaus Davi è un altro: «Se fosse vero», dice sempre riferendosi alle dicerie di cui sopra, «non avrei timore a dirlo». E ancora, quasi a chiarire il concetto: «Ribadisco, anche fosse vero, non avrei timore a dirlo».
Passa qualche ora e Milanese si sottopone alle domande di Giuseppe Cruciani alla Zanzara, su Radio 24: «Penso ogni giorno a Papa (il deputato del Pdl arrestato a luglio, ndr) e vorrei andarlo a trovare ma non bisogna dimenticare che io sono un teste nel suo procedimento sulla P4». E le cordate nella Guardia di Finanza, che sono al centro di quell’inchiesta? «Sono solo ambizioni e legittime aspirazioni. Cordata è un termine sbagliato», dice adesso.
Tra i berlusconiani ortodossi c’è persino chi si sorprende dello stupore altrui. Chi si domanda retoricamente: «Ma pensate davvero che Milanese, dopo essere stato salvato dalla Camera, sia lo stesso uomo di prima?». E se non è lo stesso Milanese di prima, quale sarà la sua nuova parte in commedia? Il finiano Benedetto Della Vedova, riferendosi alle polemiche di giovedì sull’assenza di Tremonti da Montecitorio, dice: «Su di lui stanno usando un linguaggio da cosca». E Angiola Tremonti, intervistata a Un giorno da pecora su Radio Due, manda un consiglio al fratello: «Mandi tutti al diavolo. Che ci azzecca con questa gente?». Ma lui niente. Da dov’è, per adesso, non di muove. A Washington, dov’è in corso il vertice del Fondo monetario, parla di crisi («L’epicentro è in Europa, la situazione stavolta è complicata») e dice che «tocca alla Germania trovare una soluzione». Il ritorno in Italia, per lui, non sarà dei più semplici.
La roulette russa su Milanese. Per Tremonti è «un referendum su Silvio». Quarantasei maroniani provano il «colpaccio»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 21 settembre 2011)
Dal fortino di Tremonti, che ieri ha incontrato Confindustria e banche, arriva il “Giulio pensiero” sull’ora X, a cui mancano ventiquattr’ore. «Il voto su Milanese? È un referendum su Silvio».
L’ultimo successore di Quintino Sella, ovviamente, si tiene alla larga dal dire anche solo mezza parola sulla sorte del suo ex braccio destro. Però una cosa è certa. Anche Tremonti, adesso, sa che la posta in gioco nella roulette russa del voto sull’arresto di Milanese non riguarda più il suo futuro al ministero di via XX settembre. Ma quello dell’intero governo. Non a caso, giurano i deputati con cui ha scambiato qualche battuta negli ultimi giorni, «Giulietto» pensa dell’«ora X» – fissata per domani a mezzogiorno – più o meno la stessa cosa che Pier Ferdinando Casini ha teorizzato con qualche collega. «È un referendum su Berlusconi», ha confidato Tremonti. Un ritornello che, nella versione che il leader udc ha affidato ai fedelissimi, suona più o meno così: «Primo, bisogna vedere se la Camera darà il via libera all’arresto di Milanese. E poi guardare lo scarto tra i sì e i no. Se la differenza sarà significativa, Silvio non potrà non trarne le conseguenze…».
La partita è nelle mani della Lega, che oggi si riunirà in assemblea per decidere come muoversi. È
probabile che l’esito della riunione dei parlamentari del Carroccio non vada al di là della «libertà di coscienza» già evocata da Umberto Bossi la settimana scorsa. Ma nell’ala maroniana del gruppo leghista, la tentazione di votare a favore dell’arresto non ha ancora trovato un argine.
Nessuno, men che meno il titolare del Viminale, si muoverà col piglio di chi vuole sconfessare platealmente il Senatur. Ma basta mettere insieme alcuni indizi per scoprire che Maroni, in realtà, ha in mente di passare dalle parole ai fatti per evitare che la Lega, come ripete sistematicamente da molti mesi a questa parte, «non muoia appresso al berlusconismo». Indizio numero uno: la settimana scorsa, quando tutti i big del Carroccio sono scesi pubblicamente in campo per difendere la moglie di Bossi, Manuela Marrone, dall’ormai celebre articolo di Panorama, il ministro dell’Interno è stato praticamente l’unico pezzo da novanta del partito a evitare dichiarazioni. E tutto questo è niente, e siamo all’indizio numero due, rispetto al silenzio che Maroni ha opposto al coro sulla «secessione» che s’è levato dallo stato maggiore del Carroccio dopo il discorso del Senatur di domenica. E non è finita. È stato proprio Roberto Maroni l’ospite che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto ieri al Quirinale prima di lanciare il suo durissimo monito contro le frasi pronunciate da Bossi a Venezia («Chi parla di secessione è fuori dalla storia e dalla realtà»).
È vero. Pubblicamente il ministro dell’Interno dice, come ha fatto ieri in un’intervista alla Prealpina, che «il governo arriverà fino al 2013» e che i maroniani non esistono. «L’unico sono io. E mi riconosco in Bossi», ha aggiunto. Ma dei 46 deputati leghisti (su un totale di 59) che ormai si riconoscono nel titolare del Viminale (tanti furono a fine giugno quelli che sottoscrissero la richiesta di sostituire il capogruppo Marco Reguzzoni, esponente del «cerchio magico»), la stragrande maggioranza è pronta a riporre nelle sue mani la scelta sul voto di Milanese.
Radiotransatlantico dà – forse frettolosamente – per già decisa la partita su Milanese. Pd, Idv,
Terzo Polo sono per l’arresto. Dai 46 maroniani e da un gruppo di pidiellini che saranno protetti dal voto segreto arriverebbero gli altri voti che mancano per dare il via libera alla richiesta dei pubblici ministeri di Napoli. Ma fossero vere la lettura attribuita a Tremonti («È un referendum su Berlusconi») e l’analisi che Casini ha confidato ai suoi («Guardiamo lo scarto») allora tutto dipenderà dai numeri in Aula. Con una vittoria schiacciante dei «sì», il governo del Cavaliere si avvicinerebbe al baratro. Perché, come spiega Pier Luigi Bersani, «il caso Milanese può, insieme ad altri mille fattori, causare la crisi». I mille fattori evocati dal leader del Pd riguardano la crisi economico-finanziaria. Ma ce n’è un altro, di fattore, che potrebbe accelerare lo showdown: il voto, in programma la settimana prossima, sulla mozione di sfiducia nei confronti del ministro dell’Agricoltura Saverio Romano. Un altro appuntamento che Roberto Maroni – che ha intensificato i suoi colloqui con Angelino Alfano – ha già annotato sulla sua agenda. Con la penna rossa.
«Spacchettare Tremonti». In Aula il battesimo del tandem Maroni-Alfano.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 4 agosto 2011)
Il rebus Tremonti, adesso, ha una soluzione. Spacchettare il suo ministero, lasciandogli solo il Bilancio.
Alle 14 di ieri, quando il Palazzo che attende «l’informativa» di Silvio Berlusconi è ancora deserto, il contenuto del foglietto su cui stanno lavorando nelle stanze del governo rimbalza fino al Transatlantico di Montecitorio. Tremonti lascia l’esecutivo? Oppure il Cavaliere scarica Tremonti? C’è una terza via, anche se assomiglia a una strettoia. «Spacchettare» il superdicastero dell’Economia lasciando che l’attuale inquilino si occupi soltanto di tenere i conti a posto e il pallottoliere in ordine.
Il copyright della trovata, stando a un informato retroscena del Corriere della Sera di quasi due settimane fa (firmato da Francesco Verderami), apparteneva a Bobo Maroni. E la novità che ha permesso l’accelerazione in questa direzione – oltre all’indebolimento di Tremonti per l’inchiesta su Marco Milanese – è dovuta all’intervento di Angelino Alfano. Il segretario del Pdl, che qualche ora più tardi si sarebbe sottoposto col discorso in Aula al battesimo del fuoco da leader di partito, da una parte. Il ministro dell’Interno, che l’avrebbe applaudito a scena aperta e gli avrebbe financo spedito un bigliettino di complimenti, dall’altro. «Angelino» e «Bobo» compongono il tandem che, a sentire i berlusconiani della vecchia guardia, in autunno potrebbe decidere di rivoltare il centrodestra come un calzino. I successori di Berlusconi e Bossi, insomma. Quelli che spingono il premier (contro il parere del Senatur, di Letta e di Tremonti) a presentarsi in Parlamento per «mettere la faccia» sull’emergenza. Gli stessi che, nel giro di pochi giorni, potrebbero costringere «Giulietto» ad accomodarsi nel cantuccio del Bilancio, lasciando ad altri i dossier di Finanze e Tesoro.
Ad altri chi? Sprofondato su un divanetto di Montecitorio, sorridente come una Pasqua per lo sblocco dei Fondi Fas per il Mezzogiorno («E guardate che interventi per la Calabria», ripete a voce alta mostrando un elenco di piccole e grandi opere), il sottosegretario alle Infrastrutture Aurelio Misiti confida: «Ormai la strada mi pare tracciata. Tremonti si occuperà dei conti mentre il resto potrebbe finire momentaneamente sotto l’interim del presidente del Consiglio». Messo così il lodo Alfano-Maroni, che nulla ha a che vedere con la giustizia, risolverebbe il tema della collocazione di «Giuletto» e quello del suo depotenziamento. «E vedrete che Tremonti ci starà», conclude il sottosegretario.
Qualche ora dopo, sono le 17.30, l’Aula di Montecitorio inizia a trattenere il fiato. La fila nobile dei banchi del governo è praticamente al gran completo. La neofita Bernini, poi Carfagna, quindi Prestigiacomo e Romani. E ancora, sempre da sinistra a destra, Giulio Tremonti, che arriva in tempo utile per prendere posto a fianco della seggiola che attende il Cavaliere. Bobo Maroni, invece, è in leggero ritardo. Lo stesso che gli costerà uno sforzo da vecchio spot dell’Olio Cuore: prendere a due mani la sedia che un commesso si preoccupa di passargli, posizionarla a pochi metri dal premier e sedercisi sopra. «Silvio», nel frattempo, è entrato sulla scena. Sono le 17,33. «Sono qui per fare il punto…», esordisce Berlusconi. Tremonti ha le mani giunte. Tolta la sua voce, l’emiciclo pare il set di un film muto. Nei banchi del governo, gli smartphone in azione sono soltanto due: quello in dotazione a Raffaele Fitto e quello del sottosegretario Luca Bellotti, che smanettano per un po’ e poi li mettono da parte.
Man mano che la ricetta di un dottore che non azzecca garbugli si sgonfia del tutto – e succede quando Berlusconi passa dal «paese è solido» al «non sto qui a negare la crisi» – l’Aula si arroventa. Quando il premier chiude, Maroni si sbraccia per toccargli la spalla (facendo anche le funzioni di Bossi, che non c’è). Tremonti applaude. La Russa applaude. Tutta la maggioranza applaude. A conti fatti, l’applausomentro segnerà valori alti, ma non come quelli registrati quando Angelino Alfano entra a piedi uniti nel “racconto” del centrodestra che verrà. «Da quando sono i mercati a stabilire che i governi vadano a casa?». E ancora, sempre dalla viva voce del neo-segretario pidiellino: «E il popolo? E i cittadini? Noi siamo contrari a fantomatici governi tecnici».
La maggioranza inizia un incessante battimani a incoronazione di «Angelino». L’unico che s’astiene è il premier. Maroni è quello che si dimena di più.
Poi tocca a Bersani. Il segretario del Pd, rivolto al premier, scandisce: «O lei ha sbagliato discorso oppure ha sbagliato Parlamento». E ancora, stavolta in direzione dell’ex guardasigilli: «Il discorso di Alfano mi ha impaurito». Quindi il terzo messaggio in bottiglia, destinatario Tremonti, preso pari pari dal 5 maggio di Manzoni: «Vergin di servo encomio / e di codardo oltraggio…». È un modo per dire al titolare dell’Economia che la stessa stampa che l’aveva incoronato, adesso, lo scarica. Berlusconi non capisce: «Ma che ha detto?». La Russa delucida. Tremonti, però, non ride. Non c’è niente da ridere. Pier Ferdinando Casini evoca una commissione bipartisan «che elabori proposte per la crescita in 60 giorni». Di Pietro, che chiama il premier «Silvio», gli dice che «dobbiamo disfarci politicamente di lei». La Camera si svuota al tramonto. Si aspetta l’apertura delle Borse. Delle decine e decine di trolley ammucchiati di fronte al guardaroba, alle 20, non rimane manco l’ombra.
L’ultimo tramonto del tremontismo? Giulio e l’atmosfera da 2004.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 3 agosto 2011)
Caldo faceva nel luglio 2004, caldo fa nell’agosto 2011. Che si dimetta come allora o provi a resistere, paradossalmente, è quasi irrilevante. La storia si capisce dai dettagli. E nemmeno Giulio Tremonti sfugge a questa regola.
In fondo si tratta di un piccolo dettaglio. Di una frase a mezza bocca che il sottosegretario all’Economia Luigi Casero, senza nessuna intenzione di maramaldeggiare sul “suo” superiore diretto, affida ieri ad alcuni colleghi del Pdl. «Siete curiosi di sapere quello che il presidente dirà domani (oggi, ndr) alla Camera? Posso dirvi che ci stiamo lavorando un po’ tutti. Io, Alfano… Soltanto Tremonti è all’oscuro».
Di più Casero non dice. Se non le cose che più o meno sanno già tutti. E cioè che il Cavaliere potrebbe anticipare a settembre quell’ondata di lacrime e di sangue che la manovra aveva fissato per il biennio 2013-2014. E che «Angelino ha chiesto a Berlusconi di sbloccare con la delibera Cipe 7.5 miliardi di fondi Fas per il Sud». Gli stessi che Tremonti, nonostante il tentativo di «Giulietto» di entrare nella partita incontrando Raffaele Fitto a via XX settembre, aveva preteso che stessero congelati.
Dettagli, piccole confidenze. Che nascondono, però, una grande verità. Nel momento in cui il Paese avverte il rischio di essere trascinato in un tracollo finanziario, il ministro dell’Economia è più fuori che dentro la partita. «Lasciamolo tranquillo. Temo che abbia ben altro a cui pensare», s’è lasciato scappare privatamente Berlusconi nell’ultimo fine settimana, non senza una punta di perfidia. Lo stessa con cui, nonostante l’opposizione tremontiana, ha maturato la decisione di presentarsi in Parlamento e «metterci la faccia». Senza l’antica paura, aveva spiegato il Cavaliere ad alcuni interlocutori, «dei soliti aut aut di Tremonti. Perché di minacce di dimissioni, stavolta, non mi pare aria».
Siamo al quarto tramonto del quarto giro di tremontismo (ministro delle Finanze nel 1994 e dell’Economia dal 2001 al 2004, dal 2005 al 2006 e dal 2008 a oggi)? Quello che gli ha recapitato il blocco Pdl-Lega ieri, nell’Aula di Montecitorio, è qualcosa di più di un “pizzino”. La Camera, che ha respinto la richiesta dei giudici che indagano sul G8 di utilizzare le intercettazioni di Denis Verdini, ha invece autorizzato sia l’apertura delle cassette di sicurezza che l’uso dei tabulati telefonici dell’ex braccio destro di Tremonti, Marco Milanese. Il tutto mentre il direttore Dipartimento informazioni e sicurezza Gianni De Gennaro, rispetto alla sensazione si «sentirsi spiato» dalla Gdf che il superministro aveva affidato a un colloquio con Repubblica, rispondeva lapidario: «I servizi segreti non hanno informazioni e non ne sanno nulla».
La scelta della maggioranza di scaricare Milanese, per giunta nello stesso giorno in cui si salva Verdini, è l’ennesimo siluro nei confronti di Tremonti. Quelli che hanno accesso alle confidenze berlusconiane, i pochi insomma che sono in grado di delineare la strategia mediatica (e diabolica) che ha in mente il Cavaliere, la mettono giù così. Senza troppi giri di parole: «Che il ministro dell’Economia rimanga o se ne vada, per noi non è più un problema. Con Papa ormai in galera e Milanese sotto accusa, noi agiremo senza remore: siamo pronti a una campagna mediatica contro l’opposizione e contro tutti». Che avrà per obiettivo il tentativo di dimostrare che, come ha spiegato Alfano nel giorno della sua nomina a segretario, «alla fine siamo noi il partito degli onesti». Tutti allertati: dalla stampa amica alle televisioni, pubbliche e private, su cui si estende il dominio del Cavaliere.
Tremonti rischia di finire in mezzo a tutto questo. Negli ultimi due anni, aveva tessuto una tela tutta sua: da pezzi di Confindustria a big di Oltretevere, passando – soprattutto – dal gotha del mondo bancario. Aveva un canale privilegiato, tanto per fare qualche nome, con il presidente delle fondazioni di origine bancaria Giuseppe Guzzetti e con un big della finanza rossa del calibro di Giuseppe Mussari. L’appello con cui le parti sociali hanno chiesto «discontinuità» all’esecutivo (firmato, in qualità di presidente dell’Abi, anche dallo stesso Mussari) è la spia che quel dialogo privilegiato s’è interrotto. Come dimostrano sia l’editoriale del Corriere della sera di ieri (firmato da Francesco Giavazzi) che quello del Sole 24 ore di sabato (firmato dal direttore Roberto Napoletano): entrambi, alle orecchie di «Giulietto», sono suonati come il de profundis. Al pari del gioco messo in piedi dai leghisti, presso cui Tremonti era tornato a chiedere garanzie. Niente da fare. La frase con cui Bobo Maroni annuncia che «domani (oggi, ndr) sarò seduto accando al premier» è più che un avviso di sfratto.
Non è dato sapere quanto l’ultimo successore di Quintino Sella proverà a resistere. Ieri ha riunito il comitato di stabilità, oggi volerà in Lussemburgo per incontrare Jean Claude Juncker. Che siano le sue ultime mosse da ministro è tutto da dimostrare. Di certo c’è che oggi, agosto 2011, fa caldo. Come faceva caldo nel luglio del 2004. Quando Tremonti, accusato da Fini di truccare i conti, prima rifiutò di cambiare ministero e spostarsi agli Esteri. Poi sbattè la porta. Dicendo all’allora nemico Gianfranco: «Io volevo cambiare la storia, tagliando le tasse. Voi siete rimasti quello che eravate, dei fascisti. Io da domani me ne torno a Milano, a lavorare». Poi sarebbe ritornato. Un anno dopo. Ma questa è un’altra storia. Forse.
Tremonti, l’inchiesta di Roma e la deriva «pericolosa».
di Tommaso Labate (estratto dal Riformista del 31 luglio 2011)
Ancora poche ore, insomma, e si saprà se la guerra di poteri che si sta giocando sulle sorti della maggioranza produrrà i propri effetti collaterali sull’esecutivo durante o dopo l’estate. L’ultimo successore di Quintino Sella aveva dichiarato di essersi trasferito nell’appartamento del suo ex collaboratore Marco Milanese non solo «per una banale leggerezza». Ma anche perché nei locali delle Fiamme Gialle, «in caserma, non mi sentivo più tranquillo». Una scelta recente? Tutt’altro, a sentire le fonti qualificate della Guardia di Finanza citate ieri da un articolo di Repubblica. Che, se venisse confermato, dimostrerebbe che Tremonti non pernottava più nella foresteria della Gdf ormai dal 2004. Da sette anni.
Domanda: visto che di fronte alle accuse del superministro un’inchiesta della magistratura sembra quasi un atto dovuto, che tipo di ricadute agostane potrebbero esserci nella maggioranza e nel governo? Un autorevole esponente dell’opposizione, che mantiene canali di dialogo sotterranei con l’esecutivo, scommette su un’ipotesi che lui stesso definisce «pericolosa». Se venisse aperta l’inchiesta, «naturalmente Tremonti sarebbe chiamato a ripresentarsi davanti ai magistrati. E a confermare le accuse che ha già messo a verbale a mezzo stampa». Parallelamente a quel punto, aggiunge la fonte, «la stessa macchina del fango che s’è già messa in moto sulle inchieste che riguardano il Pd potrebbe concentrarsi per colpire il ministro dell’Economia e spingerlo verso le dimissioni».
L’articolo integrale lo trovate qui.
Tremonti in codice prima del diluvio: «Leggete Simenon».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 luglio 2011)
Sa di essere l’uomo su cui si addensano veline e veleni. «Non parlo», dice ai cronisti che lo sorprendono alla buvette. Poi però parla, Tremonti. E cita Simenon.
Quando se lo ritrovano davanti in una pausa dei lavori della manovra, mentre sorseggia un cappuccino al bar di Montecitorio insieme a Giorgia Meloni, i giornalisti le provano tutte. Solo alla domanda finale – «preoccupato per i mercati?» – Giulietto cede. E sfodera una citazione che apre uno squarcio tra l’ironico e l’inquietante sulla possibile tempesta che sta per abbattersi sul Palazzo. «Leggete Tre camere a Manhattan e Il presidente, di Georges Simenon». Soprattutto il secondo, tiene a precisare il superministro dell’Economia, «è bellissimo».
Il Presidente (di cui esiste anche la riduzione cinematografica, del 1961, con Jean Gabin) è il romanzo in cui Simenon tratteggia la vicenda di un politico che, arrivato alla fine dei suoi giorni, è convinto di essere sorvegliato. Soprattutto da quando ha annunciato pubblicamente un libro di memorie “non ufficiali”. I suoi sospetti portavano nella direzione del suo vecchio segretario particolare, che aveva fatto carriera al punto di essere a un passo dal diventare primo ministro.
Difficile non vedere legami con l’attualità. Anche Tremonti, che di fronte ai magistrati di Napoli ha citato il «metodo Boffo», ha recentemente litigato con Berlusconi accusandolo di «avermi fatto pedinare». Anche Tremonti, oggi, ha il problema del vecchio segretario particolare, quel Marco Milanese su cui pende una richiesta d’arresto da parte della procura partenopea. È il segno che anche Tremonti potrebbe uscire allo scoperto, dribblando veline&veleni, con le sue memorie “non ufficiali”?
Congetture, nulla di più. Di certo c’è che, nel giorno in cui la Camera approva in via definitiva la manovra economica, il Palazzo rimane col fiato sospeso in vista del possibile tsunami che potrebbe travolgere governo e maggioranza. Lunedì c’è la riapertura dei mercati finanziari. Mercoledì, invece, il voto di Montecitorio sull’arresto di Alfonso Papa, il deputato del Pdl indagato nell’inchiesta sulla P4.
Di fronte alla guerra nucleare che potrebbe travolgere il centrodestra, l’opposizione cambia strategia. «Abbiamo rinunciato all’ostruzionismo per salvare la Patria. Ma con questa manovra iniqua non c’entriamo nulla», spiega Pier Luigi Bersani camminando per i corridoi di Montecitorio. Il segretario del Pd – che secondo il quotidiano isrealiano Haaretz è «il personaggio che potrebbe restituire il potere alla Sinistra» – chiarisce che il suo partito ha già dato e nulla più darà. Nuovi accordi bipartisan? Coesione nazionale? Stop. «La nostra responsabilità si ferma qui», scandisce nella dichiarazione di voto finale sulla manovra. Scelta condivisa praticamente da tutto il partito. «Adesso basta. Che nessuno venga più a chiederci qualcosa», sottolinea Rosy Bindi. Dario Franceschini scuote la testa: «C’è una gigantesca opera di mistificazione in corso. Vedrete, Berlusconi farà di tutto per sostenere che le lacrime e il sangue li abbiamo voluti noi. Per questo, da oggi, noi ci chiamiamo fuori da tutto».
Beppe Fioroni passeggia nervosamente per il Transatlantico: «A Berlusconi dobbiamo farlo cadere, punto e basta. Lo sapete che questa manovra è insufficiente, no?», chiede retoricamente l’ex ministro. «Lo sapete», insiste, «che a settembre verranno a romperci di nuovo le scatole con altri provvedimenti?».
Perché settembre non è soltanto il mese in cui il Parlamento potrebbe essere chiamato a mettere l’ennesima pezza sui conti pubblici. Ma è anche il mese, sussurra Fioroni, «in cui potrebbe partire la campagna infamante con cui la stessa maggioranza pensa a far fuori Tremonti». D’altronde, agli occhi dell’opposizione, il Pdl è in preda a una pericolosa sindrome «da veti incrociati». «Roba che avrebbe fatto faticare anche Freud», sottolinea Enrico Letta.
Si comincia da mercoledì, quando la Camera dovrà pronunciarsi sull’arresto di Alfonso Papa. Un voto (segreto) in cui il Carroccio sarà determinante. Come fu, ricordano tra i leghisti, quello del 1993 in cui Montecitorio salvò Bettino Craxi dall’autorizzazione a procedere richiesta dalla Procura di Milano. Leggenda narra che, all’epoca, i leghisti usarono il segreto dell’urna per salvare il leader socialista e prendere a cannonate il Palazzo dopo. Sarà così anche stavolta? Oppure Papa sarà arrestato? Il finiano Carmelo Briguglio ha dichiarato: «Se Berlusconi non lascia, rischia le monetine». È il fischio d’inizio della partita finale.
«Salva Fininvest in cambio di Grilli a Bankitalia». Il patto saltato tra Silvio e Giulietto. Che adesso rischia il posto.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 luglio 2011)
Che cosa c’entra l’accantonamento della norma “salva Fininvest” con la successione a Draghi in Bankitalia e col destino di Tremonti? «Io e Giulio avevamo un patto», rivela Berlusconi ai suoi.
In questi giorni di silenzio forzato, a cui è “costretto” per non turbare quei mercati finanziari che evidentemente non hanno fiducia in lui, il Cavaliere ha deciso di togliere l’ultima coltre di mistero da quel “trucchetto normativo” che ha messo a rischio la tenuta del governo prima che l’ondata di speculazioni sull’Italia lo riportasse a un passo dal baratro.
Nelle sue confessioni, affidate ad autorevoli interlocutori del governo e della maggioranza, il presidente del Consiglio parla espressamente di «patto». Ovviamente, si tratta della sua (ennesima) versione dei fatti. Ma dice proprio così: «Io e Giulio avevamo un patto. Era stato lui a garantirmi l’approvazione di quel comma che i giornali e la sinistra hanno spacciato per “salva Fininvest”».
Dopo la condanna del tribunale civile e la “resa” certificata dalla dichiarazione di ieri l’altro di Niccolò Ghedini («Fininvest pagherà e non c’è nessuna ipotesi di legge allo studio»), l’affaire del comma ad aziendam sembra consegnato alla storia. Ma c’è un elemento di novità. E riguarda quello che – a sentire il premier – c’era dall’altra parte della bilancia. «Prima che la manovra approdasse in consiglio dei ministri», è la sintesi degli sfoghi berlusconiani, «Tremonti mi chiese di prendere una decisione definitiva sull’orientamento del governo nella scelta del nuovo governatore della Banca d’Italia. Naturalmente, nella sua testa c’era e c’è soltanto un nome: quello di Vittorio Grilli…».
L’approvazione di una norma che proteggesse Fininvest dal risarcimento alla Cir di
Carlo De Benedetti, da un lato. Il via libera di Palazzo Chigi all’ascesa del direttore generale del Tesoro verso la guida di Bankitalia, dall’altro. Un provvedimento caro a Berlusconi, da un lato. La decisione che stava in cima ai desiderata di Tremonti, dall’altro. Il «patto Silvio-Giuletto», insomma. Di cui il presidente del Consiglio, dettaglio di non poco conto, ormai parla al passato. Significa, come ripetono nella sua cerchia ristretta, «che se Grilli ha bisogno (come ha bisogno) del disco verde del premier per ambire al dopo Draghi, allora è meglio che ci metta una pietra sopra».
Vendetta? Ritorsione? Affronto? A prescindere dal nome che si darà all’orientamento del presidente del Consiglio sulla nomina del prossimo governatore di Bankitalia, l’unica certezza è che la strada del “candidato di Tremonti” verso la scrivania più prestigiosa di Palazzo Koch pare definitivamente sbarrata. Di conseguenza, se Grilli finisse davvero fuori gioco, alla ripresa autunnale la successione a Draghi sarebbe nel segno della continuità. Con Fabrizio Saccomanni, uomo di fiducia del futuro presidente della Bce, in pole position per il ruolo di governatore. E Ignazio Visco proiettato dalla vicedirezione alla direzione generale.
Ma il veto di Berlusconi a Grilli rappresenta soltanto un aspetto – seppur non secondario – di quello che potrebbe essere l’ultimo chilometro del tormentato viaggio comune di «Silvio» e «Giulietto». Tutto è legato a una domanda, lo stessa che circola intistentemente negli ambienti più vicini al Cavaliere: la settimana prossima, quando la manovra sarà approvata, Tremonti sarà ancora al suo posto, alla guida al ministero dell’Economia?
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia delle possibili dimissioni dell’ultimo
successore di Quintino Sella prende corpo il 5 luglio. Quando, in alcune chiacchierate a margine della presentazione del libro di Fabio Corsico e Paolo Messa sulle fondazioni bancarie (presenti, tra gli altri, Giuliano Amato, Romano Prodi e Gianni Letta), Tremonti lascia intendere che sta per lasciare il governo Berlusconi. Della serie, «una volta approvata la manovra, io mi dimetto. E poi…». Verosimilmente, oltre i puntini di sospensione del ministro dell’Economia, c’era lo scenario di un esecutivo che non avrebbe retto all’uscita di scena del suo componente più autorevole, anche agli occhi dell’Europa e dei mercati internazionali.
Negli ultimi giorni, a causa dei boatos sull’inchiesta che ha travolto Marco Milanese, la situazione sembra essersi capovolta. Ieri, Tremonti ha implicitamente negato l’ipotesi delle dimissioni. E il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore ha esplicitamente smentito che il ministro dell’Economia sia iscritto nel registro degli indagati. «Non basta il cambio di un ministro, serve il cambio di tutto il governo», ha scandito Pier Luigi Bersani. Eppure, a Palazzo, c’è un’atmosfera che accredita l’ipotesi di un’uscita di scena di Tremonti. Si tratta di dettagli piccoli o meno piccoli, per adesso. Piccoli come la scelta di una quindicina di deputati del Pdl (compreso il vicecapogruppo Simone Baldelli) di sottoscrivere un’interpellanza del Pd (primo firmatario Francesco Boccia) che chiede al governo di impegnarsi a favore del «divieto assoluto di vendita di titoli allo scoperto». O meno piccoli come i contatti continui tra il premier e il principale candidato al ministero di via XX settembre nel caso in cui Tremonti abbandonasse: Lorenzo Bini Smaghi.
“Cretino!”, “bugiardo!”. La farsa finale del Silvio IV, con Scilipoti cerimoniere.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’8 luglio 2011)
Per Fruttero&Lucentini «il cretino è imperturbabile», «la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai di dubitare di sé». Basta togliere le firme di Fruttero&Lucentini, metterci quella di Tremonti et voilà: Renato Brunetta.
Niente dietro le quinte, nessun retroscena. E non c’entrano nemmeno gli aggeggi malefici con cui Nanni Loy confezionava Specchio segreto o Candid Camera. No. Succede durante una conferenza stampa del governo. Ed era tutto davanti a tutti, pronto perché una telecamera – in questo caso di Repubblica tv – lo cogliesse per certificare la «dichiarazione di fine lavori» del Berlusconi IV.
Martedì Brunetta, ministro sì ma senza portafoglio, s’incarica di illustrare la manovra economica per la parte riguardante il pubblico impiego. Qualche sedia più in là Giulio Tremonti, superministro con un portafoglio gonfio di dossier che manco il caveau di Fort Knox, ne celebra le gesta oratorie. Partendo da una sobria analisi del verbo brunettiano – «Questo è il tipico intervento suicida» – e ostentando una capacità di sintesi superiore financo a quella di Fruttero&Lucentini. Quattro parole: «È proprio un cretino». Sottoposte, alla fine, anche al vaglio di qualche presente. Come Maurizio Sacconi («Maurizio, ma hai sentito quello che sta dicendo?», chiede Giulietto), che acconsente («Non lo seguo nemmeno»).
Ieri mattina, quando Repubblica ha appena mandato in rete il video-remake tremontiano del Cretino in sintesi di Fruttero&Lucentini, sembra di vivere in un’altra era. La Procura di Napoli ha appena chiesto l’arresto di Marco Milanese, l’ex braccio destro del ministro dell’Economia. Quest’ultimo, però, viene assolto da Brunetta, che sceglie invece di prendersela con il primo caso mondiale di «violazione della privacy» (sic!) avvenuto nel bel mezzo di una conferenza stampa. Il tutto mentre un altro membro del governo, Guido Crosetto, spiega che un cretino in giro c’è. Ma si chiama Tremonti («Io condivido totalmente le parole espresse dal ministro dell’Economia. Mi differenzio solo ed esclusivamente sul fatto che le avrei rivolte nei suoi confronti»), mica Brunetta.
C’è un aurea regola non scritta secondo cui laddove volano i «cretino!» c’è anche qualche «bugiardo!». E così, quando si presenta nella Sala del Mappamondo della Camera per fare da autorevole spalla alla presentazione del libro di Mimmo Scilipoti (Il re dei peones, Falzea editore), ci pensa Silvio Berlusconi in persona a far entrare sulla scena il secondo protagonista collettivo del giovedì nero del suo governo. Il «bugiardo», appunto. L’inviata di La7 gli chiede lumi sulla vera storia della norma salva Fininvest, la stessa per cui Giulio Tremonti aveva invitato a rivolgersi altrove («Chiedete a Letta»). E il Cavaliere, col candore di un’educanda navigata, replica: «Non l’ho scritta io», «è stata discussa durante il consiglio dei ministri», anzi proprio «Tremonti non ha ritenuto di portarla al voto». Lo sbugiardatore pubblico della (a suo dire) cretinaggine di Brunetta, a sentire il premier, avrebbe mentito sulla paternità del comma che salvava la sua azienda (azienda del premier, ovviamente). E i leghisti, che avevano espresso il loro disappunto pubblico sul comma poi ritirato, lo stesso che il premier dice di voler ripresentare perché «sacrosanto»? Il Cavaliere ne ha anche per loro. «Calderoli mi ha chiesto», spiega il premier, «“perché non me l’hai detto (che c’era la norma, ndr), che l’avrei scritta meglio io e l’avrei pure sostenuta?”».
A controsbugiardare lo sbugiardatore intervengono, in tandem, i leghisti. La salva Fininvest? «Non sapeva niente nessuno», giura Umberto Bossi. E Calderoli, furibondo col premier: «Ribadisco ancora una volta di non aver mai né letto né visto la cosiddetta norma sul Lodo Mondadori e di aver appreso della sua esistenza soltanto dai lanci delle agenzie di stampa». Morale della favola? Non avendo più alcuno da sbugiardare, dopo aver letto del caos scatenato dalle sue stesse parole, il premier capisce che è l’ora di sbugiardare se stesso. Con una nota: «Quanto mi viene attribuito da alcune agenzie di stampa in merito all’operato del ministro Tremonti non corrisponde al mio pensiero né alla verità dei fatti».
Tremonti, Brunetta, Crosetto, Sacconi, Milanese, Berlusconi, ancora Tremonti, Bossi, Calderoli, ancora Berlusconi. Violenti come Le Iene di Tarantino, comici come quelle di Mediaset. Il cuore pulsante della maggioranza vede il sipario che cala al ritmo di due parole: «cretino» e «bugiardo». Con buona pace del povero Scilipoti, che s’era illuso di calamitare su di sé l’attenzione delle masse come all’epoca del 14 dicembre. Per la presentazione del suo libro, nell’ordine: ha disseminato la Sala del Mappamondo della Camera con decine di copie del suo quotidiano la Responsabilità, che nell’ultimo numero ospita un’intervista a tale Jay Maggistro, una a Pippo Franco e un commento dal titolo «Le otturazioni in amalgama sono un pericolo reale»; ha detto di aver fatto 22mila visite nelle favelas in Brasile; ha confessato che esiste una sala lettura di una città carioca che «porta il mio nome». Ma, ahilui, non ha dato del «cretino» a nessuno.
Il cavillo che fece dire a Giulio: «Silvio, io non mi chiamo Alfano, chiaro?»


