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«Io non mollo». Il Cavaliere intravede la congiura.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 17 settembre 2011)
«Non bastava la gogna mediatica. Ora ci si mette anche Umberto». Ieri pomeriggio, quando lo avvertono delle dichiarazioni di Bossi da Paesana, le stesse in cui il Senatur auspica la fine anticipata della legislatura, Silvio Berlusconi sbotta: «Adesso intervengo io».
Per il premier è forse l’ora peggiore da quando è iniziata la sua avventura politica. L’ora che scocca nei giorni in cui le sue conversazioni con due «piccoli calibri» che lo tenevano sotto scacco – Valter Lavitola e Gianpi Tarantini – rischiano di demolirne definitivamente l’immagine. Ed è l’ora in cui non c’è soltanto «un nemico» (interno) contro cui concentrare i propri sforzi, com’è stato nei tempi più recenti con Gianfranco Fini (prima) e con Giulio Tremonti (poi). No. Le voci che arrivano da Palazzo Grazioli, la residenza romana che il Cavaliere abbandona in serata per tornare ad Arcore, descrivono un presidente del Consiglio che adesso vede nemici disseminati per tutto il perimetro della maggioranza. Pdl compreso. Nelle ultime settimane l’hanno sentito lamentarsi a più riprese di Roberto Formigoni e Renata Polverini, di Gianni Alemanno e Bobo Maroni. Adesso, tra i suoi fedelissimi, più d’uno è pronto a giurare che «il presidente» non si fida più di nessuno. E che «proprio per questo passerà al contrattacco».
La sorpresa più amara della giornata, ancor più difficile da digerire dei verbali di Bari finiti sui giornali («Me l’aspettavo»), sono le frasi che Umberto Bossi pronuncia da Paesana, provincia di Cuneo. Il Senatur concede all’alleato di una vita giusto un mezzo assist, opponendo il gesto delle corna ai sindaci che contestano la manovra e scagliandosi contro le intercettazioni. Tutto qua. Il resto sono cannonate al quartier generale. «Il governo per adesso va avanti. Fino al 2013? Mi sembra troppo lontano», scandisce dalle sorgenti del Po. Quindi, rilancia la «Padania come alternativa all’Italia», difende la moglie dall’articolo di Panorama («Sono degli stronzi»), attacca frontalmente Brunetta («Renato detto il “nano di Venezia” non capisce un cazzo») e, come a chiudere il cerchio, benedice la futura leadership del figlio Renzo e incorona Roberto Calderoli «mio braccio destro». Sono mosse che, nell’inner circle berlusconiano, vengono considerate oltre il limite della «follia». Comprese le ultime due. Che, a sentire quel che si mormora ai piani alti del Pdl, «provocheranno più danni che altro, visto che rafforzeranno la popolarità nel Carroccio di Maroni, uno che ormai si muove platealmente contro di noi».
Il bombardamento mediatico, ovviamente, non si arresterà. Né si può trascurare che l’agenda dei lavori del Parlamento è un calvario disseminato di appuntamenti che possono far implodere la maggioranza (c’è il voto sull’arresto di Marco Milanese e, a seguire, la mozione di sfiducia contro il ministro Saverio Romano). «No, non starò più fermo», ha detto ieri Berlusconi ai suoi. Da quella frase all’elaborazione di un vero e proprio piano d’azione il passo è stato brevissimo. Per tentate di dimostrare di essere ancora saldamente in sella alla guida del governo, prima il premier ha ricevuto Fabrizio Saccomanni, il direttore generale di Bankitalia che si appresta a prendere il posto di Mario Draghi (il candidato tremontiano Vittorio Grilli sembra ormai fuori gioco). Quindi ha rivoluzionato la sua agenda della settimana prossima, rinunciando alla trasferta newyorkese all’Onu per presentarsi all’udienza del processo Mills in programma lunedì a Milano. Gli spin doctor del Cavaliere la mettono così: «Adesso sarà più difficile sostenere che il Presidente fugge dai magistrati…». Potrebbe finire con il solito “comizio”. E, addirittura, il premier potrebbe arrivare a riconsiderare l’ipotesi di rispondere alla chiamata dei pm di Napoli.
Non è tutto. Se «l’uomo» teme di venire travolto dall’ondata delle carte baresi che finirà sui giornali di oggi, il «politico» s’è praticamente convinto che sta per arrivare «una manovra di Palazzo per farmi fuori». Da qui il messaggio dal bunker, che Berlusconi ha affidato alle colonne del quotidiano diretto da Giuliano Ferrara. «Caro direttore, io non mollo», scrive il premier in una lettera che il Foglio ha anticipato ieri sera. Una lettera in cui il Cavaliere nega di «aver mai fatto cose di cui vergognarmi», in cui parla di un «trappolone» per giustificare la decisione (non definitiva) di testimoniare a Napoli, in cui evoca il golpe di chi vuole «scardinare il funzionamento delle istituzioni». In mattinata, al premier era venuto in mente di convocare una conferenza stampa per rispondere alle domande sulle inchieste di Bari e Napoli. Poi gli inviti alla prudenza di Gianni Letta e Paolo Bonaiuti hanno prevalso sui desiderata del «capo». Che ha concluso la lettera al Foglio con tre messaggi ai presunti congiurati, che ancora non hanno un volto. «Le elezioni ci saranno nel 2013». «C’è una maggioranza di italiani che non è disponibile ad avventure e a nuovi ribaltoni decisi nei salotti». E, soprattutto, «io non mollo».
“Sembra che facciano la gara contro di me”. Il premier incassa l’ultima doccia gelata della Lega
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Ha passato una giornata intera a rilasciare interviste, il Cavaliere. Alla partenopea Radio Kiss Kiss ha annunciato l’intenzione di stoppare gli abbattimenti delle case abusive. Al Gr1 ha giurato che non punta al Colle. Al Tg5, invece, ha raccontato che l’asticella per considerare le elezioni «un successo» è «strappare una grande città» alla sinistra. Il tutto (anche) per nascondere l’ennesima doccia gelata che ieri è arrivata dal Carroccio.
Nella ristrettissima cerchia delCavaliere hanno il problema di «evitare una rissa interna» a poche ore dall’apertura dei seggi. D’altronde, è quella stessa «rissa» che il premier ha cercato di scongiurare in mille modi, arrivando persino a negare il sostegno telefonico al candidato sindaco delPdl di Gallarate (che, tra l’altro, fa Bossi di cognome) «solo per evitare di urtare la suscettibilità di Umberto, che passa là giornate intere per lanciare la volata alla sua Giovanna Bianchi Clerici».
Ma la misura, per chi conosce bene gli sbalzi d’umore del presidente del Consiglio, è praticamente colma. Soprattutto da quando, ieri, Roberto Calderoli s’è preso la briga di annunciare il rinvio di una settimana del raduno leghista di Pontida, spostato al 19 giugno per consentire a Umberto Bossi di fare «un annuncio epocale».
La «svolta» che ha in mente il Senatur, per il quale sarà necessario un passaggio in Cassazione, riguarda una proposta di legge di iniziativa popolare per il decentramento di alcuni ministeri. «Pensate a quanto il responsabile Saverio Romano sarebbe contento di fare le valigie e spostarsi con tutto il suo dicastero qui a Milano», scherza un autorevole esponente del Carroccio.
La voglia di scherzare, dalle parti del premier, non c’è più. E non tanto perché il decentramento dei ministeri sarebbe una prospettiva talmente lontana da rendere inimmaginabile un parallelo con l’attuale compagine di governo. Quanto perché «Silvio» ha ormai capito che l’alleanza con la Lega – e con essa la maggioranza parlamentare che sostiene il governo – è ormai appesa a un filo. Senza la vittoria di Milano, l’esecutivo è a rischio. E, come nella war room berlusconiana hanno ormai capito, un eventuale successo di Lettieri a Napoli – paradossalmente – finirebbe solo per complicare le cose. «Ve l’immaginate il premier vincente grazie ai voti di Cosentino e sconfitto a casa sua? Pensate a questa scena e provate a capire come potrebbe prenderla l’elettorato della Lega», riflette l’autorevole fonte del Carroccio di cui sopra.
A quarantott’ore dall’apertura dei seggi, i margini di manovra sono ridotti al minimo. Berlusconiha alzato l’asticella
dello scontro milanese dando man forte alle accuse della Moratti a Pisapia? Il leghista Matteo Salvini, esponente di spicco del Carroccio meneghino (tra l’altro “papabile” per la poltrona di vicesindaco) s’è presentato ai microfoni di Un giorno da pecora per “infilzarla”: «Su Pisapia la Moratti è stata bugiarda». Berlusconi annuncia lo stop alla demolizione delle case abusive a Napoli? «Il premier dovrà parlarne con la Lega. Personalmente, indipendentemente da dove siano collocati gli immobili, sono contrario a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive», ha replicato a stretto giro Roberto Calderoli.
Sono due segnali di quanto nel retropalco ci sia rimasto ben poco. Ormai è tutto sotto gli occhi della platea: Berlusconi e la Lega marciano su due binari separati. «A volte sembra quasi che la campagna elettorale la stiano facendo contro di me», ha confidato mercoledì il Cavaliere riferendosi ai continui “smarcamenti” del Carroccio rispetto alla “linea”del centrodestra. La giornata di ieri gli ha dato ragione. Al punto che, nel giro dei berluscones milanesi, si sta addirittura arrivando a sospettare un boicottaggio elettorale ai danni della Moratti. «E se i militanti della Lega non andassero alle urne?», riflette a voce alta un big del Pdl lombardo.
È il segno che, da lunedì, si va in mare aperto. Pubblicamente il presidente del Consiglio continua a ripetere, come ha fatto ieri intervenendo telefonicamente a un’iniziativadel candidato torinese Michele Coppola, che «abbiamo alla Camera una nuova maggioranza coesa, che ci permetterà di fare quello che non abbiamo potuto fare finora per lo statalismo di Fini e Casini». Ma lontano da microfoni e taccuini, il premier ha un’altra verità: «Se non vinciamo Milano, questi faranno cadere il governo a Pontida». D’altronde, l’intervento con cui Bossi ha concluso la giornata politica di ieri dà forza ai più oscuri presagi dei berluscones. «Bisogna parlare di programmi e non di quello che ruba la macchine», ha scandito il Senatur a Gallarate, stroncandola Moratti. E aggiungendo, come se non fosse stato sufficientemente chiaro in precedenza, che«se non servono a guadagnare voti, meglio non farle certe mossi. Se si comincia a tirar fuori cose personali non si finisce più».
Tremonti successore? Il bluff di Silvio per rompere la pax leghista.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 maggio 2011)
Il bacio della morte (politica, naturalmente) sulle guance di «Giulio». E un modo per tentare di rompere il recente armistizio sottoscritto tra le «fazioni» in guerra all’interno del Carroccio.
Due obiettivi con un solo colpo. È quello che Silvio Berlusconi “spara” di fronte alle telecamere di Porta a porta quando ieri pomeriggio, a poche ore dall’approvazione della mozione della maggioranza sulla Libia, indica per la prima volta come “delfino” il suo più acerrimo nemico interno: Giulio Tremonti. «Se per il centrodestra sarà necessario che io mi ricandidi alla guida del governo, non mi tirerò indietro», è la premessa. Ma «se invece verranno fuori altre personalità, e ne abbiamo diverse, Tremonti in primis, io sarei felice di lasciare ad altri la conduzione del governo».
Ovviamente si tratta di un bluff. Non foss’altro perché, quando lo indica in pole position nella linea di successione a se stesso, il presidente del Consiglio è in preda all’ennesima crisi di nervi causata, a suo dire, dall’ultimo successore di Quintino Sella. «Ma lo sapete», aveva raccontato in mattinata, che «Giulio ancora non s’è degnato neanche di farmi vedere la bozza del decreto sullo sviluppo che sarà approvata domani (oggi, ndr) dal consiglio dei ministri?».
Nella sua cerchia ristretta giurano che la mossa di “benedire” il rivale per la successione sia stata elaborata tempo fa per «sovraesporlo». Fosse solo questo, l’obiettivo sarebbe stato raggiunto in nemmeno mezz’ora. Basti pensare che le prime due reazioni alle parole di Berlusconi sull’incoronazione del superministro dell’Economia sono quelle dei suoi rivali diretti. Roberto Maroni mette a verbale che «Tremonti è un ottimo ministro e sarebbe un ottimo presidente del Consiglio». Angelino Alfano, che il Cavaliere aveva indicato come erede (in privato) salvo poi smentire (in pubblico), dice che «l’idea di Tremonti premier, se l’ha detta Berlusconi, è condivisibile».
Eppure, dietro la mossa di Berlusconi, c’è di più. Il Cavaliere sa che la stragrande maggioranza dei suoi tormenti delle ultime settimane – Libia compresa – derivano da un patto di non belligeranza sottoscritto dal gotha della Lega. E che la tregua imposta da Bossi nelle stanze di via Bellerio, che ha congelato le rivalità tra la fazione «Calderoli-Tremonti» e quella guidata da Roberto Maroni, era servita a ricompattare gli alti dirigenti del partito contro il premier.
Da qui la contromossa, che Berlusconi serve a freddo, poche ore dopo che l’Aula di Montecitorio ha fischiato la fine (momentanea) delle ostilità sulla Libia. Indicare «Giulio» alla succesione per riattizzare lo scontro interno alla Lega su chi deve stare in prima fila nel caso in cui le amministrative sanciscano la crisi della maggioranza. E spezzare quella trama bipartisan che tanto il ministro dell’Economia quanto il titolare dell’Interno stanno alimentando.
D’altronde, che Tremonti abbia contatti continui e costanti con i leader dell’opposizione (Fini compreso) non è un mistero per nessuno, men che meno per il premier. Quanto alla tela bipartisan di Maroni, basta citare che ieri il ministro dell’Interno ha ricevuto una delegazione del Pd (guidata da Walter Veltroni e Andrea Orlando) che gli aveva chiesto udienza dopo la valanga di arresti nel Pdl campano. Una mossa, questa, che ha innervosito i berluscones partenopei al punto tale che è dovuto intervenire il premier in persona per placarne i bollenti spiriti.
«Tremonti aizza la Lega», aveva titolato il Giornale? «E noi aizziamo Tremonti nella Lega», è la strategia del Cavaliere. È un gioco a carte scoperte. Come ha capito anche Bossi. «Berlusconi durerà a lungo. Tremonti? Io sono amico suo. Ma Silvio dice queste cose per allontanare il momento (dell’addio alla leadership) il più possibile», spiega il Senatur in serata. In tasca, però, il premier ha un’altra carta. Sapendo che l’eventuale esito negativo delle comunali di Milano potrebbe riaprire la crisi nella maggioranza, «Silvio» ha cominciato a sondare qualche malpancista del Carroccio. Non a caso, la corrente delle camicie verdi che puntano a confermare senza se e senza ma l’alleanza col Pdl è già nata. E ne fa parte, oltre ad alcuni bossiani del cerchio magico, anche Marco Reguzzoni. Proprio lui, l’uomo che aveva annunciato la «tregua» sulla Libia prima che l’accordo fosse raggiunto. L’uomo che adesso i vertici di via Bellerio vorrebbero spostare al governo (coi galloni di viceministro o sottosegretario) per lasciare la poltrona di capogruppo a un esponente più “affidabile”. Come il maroniano Stucchi, ad esempio.
La Lega anti-raid sparge veleno su Mario Draghi.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Sembra l’anticamera di una crisi di governo. Alle 19.34, quando Bossi dice all’Ansa che «dopo le dichiarazioni di Berlusconi Gheddafi ci riempirà di clandestini», la maggioranza – almeno sulla politica estera – di fatto non esiste più.
Pare la sconfessione dei teorici del «gioco delle parti», di quelli secondo cui al Cavaliere serviva che il Carroccio “coprisse” per il centrodestra anche il fronte anti-bombe. E sembra anche la piena smentita indirizzata a chi, come Ignazio La Russa, si presenta ai microfoni del Tg3 per negare l’ennesima «lite» che sta per scoppiare dentro la maggioranza.
Fin qui le ipotesi. L’unica certezza è che le poche parole che il Senatur affida all’Ansa nel tardo pomeriggio di ieri seppelliscono l’ottimismo di maniera con cui il presidente del Consiglio aveva risposto alle domande sulla tenuta della coalizione a ventiquattr’ore dall’annuncio dei bombardamenti italiani sulla Libia. «Con Bossi è tutto a posto», aveva replicato il premier passeggiando per le vie della Capitale poche ore dopo il vertice italo-francese. «Comprendo le perplessità leghiste», aveva aggiunto, ma «non è stata una decisione facile. Ieri sera ho parlato con Calderoli, Maroni e Bossi. E anche oggi ci risentiremo».
Fatica sprecata. Perché il leader della Lega, ancor prima di ricevere la seconda telefonata del premier sulla crisi libica, seppellisce la strategia bellica del governo. Con un uno-due devastante. «Dopo le dichiarazioni di Berlusconi, Gheddafi ci riempirà di clandestini». E uno. «Le guerre non si fanno e comunque non si annunciano così. Berlusconi ci dirà pure che Gheddafi ci riempie di clandestini, ma io dico che non sono d’accordo sui bombardamenti. Se gli americani vogliono bombardare, che lo facciano loro». E due. Tutto dalla viva voce del ministro delle Riforme.
E pensare che, fino all’intervento a gamba tesa del Senatur, sembra di stare di fronte al remake del film già visto all’inizio della crisi libica. C’è la decisione («Sono costretto», ha confidato il premier ai suoi) di intervenire attivamente nella missione, che Berlusconi mette nero su bianco smentendo se stesso. C’è la “copertura” dell’opposizione, da cui si smarca soltanto l’Italia dei valori. E anche l’intervento del Quirinale, con Giorgio Napolitano che spiega come «l’ulteriore impegno dell’Italia in Libia costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta a marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio supremo di difesa e confortata da ampio consenso in Parlamento». Ma in serata, dopo le parole di Bossi, nella cerchia ristretta del presidente del Consiglio l’allarme sale oltre il livello di guardia. Tanto è vero che gli sherpa di Palazzo Grazioli e di via Bellerio s’affrettano a far filtrare la notizia di un faccia a faccia tra «Silvio» e «Umberto» che avrà luogo prima del consiglio dei ministri di giovedì. Tra i più stretti consiglieri del premier c’è la certezza che «la situazione verrà ricomposta».
Ma il nervosismo sulle parole dell’alleato è alle stelle. Tanto che, nell’inner circle berlusconiano, c’è chi teme che il fuoco di fila leghista assomigli a «un avviso di sfratto». A questo punto della storia è necessario fare un passo indietro al giorno di Pasqua. Quando il Cavaliere, nella telefonata di auguri a Bossi, comincia a mettere il leader del Carroccio di fronte alla possibile svolta. «Umberto, neanche io vorrei bombardare», è il senso delle parole del premier. Ma, è il sottotesto, «siamo costretti a farlo. Con Gheddafi ancora in piedi, ci ritroveremo l’Italia sommersa dai clandestini». Sono parole che, al leader della Lega, non piacciono affatto. Anche perché, nel sancta sanctorum del Carroccio, qualcuno dei fedelissimi segnala al «capo» che la mossa rischia di sembrare «l’ennesimo asservimento alla strategia di Sarko». In fondo, è lo stesso meccanismo che porta i leghisti spargere veleno sull’ipotesi che dietro la «svolta sui raid ci sia anche il benestare che l’Eliseo darà a Mario Draghi per la corsa del numero uno di Bankitalia alla guida della Bce».
Veleni o non veleni, sui bombardamenti il Carroccio risponde come un sol uomo. Tolto il taciturno Roberto Maroni, che però da tempo manifesta perplessità sulla piega che sta prendendo l’affaire Libia, la Lega – come spiega Roberto Calderoli – «è contraria alla guerra e lo dirà in consiglio dei ministri». Una posizione che provoca la reazione stizzita di La Russa: «Calderoli? Ha informazioni incomplete».
L’unica certezza è che anche in questa partita Giulio Tremonti si muove dietro le quinte. Il ministro dell’Economia, che in un colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha smentito «i complotti» ma confermato la strategia rigorista, è il vero argine al decreto per il finanziamento della missione libica, che per adesso “regge” esclusivamente sul bilancio della Difesa. E si torna al via, come uno sfortunato lancio di dadi del Monopoli. A una maggioranza di «separati in casa» che, Gheddafi o non Gheddafi, si gioca la sopravvivenza alle elezioni di Milano.