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Silvio Grillo e Beppe Berlusconi. L’antipolitica di lotta è già stata al governo. Per dieci anni.

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di Tommaso Labate (dall’Unità del 28 aprile 2012)

L’esercizio, in fondo, è fin troppo semplice. Basta mettere l’uno accanto agli altri per scoprire come l’uno, Beppe Grillo, e gli altri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, assomigliano tanto alle classiche due facce di una stessa medaglia. Perché se c’è un punto in comune tra l’antipolitica e i partiti, quello è che la prima – al pari dei secondi – ha due facce. Una <di lotta>. E l’altra <di governo>. Perché è vero che esiste l’antipolitica di lotta, che ha la cadenza genovese di Grillo. Ma è altrettanto vero che l’Italia della Seconda Repubblica ha sperimentato almeno un decennio di antipolitica di governo. Quella segnata dal tandem Berlusconi-Bossi.

Tra il sostenere che <dobbiamo uscire dall’euro perché non possiamo più permettercelo>, come fa Grillo in questi giorni, e il mettere a verbale che <l’euro non ha convinto nessuno>, come ha scandito Silvio Berlusconi il 28 ottobre scorso, c’è una sola differenza. Il primo usa i toni ultimativi di chi sta fuori dal ring. Il secondo fa sfoggio della “moderazione” (sic!) di chi comunque si trovava a presiedere il governo di uno dei principali paesi dell’Eurozona.

Che sia di lotta o di governo, l’antipolitica si nutre di bersagli comuni. In questo caso, l’euro. Pazienza se la moneta unica è l’ultimo baluardo prima del baratro. C’è un popolo asserragliato dietro l’equazione “prima un panino costava mille lire, ora costa un euro”? Fine della storia, abbasso l’euro.

E così, <si può rimanere tranquillamente nell’Unione europea senza rinunciare alla propria moneta> come ha fatto la Gran Bretagna, sentenzia Grillo sul suo blog. Oppure, <l’euro è una moneta strana che non ha convinto nessuno, che è di per sé molto attaccabile, non è di
un solo paese ma di tanti paesi che non hanno un governo unitario> et voilà, signore e signori, <ecco perché c’è un attacco della speculazione>, come diceva Silvio Berlusconi al crepuscolo della sua permanenza a Palazzo Chigi. Antipolitica di lotta. Antipolitica di governo. Due facce che trovano un diabolico punto in comune quando nel teorema viene inserita la variabile Lega Nord, che è riuscita nel corso degli anni a fornire una formidabile sintesi di come si possa essere – contemporaneamente –  politica e antipolitica, di lotta e di
governo. Basta poco, no? Nell’ordine, è sufficiente promettere meno stato e meno tasse, come faceva il Bossi prima maniera. E se poi ti trovi per dieci anni a sostenere un governo che finisce per seguire la strada uguale e contraria – più tasse e più Stato – ci si può sempre purificare con l’acqua che sgorga dalle sorgenti del Po, da somministrare rigorosamente con un’ampolla di vetro. Oppure celebrare qualche Woodstock padana sul prato verde di Pontida. E, tanto per tornare all’esempio di prima, attaccare l’euro. <Unione europea? L’euro e i massoni ci hanno rovinato>, diceva il Senatur, socio di lusso della maggioranza del governo Berlusconi, nel 2005. Per non parlare di Maroni, e lui addirittura era il ministro del Welfare, che nello stesso anno si spingeva fino a proporre <un referendum per tornare alla lira>. Una consultazione che, evidentemente, piacerebbe tanto anche al Grillo del 2012.

Ma se c’è un terreno in cui l’antipolitica di lotta e di governo dà il meglio di sé, quello si materializza quando il bersaglio diventano i partiti. Non sarebbe il caso <di fare una norimberghina>, si chiede Grillo mentre cerca di istruire il processone a Monti (<Rigor Montis>), la nuova maggioranza (<Diarrea politica>), il tridente Alfano-Bersani-Casini (<Abc del nulla>) e persino contro Nichi Vendola (<L’ho aiutato e mi sparerei nei coglioni>)? E siamo proprio sicuri che, al di là dei nomi degli imputati, Berlusconi non sottoscriverebbe la <norimberghina> proposta da Grillo? D’altronde già alla fine degli anni Settanta il Cavaliere usava nei confronti di <certi politici> gli stessi argomenti che il comico genovese avrebbe imparato a maneggiare solo una decina di anni più tardi. La prova? Basta rileggere un’intervista che Berlusconi rilasciò a Repubblica nel 1977, un documento purtroppo finito nel dimenticatoio, che il giornalista Marco Damilano ha tolto dalla naftalina citandolo nel suo ultimo libro, Eutanasia di un potere (Editori Laterza, 2012).

In quell’intervista, che il quotidiano allora diretto da Eugenio Scalfari mandò in pagina sotto il titolo <Quel Berlusconi l’è minga un pirla>, il Cavaliere sosteneva senza troppi giri di parole: <Io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile…>. Sembra quasi lo spot del partito on-line di Grillo, girato con trent’anni e passa d’anticipo. Come prova un altro passaggio di quella conversazione tra Berlusconi e Repubblica. <Sono pochi i politici che si sano presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo>. Perché, sempre dalla viva voce del Cavaliere, <questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta>. Un bestiario che, negli anni a venire, sarebbe tornato utilissimo tutte le volte che, sentendosi scricchiolare, “Silvio” avrebbe addossato la colpa ora <ai comunisti> dell’opposizione, ora <ai democristiani> della sua stessa maggioranza.

Cambiando l’ordine dei bersagli, il prodotto non cambia. L’antipolitica può essere di lotta. E può essere di governo. Anche sulle tasse. <Gli attentati a Equitalia? Bisogna capirne le ragioni>, ha spiegato Grillo. Mentre Berlusconi s’era limitato (sic!) a misure più prudenti, tipo minacciare – come fece una volta da Lucca – quello stesso <sciopero fiscale> molto caro, in realtà, anche ai suoi alleati della Lega, che qualche volta l’avevano professato anche dai banchi del governo.

Sarà che forse la plastica del partito berlusconiano del ’94 e il web delle cinque stelle grilline degli anni Duemila producono progetti politici estemporanei. Eternamente estemporanei. Sia se rimangono di lotta, sia se arrivano al governo. O, forse, molto dipende dalla presenza scenica di chi nasce e cresce abusando di un naturale propensione a saper allietare il pubblico, pagante o votante.

D’altronde, questa è una traccia comune del percorso di Berlusconi e di Grillo. Il primo ha alimentato la leggenda che lo voleva ammaliatore di turisti da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalorieri, e che aveva in Que reste-t-il de nos amours il suo cavallo di battaglia. Il secondo, disse una volta il fratello Andrea, eseguiva numeri comici e musicali per la famiglia, <cantava e suonava la chitarra lanciando urli alla James Brown>. Il secondo ha esordito al cinema in un film chiamato Cercasi Gesù. Il primo s’è mosso come se quella ricerca si fosse esaurita in se stesso, <l’unto del Signore>. Entrambi, poi, non hanno molta dimestichezza con l’eufemismo. Il primo archivia alla voce <coglioni> gli elettori che non lo votano. Il secondo organizza il Vaffanculo day. Lasciando per un attimo le vesti del “moderato” a Umberto Bossi. E al suo dito medio. Che è stato di lotta, certo. Ma anche, e tanto, di governo.

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S’avanza uno strano Passera. In campo per il Polo della Nazione di Casini.

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di Tommaso Labate per Lettera 43

Quando Pier Ferdinando Casini ha dichiarato in diretta tivù a Otto e mezzo che «nel Polo della Nazione ci saranno anche i ministri del governo Monti», in realtà aveva in mente un nome su tutti. Quello di Corrado Passera.
Sono finiti in tempi in cui valeva la profezia di Roberto Maroni, convinto già da novembre che fosse Silvio Berlusconi il king maker che avrebbe benedetto la corsa alla premiership dell’ex numero uno di Intesa San Paolo…

Il resto dell’articolo lo trovate cliccando qui

Written by tommasolabate

20 aprile 2012 at 08:58

Boni dà l’addio. Le scope di Maroni erano già pronte per il Pirellone.

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Come volevasi dimostrare qui, qualche giorno fa, le scope di Maroni erano arrivate anche a lui.

Written by tommasolabate

17 aprile 2012 at 12:33

Da Giulietto a Niccolò: i nemici invisibili di Alfano.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di 16 marzo 2011)

Il primo della lista è Giulio Tremonti. A seguire c’è Niccolò Ghedini. Senza dimenticare le «mine vaganti», Umberto Bossi e Roberto Calderoli. È a loro che Angelino Alfano pensa quando, nei colloqui con gli amici, evoca «i nemici invisibili» della sua riforma della giustizia.

Nella decisione del ministro dell’Economia di non lasciare la benché minima traccia nel mastodontico dibattito sulla riforma della giustizia non c’è alcuna stranezza. D’altronde si sa, l’ultimo successore di Quintino Sella non ama parlare di questioni che non siano di sua stretta pertinenza. Ma se stavolta i parlamentari più fedeli ad «Angelino» vedono in «Giulietto» un possibile pericolo, un motivo c’è.

I due non si sono mai amati. E la sfida all’Ok corral sui fondi per l’informatizzazione dei tribunali andata in scena qualche mese va (e vinta ai punti dal titolare della Giustizia) ha raffreddato i rapporti che già tendevano al gelo. Al punto che Alfano, uno più berlusconiano dello stesso Berlusconi, continua a ripetere al Cavaliere che «l’unica tua colpa, presidente, è stata quella di non aver saputo tenere a bada Tremonti». Quel Tremonti di cui il titolare del ministero di via Arenula dice quello che tanti si limitano soltanto a pensare. «Ogni volta che uno dei suoi provvedimenti arriva sul tavolo dei ministri, si presenta soltanto con la copertina», ha raccontato qualche settimana fa «Angelino» a un collega dell’opposizione, evocando la tendenza tremontiana a tenere coperte tutte le sue carte migliori. «Ed è una cosa», ha aggiunto il guardasigilli sorridendo, «che voi del centrosinistra non gli avreste mai permesso».

Ma l’antipatia reciproca può trasformarsi nell’ennesima guerra? È insomma possibile che «Giulietto», come temono ai vertici del Pdl, «usi i suoi poteri magici per ostacolare la riforma della giustizia»? Per adesso si tratta soltanto di voci velenose. Ma se all’insofferenza tremontiana sulla «riforma epocale» si aggiungono le tante perplessità del Carroccio, ecco che l’affaire si complica non poco.

Sulla giustizia i leghisti legati a triplo filo col ministro dell’Economia, a cominciare da Roberto Calderoli, sembrano muti come pesci. Il ministro della Semplificazione, circondato dieci giorni fa dai cronisti alla festa per i venticinque anni del Carroccio, s’era limitato a dodici parole: «Il problema della giustizia italiana è garantire i processi in tempi certi». Nella stessa serata Umberto Bossi, rispondendo a una domanda sul sostegno delle camicie verdi alla riforma epocale, se l’era cavata con una sola: «Sì». Anche Roberto Maroni, che pure con Alfano può vantare buoni rapporti personali, preferisce stare alla larga dalle polemiche. È strano che il ministro dell’Interno si chiami fuori dal dibattito sulla giustizia italiana, no? Com’è strano che uno dei colleghi di partito a lui più vicini, il sindaco di Verona Flavio Tosi, abbia tenuto a precisare: «La riforma della giustizia è necessaria. Ma è pur vero che, fatta in questo momento, può essere male interpretata. Infatti i cittadini – è la teoria che Tosi ha esposto cinque giorni fa a Salerno, durante un convegno – potrebbero pensare che Berlusconi lo fa perché ha dei problemi. Ma la Lega, comunque, darà il suo voto Tremonti e Alfano».

Con l’avvicinarsi della campagna elettorale delle amministrative, e della conseguente competition interna, i distinguo leghisti sulla riforma di Alfano potrebbero moltiplicarsi. Ma la partita è appena all’inizio. Il segretario del Pri Francesco Nucara, veterano del Parlamento e amico del Cavaliere, mette in fila tutti gli indizi: «Secondo me, questa riforma non andrà da nessuna parte. E non solo per l’ostilità di Tremonti e di altri pezzi della maggioranza». Perché nella posta in palio, oltre alle modifiche della Costituzione, c’è anche il dopo-Berlusconi. Nucara è sicuro che alla fine avrà la meglio Tremonti. «Quando l’ho chiamato per il congresso del Pri, non solo è venuto di corsa. Ma, intervistato da Stefano Folli, ha addirittura detto che “il Mezzogiorno deve essere salvato anche con l’aiuto del governo”. Altro che personaggio di primo piano legato alla Lega. Giulio sta studiando da leader nazionale del prossimo centrodestra». Per quella stessa seggiola che, se la riforma andasse avanti e superasse quel referendum che il Cavaliere considera «l’ultima parola del popolo italiano su di me», finirebbe di diritto ad Angelino.

Il fatto che il guardasigilli sia coinvolto in prima persona nella grande partita per la successione a Berlusconi è forse l’ostacolo più duro. Ancor più della sfida fratricida che lo oppone a Niccolò Ghedini. Un altro personaggio tutt’altro che felice dei primi passi della «riforma epocale» voluta dal suo illustre assistito.

Written by tommasolabate

16 marzo 2011 at 12:14

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