Posts Tagged ‘Berlusconi’
Ma il naufragar ci è dolce in questa Corte?
Parliamoci chiaro. Berlusconi, negli ultimi vent’anni, ha promesso “meno Stato” e “meno tasse“. Ha lasciato più Stato e più tasse. Ha promesso un milione di posti di lavoro in più e di posti di lavoro ce ne sono più d’un milione, ovviamente in meno. La maggior parte delle volte è stata imperizia, molte volte malafede, altre non è stata colpa sua, vista la congiuntura internazionale. Ma il quadro è questo.
Si muore di fame al Sud, ma questo succedeva anche prima del berlusconismo. Si muore di fame anche al Nord, dove prima di fame non si moriva.
Da qui la domanda. Ma c’è qualcuno in grado di sostenere che una sentenza della Cassazione per frode fiscale possa arrivare là dove un incontrovertibile giudizio sull’operato politico di Berlusconi non è arrivato fino in fondo? All’Ilva di Taranto aspetteranno la sentenza con le orecchie alla radiolina?
Io, una mia risposta, ce l’ho. No.
La congiura di «quelli del ’94». È Forza Italia il partito che sta staccando la spina.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 4 novembre 2011)
Quando invita a «fucilare alla schiena» i traditori dell’ultim’ora, Francesco Storace – oltre alle regole della democrazia – tralascia un dettaglio. Ad abbandonare Silvio Berlusconi sono quelli della «prima ora». È Forza Italia il partito che sta scaricando il Cav.
La «valanga azzurra», che era sinonimo dell’onnipotenza organizzativa e politica del Cavaliere, adesso sta per travolgerlo. Come una slavina. Infatti, a tirare il grilletto (politico) contro il premier, a cominciare dalla partita sul rendiconto che si giocherà da martedì, sono proprio alcuni «uomini del ’94». Giovani (all’epoca) esponenti del vecchio pentapartito, che dopo la discesa in campo di Sua Emittenza avevano trovato riparo nella creatura delle coccarde tricolori e delle canzoncine di un’epoca ben lontana dalle strimpellate di Apicella. Gente che cantava a squarciagola E Forza Italia per essere liberi / e Forza Italia per fare e per crescere. Ma che non s’è mai abituata al ritornello Presidente siamo con te / meno male che Silvio c’è.
È assai probabile che, quando s’è ritrovato gente come Giorgio Stracquadanio e Isabella Bertolini tra i frondisti, il Cavaliere abbia finalmente capito che gli appelli per il ritorno allo «spirito del ’94» – come quelli di Giuliano Ferrara – non erano acqua fresca. Stracquadanio è un prefetto esempio di quello spirito. Ex radicale, già braccio destro di Tiziana Maiolo, ha servito il berlusconismo comunicando. Perché comunicare era il suo mestiere, e ha comunicato. Fare era quello di altri, che poi non hanno fatto. Anche Isabella Bertolini c’era dal principio. Veniva dal Pli. E anche lei s’era inizialmente sistemata zitta (si fa per dire) e buona nella rossissima Emilia, la sua terra, coi galloni di coordinatore provinciale di Forza Italia a Modena.
La coppia Stracquadanio-Bertolini è un emblema della grande potenza del partito della coccarde: radicale iper-laico il primo, nemica dei Radicali e degli iper-laici la seconda. Che una volta se lo lasciò anche sfuggire, durante il dibattito su Eluana Englaro, che secondo lei «i Radicali sono paladini della morte a tutti i costi». Eppure, nonostante le differenze culturali, sia «Giorgio» che «Isabella» sono rimasti sempre là. All’ombra di Silvio.
Forza Italia risorge dall’urna di ceneri in cui era stata confinata con la nascita del Pdl. Rinasce. E si vendica. Anche Ida D’Ippolito, passata ieri all’Udc, nel ’94 era in Calabria a distribuire le coccarde tricolori del partito azzurro. Veniva dalla Dc, fedelissima dell’ex ministro Riccardo Misasi. Tra la fine dello scudocrociato e il nuovo inizio berlusconiano aveva scelto il secondo. Anni, anni e anni dentro il centrodestra. Fino a ieri. Quando evidentemente la nomina a sottosegretario del suo nemico (anch’egli di Lamezia Terme) Pino Galati, che invece veniva dall’Udc, gli è diventata indigeribile.
Da FI viene anche il giovane toscano Alessio Bonciani, classe ’72, uno degli oppositori di Denis Verdini. L’anno scorso, mentre perdurava la sua permanenza nella lista nera del potente coordinatore del Pdl, Bonciani aveva minacciato il passaggio in Fli. Minacciato e basta. Poi, forse per paura, preferì cavarsela con la citazione del Vangelo che perennemente opponeva ai finiani, che lo invitavano a saltare lo steccato. «Passi da me questo calice, senza che io lo beva». Ieri l’ha bevuto, il calice. Ha preso sottobraccio la D’Ippolito ed è emigrato, anticipato da un post su Twitter del casiniano Roberto Rao, nell’Udc. Nell’opposizione, insomma.
Stracquadanio e Bertolini chiedono il passo indietro. D’Ippolito e Bonciani se ne sono già andati. E tanti sono quelli che stanno per saltare. Tra questi c’è anche il toscano Roberto Tortoli, altro nemico giurato di Verdini, che lo ripete da mesi: «Io sto in Forza Italia dall’inizio. Dall’i-ni-zio. E Denis, all’epoca, stava nel Partito repubblicano». Anche l’ex donna Rai del Cavaliere, Deborah Bergamini, è insofferente. Come Moles, Cossiga, Testoni, Picchi e molti altri (non Nunzia De Girolamo, che si dice «fedelissima a Berlusconi»), che un mese fa si erano chiusi in una stanza con Guido Crosetto a ragionare sul che fare?.
Altro che traditori dell’ultim’ora. È proprio Forza Italia, che il Cavaliere ha ucciso su un predellino, a scaricare il suo fondatore. Come dimostrano anche i movimenti del Senato. L’ex psdi Carlo Vizzini l’ha già detto agli amici: «Me ne vado anch’io all’opposizione. Faccio un gruppo di laici insieme a Luciana Sbarbati». «Siamo come i protagonisti di Vite vendute, il film con Yves Montand», diceva qualche settimana fa Stracquadanio. «Lavoratori che guidano camion carichi di dinamite. Basta una buca e saltiamo in aria». Lui è saltato, sì. Ma dal camion. Prima della buca.
Il tradimento degli ex forzisti e l’allarme sul rendiconto. La partita a Shangai che porta alla caduta di Silvio.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 3 novembre 2011)
«Ci stanno portando via una decina di deputati». Quando evoca la «congiura», nel bel mezzo dell’ufficio di presidenza del Pdl, Angelino Alfano pensa all’Incidente. Teme che il governo cada di nuovo sul rendiconto. E, stavolta, «per sempre».
L’ufficio di presidenza del Pdl termina pochi minuti dopo l’inizio del consiglio dei ministri. Quando comincia la riunione di governo a Palazzo Chigi, insomma, a via dell’Umiltà hanno appena finito di fare i conti col risiko che potrebbe aprirsi subito dopo la riunione di governo. È una rilfessione amara, quella che Alfano è costretto a svolgere nella giornata più dura da quando è segretario del partito. «C’è una congiura contro di noi. E dobbiamo resistere almeno fino a Natale, scongiurando qualsiasi altro governo. Per poi correre a elezioni anticipate». A quelle elezioni anticipate, anche se non lo dice esplicitamente, «Angelino» sa che toccherebbe a lui correre per la premiership. Il lavorìo avviato sul fronte Ppe, quei contatti che l’hanno portato a ottenere un posto d’onore al congresso dei Popolari europei in programma a Marsiglia a inizio dicembre, è la spia che il «via libera» di Berlusconi è già arrivato da qualche settimana. Come dimostra anche l’accelerazione forsennata che l’ex guardasigilli ha impresso al tesseramento nel partito, «anche per tentare di arginare – come dicono i suoi – lo strapotere degli ex An».
Ma tutto rischia di andare a monte. A causa della «congiura». «Non ci stanno tradendo i leghisti o certi personaggi borderline che stanno in Parlamento con noi. Stiamo perdendo i “nostri” amici», è l’amara riflessione che il segretario sta facendo da qualche giorno. I nomi dei frondisti, che rimbalzano nel Transatlantico semideserto di Montecitorio, sono quelli di coloro che si sono appena alzati da una riunione carbonara nel centro della Capitale. Roberto Antonione, che ieri l’altro ha formalizzato l’addio alla maggioranza; Giustina Destro, avamposto montezemoliano a Palazzo, che se n’è uscita prima dell’ultimo voto di fiducia; più Isabella Bertolini, Giorgio Stracquadanio, Guglielmo Picchi, Giancarlo Pittelli, Fabio Gava. Alcuni di loro stavano in Forza Italia dai tempi della discesa in campo. E le voci di chi sostiene che saranno una decina di «Bruto» a dare la pugnalata finale a «Silvio-Cesare», sembrano quasi voler confermare l’allarme che la deputata Nunzia De Girolamo aveva lanciato a Denis Verdini. «Denis, guarda che a furia di rincorrere i Responsabili, finirà che a voltare le spalle al Presidente saranno proprio i nostri. Quelli che stanno da una vita con lui».
Il percorso verso la caduta sembra più intricato di una partita a Shangai. I leader dell’opposizione che tengono i contatti con la fronda, a cominciare da Pier Ferdinando Casini, devono prendere ogni singola bacchetta evitando di toccare le altre. Roberto Rao, che del leader centrista è braccio destro e spin doctor, prova a smorzare l’atmosfera con una battuta che evoca le recenti “vittorie” del premier in Parlamento: «Abbiamo avuto il 14 dicembre e il 14 ottobre. Evitiamo di aggiungere il 14 novembre…». Già. Ma come gestire l’operazione che dovrebbe portare alla caduta del governo Berlusconi? Come muovere sulla scacchiera quei parlamentari che, come dice Casini, «stanno pensando di uscire dalla maggioranza»?.
Se Berlusconi non cede prima lo scettro «a Gianni Letta», uno scenario che il sito Nordest.eu attribuisce nientemeno che a Maurizio Paniz (che poi parzialmente rettifica), diventa centrale il ritorno alla Camera del rendiconto già bocciato da Montecitorio. Le opposizioni hanno concesso al blocco Pdl-Lega di aggirare la norma che impediva la riproposizione entro due mesi di un provvedimento già bocciato. «Ma questo», come hanno convenuto i capigruppo di Pd-Idv-Terzo Polo, «non significa che voteremo a favore».
L’obiettivo, come spiegano fonti centriste, è proprio quello. Far emergere la fronda (magari con una raccolta di firme contro Berlusconi) minacciando un secondo no al rendiconto, che bloccherebbe a seguire anche le misure anti-crisi. «A quel punto o il Cavaliere s’arrende oppure va sotto». L’Incidente, insomma. Ma questo è soltanto il primo passo. Il secondo sarebbe provocare una slavina all’interno del Pdl. Convincendo una fetta di deputati berlusconiani a rischio rielezione a tuffarsi nella prospettiva del governissimo sotto l’ombrello del Colle, evitando quindi le forche caudine del voto anticipato. Lì, e torniamo ai timori a cui ha dato voce Berlusconi, «sarebbe l’ora di gente come Mario Monti o Giuliano Amato».
Stavolta, con lo spread alle stelle e il G20 alle porte, è quasi scontato sostenere che la «congiura» andrà in porto. Gli uomini-macchina del Cavaliere, paradossalmente, erano riusciti a intercettare il piano. «La lettera della settimana scorsa doveva rimanere segreta», dice uno dei berlusconiani. «Poi, qualcuno che ha preferito non firmarla, ci ha fatto un favore, consegnandola all’Ansa». Una vittoria di Pirro. Una delle ultime, forse, dell’organizzazione del premier. Che s’infila nella notta buia di Palazzo Chigi accompagnato dal titolo dell’editoriale della sera che Giuliano Ferrara sforna sul sito del Foglio: «Fucilate il soldato Cav.».
Così cadde nel ’94. Allontanandosi in auto dopo il tradimento di Bossi: «Non è una resa. Io sono come Van Basten»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 dicembre 2010)
C’era una volta un «traditore», che Lui allora chiamava «il mio Umbertone», che poche sere prima aveva pasteggiato a sardine e pan carré, e brindato all’imminente caduta del governo con birra in lattina e coca cola. C’era una volta un inossidabile fedelissimo, che Lui allora chiamava «il mio Gianfranco», che pur di non bere il velenoso calice del Giuda continuava a ripetere «Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». C’era una volta l’Aula di Montecitorio, in cui la maggioranza dei deputati aspettava di votare tre mozioni di sfiducia. E soprattutto c’era una macchina che marciava spedita verso il Quirinale. Con un uomo, seduto dietro, che sussurrava: «Non pensate che sia una resa. Io sono come Van Basten». C’era una volta il 22 dicembre 1994. Il giorno della «caduta», che il manifesto dell’indomani avrebbe celebrato con l’ultima beffa all’unto del Signore. E un titolo natalizio: «Tu cadi dalle stelle».
Che fosse arrivato al de profundis, il Berlusconi I figlio del nordista «Polo della Libertà» (Forza Italia più Lega) e del sudista «Polo del Buongoverno» (Forza Italia più An), era chiaro da un mese. Da quando il Cavaliere, alle 21 del 21 novembre, a poche ore dall’inizio della Conferenza Onu sulla criminalità in programma a Napoli, viene informato del celeberrimo avviso di garanzia di cui avrebbe dato notizia, il giorno successivo, il Corriere della Sera. Dieci giorni e sarebbe successo di tutto: la guerra dichiarata di Berlusconi a Oscar Luigi Scalfaro («Il Presidente mi deve sostenere senza tentennamenti e ambiguità»), l’ispezione del guardasigilli Alfredo Biondi nelle stanze del Pool di Mani Pulite, la manifestazione di diecimila forzisti a favore del governo, la vittoria del centrosinistra al ballottaggio di un mini-turno di amministrative, le dimissioni di Tonino Di Pietro dalla magistratura, con quella toga tirata giù al grido di sì, «me ne vado, con la morte nel cuore». Ma visto che nemmeno una guerra mondiale può scoppiare senza un incidente, ecco che spunta, all’esame della Camera, la proposta del presidente Irene Pivetti di istituire una «commissione speciale sul riordino del sistema radiotelevisivo». Quel 15 dicembre del 1994, mentre Fabio Fazio sta consultando gli indici d’ascolto del suo Quelli che il calcio… e Roberto Saviano non è che un quindicenne spensierato (Mauro Masi, un anno dopo, sarebbe diventato lo spin doctor ombra del governo Dini), in sella al cavallo di Mamma Rai nasce un’altra maggioranza. Pds, Ppi e la Lega di Umberto Bossi votano la proposta della Pivetti, che esautora la commissione Cultura di Vittorio Sgarbi e trasforma l’Aula di Montecitorio in un ring. Forza Italia e An sono in minoranza.
Gianfranco Fini invita i suoi a fare il guardiani della rivoluzione del Cavaliere. «Gol-pe, gol-pe, gol-pe», urlano dai banchi di An. «Non partecipo a una votazione che fa nascere una nuova maggioranza che calpesta le regole», sbraita IgnazioLa Russa. LaPivetti è un bersaglio umano. Il ccd Ciocchetti le indirizza per posta prioritaria, scandendolo, un comprensibilissimo «ma vedi d’anna’ affanculo» a cui forzisti e finiani tributano lunghi applausi. Fa ancora meglio Gian Piero Broglia, pasdaran berlusconiano. «Sta zitta, buffona». E ancora: «Qua dentro c’è il primo tangentista della Seconda repubblica. Si chiama Umberto Bossi». Poco più tardi Sgarbi invocherà perla Pivetti«una perizia psichiatrica», da effettuarsi – testualmente – su «quel cervello completamente vuoto». Beccandosi in cambio due libri, quelli che il comunista Nappi gli tira in testa nelle stanze della commissione Cultura.
Dietro la rissa reale, degna dei giganti del wrestling che le tv del Biscione trasmettono ogni domenica mattina prima delle «bombe» pallonare dell’indimenticato Maurizio Mosca, c’è una sola verità. Bossi ha tradito, Berlusconi non ha più la maggioranza. L’Umbertone, però, ha un problema interno. Una parte dei suoi, «colombe» come oggi lo sono nel giro dei finiani che fa capo alla ditta «Moffa, Viespoli&co.», vuole evitare la rottura con Berlusconi. Il loro leader è Bobo Maroni, titolare del Viminale. Che finisce sotto processo accusato dai falchi in camicia verde, capitanati da Francesco Speroni, che fanno quadrato attorno al Senatur: «Berlusconi sta cercando di comprare i nostri parlamentari. Ma noi stiamo con Umberto». Lo stesso Umberto che la sera stessa riceve a casa sua, nella periferia romana, Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione. L’accordo a tre per mandare a casa il Cavaliere di Arcore è sul tavolo. Insieme – nell’ordine – a due scatolette di sardine, pan carré, coca cola e birra in lattina, il menù che un Senatur con frigo vuoto sottopone al palato degli increduli commensali. Le mozioni di sfiducia sono pronte.
La crisi di governo è aperta. Al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro ha già avviato un giro di pre-consultazioni istituzionali. Sono i giorni in cui finisce sui giornali la leggenda della chiamata che parte dal Colle e arriva negli uffici della Procura di Milano. «Se dovete fare qualcosa, fate presto». Dall’altro capo del telefono c’è Francesco Saverio Borrelli. Berlusconi è nell’angolo. Tenta una controspallata di piazza ma i suoi «Club della libertà», nel corteo di Milano, non vanno oltre una decina di migliaia di effettivi. E si arriva al dibattito alla Camera. La penultima stazione del calvario del Berlusconi I. È il 21 dicembre. Alle 14, quando inizia la diretta televisiva da Montecitorio, il Cavaliere prende posto tra Maroni e Pinuccio Tatarella. Davanti a sé ha qualche decina di cartelle che leggerà in ventisei minuti contati e un bouquet di citazioni che comprende Jacques Maritain e Abramo Lincoln, don Sturzo e Pietro Calamandrei, Umberto Terracini e UgoLa Malfa. Ilsenso è uno solo: «Bossi è un traditore», impegnato (ma questo passaggio del testo non verrà mai letto) «in un furto con scasso per mere ambizioni di potere». La mozione di sfiducia della Lega? «Uno schiaffo alle regole e una clamorosa offesa al buonsenso e alla fiducia dei cittadini», e ancora «una truffa ai danni degli elettori», e quindi «una clamorosa violazione della Costituzione», «un messaggio devastante per la democrazia», come dire – e qui il pathos del premier raggiunge vette da Mortirolo – «care elettrici, cari elettori, le elezioni non contano un bel niente».
È Berlsconi che parla. Ma sembra l’Ezechiele del passo biblico «25, 17» che Tarantino mette in bocca a Samuel Jackson in Pulp fiction («E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno»). «Grande rapina», dice Silvio. «Grande scippo», insiste Silvio. «Ricettazione», «autentica truffa», accusa Silvio. Fini lo sostiene come il più fedele degli scudieri. «Oggi – scandisce il leader di An nel suo intervento – non finiscela Prima Repubblica. Oggi finiscela Lega». Le colombe di Maroni, però, hanno capitolato. Il Carroccio, che tradisce in blocco, ha la faccia del Bossi che vira la mano sinistra sull’avambraccio destro e che, guardando Fini, urla: «Tié». Il vecchio leghista Luigi Rossi, 84 primavere alle spalle, scavalca a destra (o a sinistra?) il Senatur. È lui a opporre al leader di An l’intervento più breve della storia del Parlamento. Una parola: «Vaffanculo». Mario Landolfi, finiano, risponde con due, di parole: «Taci, cadavere». Francesco Storace sale a quattro: «Rientra nel tuo sarcofago». Tutto inutile. Le dimissioni di Berlusconi sono già decise. L’appuntamento col Capo dello Stato è fissato per ventiquatt’ore dopo.
In omaggio all’adagio christiano (nel senso di Agatha) secondo cui «nella mia fine è il mio principio», «Silvio» prepara una videocassetta. Con una videocassetta, trasmessa dal Tg4 a gennaio, era sceso in campo. Con una videocassetta, inviata a tutte le televisioni a dicembre, saluta gli italiani chiedendo loro di scendere in piazza contro «il tradimento». Nel Transatlantico di Montecitorio si discute del «dopo». L’opzione Dini, che si materializzerà a inizio anno, non s’intravede neanche nei radar. Al netto della proposta del Pds («Serve un Ciampi bis», mette a verbale D’Alema), l’ipotesi è una sola, un «governo del Presidente». I nomi, invece, sono due: Carlo Scognamiglio, presidente del Senato. O Francesco Cossiga. Quest’ultimo si fa organizzare un incontro con Fini. L’appuntamento è a Palazzo Madama, nello studio del vicepresidente Romano Misserville, un post-missino che anni dopo avrebbe avuto il suo quarto d’ora di celebrità nel governo D’Alema bis. «Caro Gianfranco», scandisce l’ex capo dello Stato, «io non mi presto a formare alcun governo del ribaltone. Vorrei però sapere se da parte vostra c’è la disponibilità ad appoggiare un esecutivo da me presieduto che conduca alle elezioni». Fini, che pure ha un grande debito di riconoscenza nei confronti del Picconatore, scuote la testa: «Caro presidente, mi dispiace ma noi preferiamo Berlusconi. L’ho già detto a Mariotto Segni l’altro giorno: per Alleanza nazionale, Berlusconi innanzitutto, Berlusconi soprattutto». L’ex presidente della Repubblica non insiste più di tanto. Anche perché «Gianfranco» è irremovibile: «Per quanto mi riguarda, le uniche strade percorribili sono il Berlusconi bis o le urne. Ieri ho detto alla Camera chela Legaè finita. Mi sbagliavo. È Bossi che è finito. Con lui io e Silvio non prenderemo più neanche un caffè».
Mentre Fini e Cossiga sono ancora a colloquio, Papa Wojtyla sta scrivendo una lettera a François Mitterrand per chiedergli di «tornare alla fede», Boris Eltsin è alle prese con le polemiche per i raid aerei su Grozny, Alberto Tomba sta dominando lo slalom gigante dell’Alta Badia e il pentito della ‘ndrangheta Cesare Polifroni sta sostenendo di fronte ai magistrati che Riina voleva uccidere Claudio Martelli. Nel frattempo c’è quella macchina, che marcia spedita verso il Quirinale. A bordo ci sono Berlusconi e le sue dimissioni. In testa, il Cavaliere, ha molti pensieri. Uno su tutti : «Si è persa una grande occasione. È come se una squadra avesse comprato un campione da trenta goal l’anno e poi gli arbitri gli si fossero accaniti contro, guardandolo in cagnesco durante ogni partita e fischiandogli sempre il fallo contro. Allora anche la squadra l’ha abbandonato. A me è successo questo». Silvio bomber, come Van Basten. Silvio e la fedeltà di Fini. Silvio e il tradimento di Bossi, la fine di un amore perso che si sarebbe poi ritrovato, anni dopo. Come nei versi di Mariano Apicella a cui spesso lo chansonnier di Arcore ha prestato la sua voce. Ma se adesso ancora lo vuoi / per ritrovar l’amore basta poco lo sai / per ritornare a vivere come prima tu ed io / e per cancellare questo falso addio.
Il carneade Milo vota. Sfuma il delitto perfetto di Montezemolo e Casini.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 ottobre 2011)
Silvio Berlusconi incassa la fiducia. 316 sì, 301 no. Ma questa è la storia di un delitto (quasi) perfetto, stile Omicidio sull’Orient Express di Agatha Christie. Che sfuma quando un parlamentare semisconosciuto che si chiama Antonio Milo fa il suo ingresso nell’Aula di Montecitorio.
Montezemolo, Casini, Franceschini. Si muovono ciascuno per conto proprio, come i tanti killer del noto giallo della Christie. Ma hanno un obiettivo comune: quello di far cadere il governo Berlusconi. Il primo perché vuole finalmente entrare dalla porta principale, e stavolta a sorpresa, nel gioco della politica. Il secondo e il terzo perché sperano che sia l’opposizione a dettare i tempi dello scioglimento anticipato della legislatura (l’Udc) o ad aprire l’ultimo spiraglio per un governo d’emergenza (il Pd).
La partita del presidente della Ferrari è diversa da quella dell’opposizione. Da giorni si diceva che fosse a contatto con «due partecipanti alle cene di Scajola» (Fabrizio d’Esposito lo aveva scritto sul Fatto quotidiano). E ieri è arrivata la prova. Poco prima che iniziasse il voto sulla fiducia, il sottosegretario Aurelio Misiti l’ha confidato a qualche collega della maggioranza: «Questa notte Montezemolo ha contattato Giustina Destro e Fabio Gava, convincendoli a voltare le spalle al Cavaliere». Non è tutto. «L’ex presidente di Confindustria ha preso contatti con altri parlamentari. Di sicuro con Catia Polidori, che a quando mi risulta gli ha detto “no, grazie”». Sono le 11.30 di ieri mattina. Un’ora dopo, Destro e Gava avrebbero disertato il voto di fiducia, mandando in ansia le truppe di Berlusconi. Al contrario della Polidori e (guarda caso) dello stesso Misiti, che nel pomeriggio sarebbero stati promossi da sottosegretari a viceministri.
All’una di notte, quindi, undici ore prima che l’Aula di Montecitorio si esprima sulla fiducia al governo, Berlusconi ha già perso Destro e Gava. Ma ci sono altre tre pedine che stanno per saltare il fosso: Luciano Sardelli, Antonio Milo e Michele Pisacane. Gli stessi che consentono l’ingresso nel “giallo” di Casini e Franceschini.
È Sardelli, come si dice in gergo, a «fare l’operazione». L’ex capogruppo dei Responsabili ha già preso contatti da giorni con i suoi ex colleghi dell’Udc, ai quali affida le proprie speranze di riportare nell’opposizione sia Milo che Pisacane. Nella notte tra giovedì e venerdì, quando l’operazione comincia a sembrare «fattibile», Casini sente i vertici del Pd. E visto che comunque l’opposizione non riuscirebbe mai a raggiungere il numero dei parlamentari della maggioranza, ecco che il campo di gioco diventa un altro. «Non si tratta di battere Berlusconi. Ma di fargli mancare il numero legale», spiegano alcuni deputati. Perché hanno una certezza, tutti quelli che si muovono sullo scacchiere anti-Silvio: «Se l’assenza del numero legale spinge il premier a richiedere la fiducia a inizio della prossima settimana, abbiamo tutto il week-end per convincere Scajola a staccare la spina».
Il piano, effettivamente, è ben congegnato. Nottetempo, Casini avverte Franceschini. Che a sua volta, ieri mattina, invita tutti i suoi a rimanere fuori dall’Aula. Gli addetti al pallottoliere dell’opposizione lo dicono e lo ripetono, come a voler alimentare le speranze sulla riuscita del blitz: «Se Gava, Destro, Sardelli, Milo e Pisacane non entrano in Aula, allora è fatta. Niente numero legale, niente fiducia».
All’inizio della prima chiama, c’è un’unica ansia che li tormenta. La delegazione dei Radicali, che già ieri l’altro aveva “disobbedito” (virgolette d’obbligo) all’ordine di scuderia di disertare il discorso di Berlusconi, è riunita per decidere il da farsi. Nel partito ci sono due linee: Bonino vorrebbe seguire le orme del resto dell’opposizione, Pannella invece crede che «Emma» sia troppo appiattita sul Pd. Dei sei deputati radicali, una è in Africa (Elisabetta Zamparutti). Gli altri sono divisi tra chi vorrebbe partecipare al voto di fiducia (Bernardini, Coscioni, Turco) e chi spinge per l’Aventino tattico (Beltrandi e Mecacci). Tutti loro, ovviamente, sapevano che il voto era previsto per mezzogiorno. Eppure convocano la loro riunione in ritardo, come a voler monitorare quello che sarebbe successo tra il Transatlantico e l’emiciclo.
A mezzogiorno e un quarto, i berlusconiani tremano. La loro maggioranza, dopo l’uscita
del tridente Versace-Destro-Gava, è ferma a 314. Sardelli ha appena respinto l’ultimo pressing del Cavaliere in persona. Mancano Milo e Pisacane. I monitor del Transatlatico e del cortile sembrano quelli di Wall street. Capanelli di gente accalcata, fogli di carta che volano, speranze, delusioni, paure. Poi Milo risponde alla «chiama» e vota la fiducia. Franceschini scuote la testa, Bersani rimane impietrito. L’operazione sfuma, perché il «numero 315» virtuale ha appena scongiurato il blitz. Poi la scena sarà tutta dei Radicali, che fanno il loro ingresso in Aula tra gli insulti dei deputati del Pd (particolamente scatenate Giovanna Melandri e Rosa Villecco Calipari). «Quando gli str.. sono str.., galleggiano senz’acqua», s’infuria Rosy Bindi. «Macché, con l’ingresso di Milo i numeri li avevano già», ribatte l’ex radicale Roberto Giachetti, segretario d’Aula del Pd. Quindi, sui titoli di coda, si presenta nell’emiciclo anche Pisacane. Era inutile che stesse tra i congiurati, visto che la congiura era appena fallita. Niente Omicidio sull’Orient Express. Solo urla. Quelle tra Francesco Pionati e il suo ex collega dell’Udc Angelo Cera. «Angelo, ora gli devi trovare un posto in lista a Sardelli, che sennò a quello non resta che andare a zappare». «Ma stai zitto, France’. Tu con quello ci mangiavi fino a poco tempo fa». 316 a 301. E la ruota impazzita ricomincia a girare.
La notte del Cavaliere. L’incubo del «314» prende forma.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
«È il mio ultimo desiderio. Venitemi a prendere e portatemi in barella alla Camera. Voglio sentire l’applauso mentre dico “no”». La voce di Mirko Tremaglia, al telefono, si sentiva appena.
Quando aderì alla Repubblica di Salò aveva appena diciassette anni. Adesso che di anni ne ha ottantacinque, Mirko Tremaglia vive da mesi chiuso in casa, nella sua Bergamo. L’emozione che ha scandito i suoi momenti più appassionanti dell’ultimo decennio è la stessa che lo accompagna da quando, nel 2000, perse il figlio Marzio. La stessa con cui due giorni fa, al telefono con i colleghi finiani, ha espresso il suo desiderio: «Venitemi a prendere con un’ambulanza. È l’ultima cosa che chiedo alla politica. Voglio sentire quell’ultimo applauso dell’Aula mentre voto contro Berlusconi». Difficile accontentarlo. «Non ce la può fare, gliel’abbiamo detto tutti», spiega Fabio Granata.
Con Tremaglia fuori campo, il pallottoliere dell’opposizione – quello dei «no» al governo Berlusconi – è destinato a fermarsi a quota 305. Compresi gli antiberlusconiani dell’ultim’ora, l’ex diccì Calogero Mannino detto «Lillo» e l’onorevole fashion Santo Versace. Una cifra, questa, che tiene conto del presidente dell’Aula Gianfranco Fini che non voterà e dell’assenza fisiologica di Antonio Gaglione.
Con l’opposizione ferma a 305, tutti coloro che nella maggioranza vogliono rifilare un siluro all’indirizzo del Cavaliere hanno più frecce nel loro arco. Il perché lo spiega uno dei tanti anonimi scajoliani che agitano nervosamente la vigilia a Palazzo: «La fiducia deve passare senza problemi. Il nostro gioco è sfruttare qualche assenza tattica per far sì che il governo rimanga al di sotto della maggioranza assoluta». Semplice. D’altronde lo dice anche Giorgio Stracquadanio, fedelissimo del Cavaliere: «Finiremo a 314». Come il 14 dicembre del 2011. «D’altronde è un numero aritmeticamente affascinante», insiste il deputato azzurro, «che ci rimanda alla perfezione del pi greco…».
Sarebbe un colpo da maestro, quasi degno della vecchia scuola democristiana. In fin dei conti, «Claudio» dovrebbe spostare le sue pedine come se si muovessero «a sua insaputa». È Scajola stesso, infatti, a far filtrare la notizia di aver convinto il “falco” Roberto Antonione, «che voleva votare contro la fiducia, a esprimersi a favore». Però, nella sua corrente, i nomi dei fab five che potrebbero portare il Cavaliere dai 319 voti assicurati ai 314 previsti (321 è il totale, che scende a 318 con gli infortunati Porfidia e Franzoso, e il carcerato Papa) circolano. A cominciare da Giustina Destro, per continuare con Fabio Gava, entrambi veneti. E poi Paolo Russo e Pietro Testoni. Più il classico «mister X», dietro cui si potrebbe celare chiunque.
Perché è tutto un gioco a chi mette più paura al prossimo suo. Tutto un cercare le risposte più disparate alla più classica delle domande: per conservare il seggio conviene tenere in vita il governo? Franco Frattini, appoggiato a una colonna del Transatlantico, si sbilancia con qualche collega: «Gli scajoliani stanno tradendo Scajola. Almeno sei di loro, tra cui Abbrignani e Cicu, hanno trattato la ricandidatura con Verdini». Verità? Menzogna? Chissà. Di certo c’è che in serata, sia Pier Ferdinando Casini che il finiano Carmelo Briguglio mandano in rete dichiarazioni degne del più oscuro dei presagi di Eschilo. «L’intenzione di Berlusconi è quella di andare a votare non ricandidando metà dei parlamentari che gli votano la fiducia: uomo avvisato, mezzo salvato. Se poi gliela votano lo stesso…». Oltre i puntini di sospensione dell’ex presidente della Camera c’è una semplice considerazione: «Non serve Einstein per capire che metà dei parlamentari del Pdl resterà a casa. Basta guardare i sondaggi: il premio di maggioranza non ci sarà». Un film che agli occhi dello scajoliano ignoto ha senz’altro la gradevolezza di un horror. Una pellicola a cui cui Denis Verdini prova a rispondere in serata, assicurando ai microfoni del Tg1 che «domani (oggi, ndr) allargheremo la maggioranza».
Il Palazzo si svuota prima del tramonto. Mentre Scajola e compagnia sono appena stati avvistati a piazza San Lorenzo in Lucina, colti sul fatto mentre siglavano un fantomatico «patto del the». «Avete mai visto Vite vendute con Yves Montand?», chiede Stracquadanio. «Era la storia di un alcuni lavoratori che guidavano camion carichi di dinamite. Erano persone impaurite, perché trasportare dinamite è pericoloso. Poi, però, ci si abitua a tutto. Solo che basta una buca e….». E bum. Anche se per la fine del film ci vuole ancora un po’. L’inizio dell’ultimo giro di boa potrebbe materializzarsi oggi, se il governo tornerà a casa con uno score inferiore a 315.
Paura e delirio a Montecitorio. Il premier furibondo: «Fanno tutti schifo». E Renato Farina, arrabbiato con Bossi, invoca «il pannolone».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 ottobre 2011)
Entra in Aula quasi di corsa, alle 17. Quando esce, una manciata di minuti dopo, Silvio Berlusconi borbotta tra i denti: «Che schifo. Fanno tutti schifo». Colposo, preterintezionale o voluto che sia, l’Incidente con la «I» maiuscola travolge l’esecutivo sull’articolo 1 del rendiconto del bilancio. Nell’unico precedente della storia della Repubblica, 13 aprile 1988, il governo Goria s’era dimesso.
Ventiré anni fa, per il governo sostenuto dal pentapartito (il vicepresidente del Consiglio era Giuliano Amato) la bocciatura sul bilancio aveva rappresentato l’imbocco di una strada senza ritorno. In quell’esecutivo, coi galloni di ministro dei Trasporti, c’era anche Lillo Mannino, uno degli assenti che ieri pomeriggio ha fissato il voto al «290 a 290» che ha comportato la bocciatura del provvedimento. Un dettaglio, in fondo, se si pensa che alla votazione non hanno partecipato né Giulio Tremonti, che stava sull’uscio dell’Aula. Né Umberto Bossi, che parlava con una giornalista nel cortile di Montecitorio. Né Claudio Scajola, che poche ore prima aveva incontrato Berlusconi e Alfano avanzando ufficialmente la richiesta «di fare il vicesegretario del Pdl» (per sé), un pacchetto di ricandidature assicurate (per i suoi), più «la discontinuità» (magari con Gianni Letta premier).
Non è la sfortuna animata da quel numeretto (il 17) che coincide con l’orario della votazione. Il governo Berlusconi cade in un autentico trappolone. Marcano visita i veterodemocristiani Giuseppe Cossiga e Piero Testoni. Non ci sono i responsabili Francesco Pionati, Pippo Gianni, Paolo Guzzanti, Americo Porfidia e Mimmo Scilipoti.
Ma sono le assenze dei ministri a mandare su tutte le furie il Cavaliere. Manca Tremonti, che sta a pochi metri dalla pulsantiera. Manca Bossi, nelle stesse condizioni. «Che schifo. Fanno tutti schifo», ripete il premier tra i denti. I fotogrammi successivi alla votazione sono scene di autentico panico. Panico e rabbia. Rabbia e panico. Il giornalista-deputato Renato Farina, che si fionda in Transatlantico dopo aver notato l’assenza del Senatur, agita le braccia. E dice testualmente: «Gliel’ho detto a Rosi Mauro che a Bossi deve mettergli il pannolone». Esattamente così. Non una parola di più, non una di meno. A pochi metri da lui, il Pd si complimenta con il segretario d’Aula Roberto Giachetti, che aveva “nascosto” un paio dei deputati democratici (salvo farli rientrare all’ultimo) per far credere alla maggioranza di avere la votazione in pugno. «Mi aspetto che Berlusconi vada al Quirinale», dice Bersani. «Le dimissioni sono un atto dovuto», aggiunge Franceschini. Veltroni è fuori di sé dalla gioia: «Che vi avevo detto? Eccolo, l’Incidente. Significa che abbiamo fatto bene a insistere sul governo istituzionale».
La caduta è a dir poco rovinosa. E che sia la peggiore dall’inizio della legislatura lo dimostra l’autorevole voce che arriva in serata dal fortino del Pdl. Poche parole, soprattutto una: «dimissioni». Adesso, è il leimotiv che qualche big berlusconiano ammette a denti stretti, «Napolitano potrebbe far sapere al governo che deve lasciare». Perché? Semplice. Dal punto di vista politico, un governo “normale” non può non dimettersi di fronte alla bocciatura del rendiconto, che è un disegno di legge governativo che spiega come sono stati utilizzati i fondi pubblici. Dal punto di vista tecnico, mettere una pezza sarà complicato. Perché il governo, in ogni caso, dovrebbe tornare al Senato per rivotare l’articolo 1 bocciato dalla Montecitorio. «È un fatto senza precedenti», scandisce Gianfranco Fini dallo scranno più alto dell’Aula. Rispetto al quale, gli scenari elaborati dalla maggioranza si moltiplicano come schegge impazzite.
Una parte del Pdl, a cui dà voce Ignazio La Russa, sa che adesso c’è «l’ostacolo del Quirinale da aggirare». Di conseguenza, l’unico modo per porre rimedio è “provocare” un bis del 14 dicembre dell’anno scorso. «Non sottovaluto la gravità tecnica del voto. Ma non possono derivare le dimissioni chieste dall’opposizione», premette il ministro della Difesa. Che però aggiunge: «Credo sia corretto dimostrare subito con un voto di fiducia se il governo c’è o non c’è. Se c’è, allora si dimostrerà che quello delle opposizioni è abbaiare alla luna. Se la fiducia non c’è, le conseguenze politiche sono inevitabili».
È quello che nel poker è l’all in. Tutta la posta sul tavolo. Se si vince, si resta in campo. Altrimenti, partita chiusa. Ma, in questo caso, è impossibile fare i conti senza la fronda di Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo Economico, che aveva incontrato Berlusconi e Alfano prima del voto sul bilancio, presenta al premier e al segretario del Pdl la richiesta di «discontinuità». Però, stando all’autorevole tam tam della prima cerchia di dirigenti berlusconiani, l’ex democristiano tira fuori dal mazzo un’altra carta: «Voglio fare il vicesegretario del partito». L’incontro, a dispetto delle annotazioni di Denis Verdini («È andato bene, la sconfitta alla Camera è stata solo una casualità), non va benissimo. Soprattutto perché i deputati vicini ad Alfano, in serata, ammettono: «Sicuramente riconosceremo a Claudio un ruolo politico anche dentro il partito. Di certo non avrà tutto quello che chiede».
Una lettura, questa, che dà adito alla teoria dell’incidente preterintenzionale. Della serie, «volevano semplicemente dare un segnale, invece ci hanno portato oltre il baratro». Ma nel variopinto bouquet di richieste che «Claudio» avrebbe posto all’attenzione di «Silvio» ci sono anche altre ipotesi. Compreso quello di «un governo diverso, guidato da Gianni Letta, con la maggioranza allargata». Nel frattempo, quando (come anticipato dal Riformista di ieri) lo slittamento sine die della legge bavaglio diventa ufficiale, Berlusconi e il suo stato maggiore si infilano dentro l’ennesimo vertice. Decisivo, come saranno i giorni a venire. All’esperienza di uscire dalla Camera con il bilancio respinto, il governo Goria aveva risposto con le dimissioni. Tredici aprile 1988. Ventitré anni fa. Anzi, qualcosa in più.
Stravolgimento o slittamento: il «bavaglio» sta per uscire di scena.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’11 ottobre 2011)
Nella stanza dei bottoni del Pdl stanno pensando all’ennesimo dietrofront sulle intercettazioni. Visto che quando il Riformista va in stampa l’incontro tra Silvio Berlusconi e Angelino Alfano è ancora in corso, è impossibile stabilire se i boatos che arrivano da Montecitorio troveranno conferma. Di certo c’è che da ieri pomeriggio, nelle stanze del gruppo del Pdl, la «legge bavaglio» non è più considerata «irrinunciabile». Che cosa potrebbe succedere domattina, quando nel calendario dell’Aula della Camera è prevista l’approvazione della norma sulle intercettazioni? Un berlusconiano della prima cerchia, al riparo da microfoni e sguardi discreti, ammette che «forse non ci sono le condizioni per andare avanti». Di conseguenza la soluzione, magari benedetta dal Cavaliere, «potrebbe essere quella di “ammorbidire” il provvedimento, provando in extremis ad andare nella direzione del Terzo Polo». Oppure, «di congelarlo, rinviandolo per l’ennesima volta a tempi migliori».
I movimenti di Claudio Scajola, le tensioni all’interno di una maggioranza in cui scricchiola anche la “gamba” dei Responsabili, le perplessità sul provvedimento di pezzi significativi del mondo berlusconiano: nelle ultime quarantott’ore il Cavaliere ha capito che il gioco non vale la candela. Anche perché i pericoli che s’annidano dietro il voto di domani sono troppo alti. E rischiano di travolgere l’intero esecutivo. Lo spin doctor dell’Udc Roberto Rao, che ha seguito da vicino l’iter della “legge bavaglio”, mette in fila tutti i tasselli del puzzle: «Al punto in cui sono arrivati, non hanno tante strade da percorrere. Hanno ancora il tempo per fermare il provvedimento. Oppure possono ingranare la retromarcia per ritornare al testo Bongiorno», che ovviamente non prevedeva il carcere per i giornalisti. E se invece la maggioranza decidesse di andare avanti nella versione «bavaglio» della legge, magari mettendo la fiducia? Il braccio destro di Pier Ferdinando Casini non nasconde un sorrisetto velenoso: «Ovviamente il governo otterrebbe la fiducia. Ma che cosa succederebbe se, nel voto segreto sul provvedimento, la maggioranza andasse sotto? Non credo che in quel caso, un minuto dopo, potrebbero fare finta di niente…».
Non è tutto. La retromarcia sulle intercettazioni potrebbe servire anche a ricucire lo strappo con la truppa di Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che nelle prossime ore incontrerà Angelino Alfano, l’aveva confidato già sabato: «Una legge sulle intercettazioni serve. Ma sono sicuro che il testo di cui stanno parlando i giornali non sarà quello definitivo». In questo caso, il ritorno a una versione soft del provvedimento potrebbe servire agli scajoliani come «scusa» per rientrare – seppur momentaneamente – nei ranghi. A prendere per buona la lettura del ministro Gianfranco Rotondi, che sabato sera in un ristorante di Saint-Vincent commentava con amici e colleghi la partecipazione dell’«amico Claudio» al suo convegno, «la vicenda di Scajola potrebbe anche risolversi facilmente. Basta garantirgli la rielezione dei suoi e farlo tornare ai vertici del partito, magari con la carica di vicesegretario». Se il pronostico del democristiano Rotondi fosse azzeccato, allora la rinuncia al «bavaglio» avrebbe anche un altro significato. Quello, ragiona un berlusconiano che forse pecca di eccessivo ottimismo, di «dare al buon Claudio la chance per motivare il ritorno sui suoi passi».
A prescindere da Scajola, che ha congelato l’offensiva del frondisti (l’ex ministro ha scritto una lettera al premier per spiegare le ragioni dei malpancisti), senza un «cambio di passo» prima di domani il Vietnam parlamentare è assicurato. «Il voto finale sul provvedimento non è scontato», spiega il deputato dei Responsabili Domenico Grassano. «Anche perché nell’accordo con Berlusconi non c’era il ddl intercettazioni e soprattutto non c’erano alcune proposte insensate come l’arresto per i giornalisti». Identico il canovaccio recitato da Luciano Sardelli: «Va trovato un punto di mediazione e di sintesi che allarghi e riarticoli il centrodestra. Il carcere ai giornalisti? Ma non esiste…».
Il countdown è partito. L’Aula di Montecitorio potrebbe trasformarsi per l’ennesima volta in un bunker con ostacoli disseminati per ogni dove. E la voce che arriva dal gruppo del Pdl, la stessa che evoca il colpo di scena prima del voto, tocca sempre la stessa corda: «Forse non ci sono le condizioni per andare avanti. Neanche stavolta…». Il Cavaliere continua a resistere. Anche se il ministro Rotondi, nel fine settimana, ha lanciato la sua amara profezia: «Quando sarà l’ora, di noi non si salverà più nessuno. Cadremo tutti appresso a Berlusconi. Per chi ha fatto il ministro in questo governo, non ci saranno altre possibilità. Nemmeno per Tremonti».
Pingitore story. «Vi racconto il Bagaglino, da Gabriella Ferri a Berlusconi»
di Tommaso Labate (dal Riformista del primo ottobre 2011)
Non ha la voce triste. Forse un po’ stanca, quello sì. Ed è la stanchezza di chi sta facendo calare il sipario su una fragorosa risata durata mezzo secolo. E quando sottolinea che «in televisione i miei spettacoli facevano il 40, e a volte anche il 45» – omettendo come tutti quelli “del settore” di specificare «per cento» – in fondo vuole dire che di 100 italiani che stavano incollati davanti al tubo catodico, 40 («e a volte anche 45») erano tutti per il Bagaglino. «Oggi sei considerato un fenomeno se riesci ad arrivare al 16. La televisione vittima dei format è la morte dell’intelligenza. Tutti comprano la prima cosa che arriva dall’estero, nessuno inventa più nulla». Pier Francesco Pingitore, che gli amici hanno sempre chiamato «Ninni», nato a Catanzaro addì 27 settembre 1934, è la voce fuori campo di un film che comincia dalla parola «fine». E che, nel fotogramma successivo, mostra quattro giornalisti chiusi in uno scantinato nella Roma dell’autunno 1965.
«Non ho alcun rimpianto. Tutto quello che volevo fare l’ho fatto. E questa grande storia che è stata il Bagaglino s’è conclusa dopo quarantasei anni», scandisce. E subito dopo, quasi a rimarcare un record di longevità che farebbe impallidire anche Silvio Berlusconi, «me lo dica lei: chi riesce a stare sulla scena per quasi mezzo secolo?». La direzione del Salone Margherita, il teatro nel cuore di Roma che ha ospitato la compagnia di Pingitore fino alla stagione scorsa, ha deciso di chiudergli le porte. «E pensare che anche l’ultima produzione teatrale era finita con un attivo», spiega con una punta di rammarico. La fine di una grande storia. Grandi cosce, grandi tette, grandi culi, grandi risate, grande pubblico. «Da qui sono passati tutti. Una sera telefonarono dall’ambasciata americana perché Jackie Kennedy voleva venire. La segretaria rispose che non c’era posto», ha ricordato l’altro giorno in una battuta affidata al Messaggero. A corollario di un racconto di successo che inizia nel 1965.
LA CANTINA A VICOLO CAMPANELLA. Aldo Moro guida il governo di centrosinistra che evita il collasso dell’economia annunciato da più parti. Pochi mesi prima, a luglio, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat ha tagliato insieme a Charles De Gaulle il nastro inaugurale del Traforo del Monte Bianco. A settembre, quando dall’altra parte del Tevere è cominciata l’ultima fase del Concilio Vaticano secondo, quattro giornalisti affittano una cantina a vicolo Campanella. «Stavamo a due passi da via di Panico. Castel Sant’Angelo sta praticamente di fronte», racconta Pingitore, che all’epoca ha trentun’anni e vive a Roma da ventinove («La mia famiglia aveva lasciato Catanzaro per la Capitale quando avevo due anni»). «Ninni» era redattore capo al settimanale Lo Specchio, Mario Castellacci lavorava al Giornale radio della Rai, Luciano Cirri al Borghese e «poi c’era Piero Palumbo». «Ci mettemmo a scrivere testi un po’ per gioco. Convinti che, al massimo, sarebbero venuti a vederci giusto gli amici». E così, nell’autunno del 1965, nasce – in onore di Anton Giulio Bragaglia – la compagnia del Bragaglino, che poi corresse il nome a causa di un’ingiunzione degli eredi dell’artista che era scomparso cinque anni prima. «Eravamo anarchici di destra», spiega Pingitore. «Diciamo pure che era il nostro modo di marcare le distanze rispetto all’egemonia culturale della sinistra, che in parte dura ancora oggi». Nessuna critica di metodo al Pci. Anzi. «I comunisti, che secondo la definizione di Ruggero Zangrandi avevano portato con loro gli intellettuali del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, fecero un’operazione intelligente. Noi, però, stavamo fuori. Non volevamo essere embedded. Per questo ci definivamo anarchici di destra». Tra i primi artisti che entrano nella compagnia ci sono Oreste Lionello, Pino Caruso, Tony Cucchiara, Nelly Fioramonti. E soprattutto lei, Gabriella Ferri. Il primo spettacolo, che viene messo in scena nel novembre 1965, si chiama I tabù. «Il primo tempo era fatto di sketch, il secondo di canzoni». Otto anni dopo, e siamo nel 1973, Dove sta Zazà diventa il primo spettacolo del Bagaglino che viene trasmesso in diretta dalla Rai. Regia di Antonello Falqui. L’anno prima, la compagnia s’era trasferita al Salone Margherita, a due passi da piazza di Spagna.
DOVE STA ZAZA’. «La star era lei, Gabriella Ferri. Negli anni precedenti aveva raggiunto un grande successo, anche all’estero», racconta Pingitore. Dove sta Zazá? / Uh, Madonna mia / Come fa Zazá / senza Isaia? La censura? «C’era un grande controllo sul prodotto, ovviamente. Ma non abbiamo quasi mai avuto problemi. Portavamo in scena il cabaret evitando la politica spicciola e affrontando, semmai, temi generali». Era la Rai di Ettore Bernabei. «Un’azienda tollerante, aperta». E la destra? E la sinistra? Diccì-piccì? «Satira, satira, satira», spiega. «Ci siamo sempre ispirati alla definizione di Orazio: dire la verità sorridendo. Tutto qua». Tanto bastava per andare d’accordo, anche tra di loro. «Ho sempre lavorato indifferentemente con artisti che stavano a destra e sinistra. Pensate alla grande differenza di idee che avevano Oreste Lionello (destra, ndr) e Leo Gullotta (sinistra, ndr)». D’altronde, era più a sinistra anche la sua prima vera «star», la Ferri.
CELLULOIDE. Chiusa la stagione televisiva di Dove sta Zazà, il Bagaglino continua ad animare le stagioni del Salone Margherita. E al teatro si aggiunge anche il cinema. Pingitore firma la regia di Romolo e Remolo (1976) una trentina di anni prima che la battuta venga sdoganata dal celeberrimo lapsus di Berlusconi. Poi una serie di titoli che, molto banalmente, parlano da soli. Scherzi da prete (1978), Tutti a squola (1979), Gian Burrasca (1982), Attenti a quei P2 (1982). Nel 1984 «Ninni» collabora alla stesura dei dialoghi dell’Allenatore nel pallone, la pellicola di quell’Oronzo Canà interpretato da Lino Banfi che oggi viene considerata un oggetto di culto. L’anno successivo firma (insieme al regista Sergio Martino) la sceneggiatura di Mezzo destro, mezzo sinistro, strampalata storia di una squadra di calcio (la Marchigiana) allenata da un sergente di ferro (Leo Gullotta) e con un bomber d’eccezione (Andrea Roncato). Poi arriva la svolta. Sul piccolo schermo.
IL BOOM DI BIBERON. Alla fine degli anni Ottanta arriva Biberon. Martedì, prima serata, Rai uno. «Con Biberon siamo di fronte a una truffa vera e propria ai danni dell’intelligenza degli italiani», scrive Il Mondo. «La satira di Pingitore si limita a qualche innocuo moto di stizza pantofolaia, che termina in un ossequioso inchino al cospetto del potere», annota Il Sole 24 ore. «L’incontro settimanale fra i politici e il pubblico di Biberon finisce sempre a tarallucci e vino», aggiunge Beniamino Placido su Repubblica. Giustificate o meno che fossero le critiche, spiega Pingitore, «da lì conquistiamo un posto al sole». La coppia Oreste Lionello-Pippo Franco, con Leo Gullotta trequartista, sbanca l’audience. Poi, nel 1993, quando l’economista Claudio Demattè diventa il presidente della Rai «dei professori», il Bagaglino finisce in naftalina. «Volevano dare alla tv di Stato una svolta, se non moralistica, quantomeno moralizzatrice», ricorda Pingitore. «Fu un periodo poco bello, anche perché per alcuni mesi finimmo “tra color che son sospesi”». Come andò a finire? «Senza il Bagaglino in palinsesto, la Rai si trovò un buco nella raccolta pubblicitaria. I “professori” ci richiamarono e anche Demattè, col quale poi ho avuto un ottimo rapporto, si ricredette. La verità è che aveva giudicato il nostro prodotto senza mai averlo visto. Infatti, quando venne a vederci, lo spettacolo gli piacque». L’anno prima, nel 1992, durante una puntata di Crème caramel e di fronte a dieci milioni e mezzo di italiani, Giulio Andreotti era salito sul palco del Salone Margherita. Il «Divo», all’apice della sua carriera, era la stessa persona che una quindicina di anni dopo, nel 2006, avrebbe annunciato a pochi giorni dalle elezioni: «Voto per Pippo Franco», candidato al Senato con la piccola e nuova Dc di Rotondi.
L’INCONTRO COL CAV. Nel 1995, il Bagaglino si trasferisce a Mediaset. «Incontrai Silvio Berlusconi, ci chiese di andare da loro e io accettai», dice Pingitore. «Persona simpatica, si vedeva che era un grande imprenditore e che conosceva benissimo la televisione», aggiunge. Da lì la sfilza di prodotti by Bagaglino che attraversano la Seconda Repubblica. Da Champagne (1995) a Bellissima – Cabaret anticrisi (2009), passando per Bucce di banana, Marameo, Miconsenta e amenità varie. Escono dall’anonimato le forme di Pamela Prati e quelle di Valeria Marini, Lorenza Mario e Milena Miconi, e poi Ramona Badescu, Eva Grimaldi, Nathalie Caldonazzo, Matilde Brandi, Aida Yespica. Il tempo dei giudizi sull’efficacia della satira (i politici sono «più divertiti che feriti dalla graffiature», scriverà Aldo Grasso) è passato. «Non abbiamo mai avuto pressioni né da destra né da sinistra. E non sto certo qui a fare il martire, dopo tanti anni», spiega Pingitore. «Da noi sono venuti in tanti e di tutti i partiti: da Andreotti a Di Pietro, da La Russa a Pecoraro Scanio, da Gasparri a Vladmir Luxuria».
BAGAGLINO NOIR. Dalla cronaca alla storia. Dal film ai titoli di coda. E pensare che, in cinquant’anni di risate, nella grande storia del Bagaglino c’è anche un segretissimo capitolo noir. Con una parte all’apparenza molto seria e una ai limiti del paranormale. La parte seria riguarda un articolo firmato nel 1966, ripescato nel 1998 dal giornalista Paolo Cucchiarelli per il settimanale Diario, in cui Pingitore svelava i movimenti della scorta di Aldo Moro molto prima dell’agguato di via Fani. La parte comica, invece, rimanda alla leggenda metropolitana (alimentata dall’avvento di Internet) sul fantomatico omicidio di Pippo Franco, avvenuto all’inizio degli anni Ottanta per mano di un agricoltore che aveva sorpreso il comico sul suo terreno. Stando alla storiella, un po’ la versione capitolina dei coccodrilli che animano la fauna delle fogne newyorkesi, la Rai avrebbe indetto un concorso segreto per sostituire Pippo Franco con un sosia, lo stesso che si vede anche oggi (spesso a braccetto del suo amico onorevole Mimmo Scilipoti). Acqua passata. Titoli di coda. E una voce narrante, che chiude il cerchio. Quella di Pingitore. La tivvù di oggi? «Io facevo il 40 di share, a volte il 45. Oggi se fai il 16 sei considerato un fenomeno. I programmi li fanno acquistando format dall’estero. La morte dell’intelligenza. Le serie televisive sono tutte uguali: siamo al trecentesimo ospedale, al quattrocentesimo commissariato di polizia… Mi annoiano anche il talk show politici: salotti in cui si litiga senza che ci sia mai la possibilità di ascoltare un discorso serio. Non c’è rispetto per il pubblico e gli spettatori vengono trattati come cretini. Per questo faccio zapping. E vedo tutto, senza guardare nulla». L’ultima cosa bella che ha visto sul piccolo schermo? «L’altra sera hanno rimandato I soliti ignoti…». Regia di Mario Monicelli, bianco e nero, Italia, 1958. Sette anni prima che quattro giornalisti affittassero una cantina a vicolo Campanella, nel cuore di Roma.
Tra un «codardo» e l’«amnistia!» arriva anche il «cornutazzo». E Romano chiude il suo d-day tra le braccia di Silvio.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 29 settembre 2011)
Finisce 315 a 294 per lui, anche perché i Radicali disertano il voto. Poi Saverio Romano raggiunge Berlusconi e dà un seguito ai versi che la sua corregionale Marcella Bella cantava in una vecchia hit: «Io e Silvio ci siamo abbracciati».
Tornerai / più importante che mai / E staremo abbracciati / tutto il tempo che vuoi, cantavano a due voci Marcella e Gianni Bella nel 1977. E Romano, subito dopo la votazione che lo mantiene in sella al governo nonostante sia accusato di reati di mafia: «Non vado a festeggiare. C’è da lavorare alle riforme».
Si sente, eccome se si sente, che «Saverio» s’è appena distolto dall’abbraccio col Cavaliere. «Io e Berlusconi ci siamo abbracciati», scandisce. «Abbiamo fatto i conti. 315 voti a favore, più gli assenti giustificati» ed eccola là, la cifra magica, «la maggioranza è di 325». Umberto Bossi lancia l’ennesimo messaggio a quella base leghista che più d’un indicatore dà per «inferocita». «Oggi è andata benissimo», spiega il Senatur lasciando seguire all’ingiustificato moto d’orgoglio (che di padano, almeno ieri, aveva ben poco) il mantra recitato nelle ultime settimane: «Non so se arriviamo al 2013». In fondo, è la stessa analisi che Gianfranco Fini, abbandonando la presidenza dell’Aula dopo l’ennesima fase concitata della seduta, affida ai suoi: «Vedo aria da campagna elettorale». La stessa, identica, di Pier Ferdinando Casini. Che, però, aggiunge a mo’ di postilla: «Stendiamo un velo pietoso su quello che sta succedendo oggi».
Oggi, e cioè ieri, Saverio Romano si presenta in Transatlantico in tempo per l’inizio della discussione. La scena, per qualche decina di minuti, lo vede solitario ai banchi del governo. Davanti a lui i deputati di Fli stendono il Pornostafo apparso sul Fatto quotidiano, una rivisitazione by Vauro del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Con tanto di nota a margine: Patonza da Volpedo. L’ora delle «parole forti» sarebbe scoccata subito dopo le 16, con l’inizio degli interventi.
Si sprecano i «cialtroni», compreso quello che Mimmo Scilipoti destina ai deputati dell’opposizione. Il primo «venduto» se lo becca Silvano Moffa, a cura dei suoi ex colleghi finiani. L’adesivo del «codardo», invece, finisce idealmente dietro la giacchetta di Bobo Maroni. Testualmente, dalla voce di Antonio Di Pietro: «Chiedo amareggiato al ministro Maroni, che si vanta di aver condotto una dura lotta alla mafia e oggi codardo fugge, perché non si presenta in Parlamento». Il titolare del Viminale si materializza a metà seduta e si fionda alla buvette per chiacchierare con Giulio Tremonti, mentre l’ultimo successore di Quintino Sella sorseggia soddisfatto un flute di prosecco con gli immancabili auricolari del telefonino posizionati su entrambe le orecchie. È la stessa persona, «Giulietto», che poco prima, incrociando per caso Gianni Alemanno alla Camera, l’aveva accolto con tanto di saluto romano.
«La parola» che in Aula tutti aspettano, profondissima spia di vergognoso disonore, la pronuncia il pdl Manlio Contento. Romano mafioso? «Macché. Un boss di mafia disse che è un cornutazzo». E tutti pensano all’indice e all’anulare di una mano a caso, all’inequivocabile gesto che il cinematografico Mimì Matallurgico (interpretato da Giancarlo Giannini) di Lina Wertmüller si vide opporre da una manica di mafiosi prima di emigrare al nord «ferito nell’onore».
A quel punto, però, l’autodifesa di Romano era già agli atti. «Quello che un tempo era l’ordine giudiziario ormai ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte», dice. E i giudici? «Il trono deve evitare di schiacciare il leone, però è sotto gli occhi di tutti che il leone oggi ha già una zampa sul trono». Esopo? No, «sir Francis Bacon».
Si viaggia verso il voto a scrutino palese. A un certo punto, gli altoparlanti dei monitor al plasma disseminati tra cortile e Transatlantico sembrano sul punto di esplodere. «Vogliamo l’amnistia!», si sgola la radicale Elisabetta Zamparutti. «Non partecipiamo al voto perché intendiamo esprimere la nostra sfiducia nei confronti di un’intera classe dirigente». E così, di fronte a un Pd mai così presente (manca solo Marianna Madia, che ha partorito da due giorni), i sei radicali si sfilano. Franceschini medita di espellerli dal gruppo. «Questi si cacciano senza se e senza ma», s’infervora Rosy Bindi. «Ricordiamoci che siamo in un partito “democratico” dove le decisioni si prendono democraticamente e non perché uno si alza e sceglie da solo», ribatte Roberto Giachetti, segretario d’Aula del gruppo Pd, che radicale è nato e cresciuto. 315 a 294, con il repubblicano Nucara che tiene fede alla promessa di votare a favore della sfiducia. Romano e il Cavaliere, in quel momento, erano nascosti chissà dove. Abbracciati.