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Monti propone la rivoluzione Rai al «vertice della lasagna». Ma la vera sfida è contro Passera.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 17 marzo 2012)
«Sia chiaro che sulla Rai io devo intervenire». Palazzo Chigi. Interno notte. Sono le 23 di giovedì quando Monti, di fronte al tridente Alfano–Bersani–Casini, arriva al più delicato dei dossier del vertice. E tocca il tasto del «commissariamento».
Il presidente del Consiglio l’aveva messo in conto. L’aveva previsto, insomma, che quando il cavallo di viale Mazzini sarebbe diventato il convitato di pietra del vertice, in quello stesso istante la situazione avrebbe rischiato di precipitare. E non tanto, o non solo, per la grande guerra in corso tra un Pdl che vorrebbe il rinnovo dei vertici Rai con la legge Gasparri e un Pd che preme per il cambio delle regole. Quanto perché, come spiega uno dei tre leader in cambio della garanzia dell’anonimato, «Monti sa che lo scontro ormai s’è trasferito nelle stanze del governo». Dov’è in corso una sfida all’Ok Corral tra Super Mario, che sogna il commissariamento dell’azienda, e Corrado Passera, che invece spinge per il mantenimento dello status quo.
Davanti ad Alfano, Bersani e Casini, Monti – com’è ovvio – evita accuratamente di evocare il derby interno all’esecutivo. Ma si spinge fino a mostrare l’asso che tiene nella manica, sfruttando un assist involontario di Pier Luigi Bersani.
È il leader del Pd a dire, a un certo punto della riunione, che «noi non mettiamo veti». Semplicemente, aggiunge Bersani, «non parteciperemo alla spartizione dei posti nel consiglio d’amministrazione». E poi, sempre dalla voce del segretario dei Democratici, «parliamoci chiaro. Possiamo arrivare a fare tutte le nomine di alto profilo che volete. Ma quante ce ne sono state, di nomine di alto profilo, nella Rai degli ultimi anni? Tante, tantissime. Eppure la situazione è andata sempre peggiorando».
Monti coglie la palla al balzo. Prima rivelando – senza scendere nei dettagli – che «anche io, in passato, sono stato chiamato a scegliere se fare il presidente della Rai. Lo sapevate che anche al sottoscritto era stato proposto?». Poi aggiungendo quella che, secondo lui, rimane la strada maestra: un decreto legge che cambi le regole della governance conferendo più poteri al direttore generale. E trasformandolo, dice, «in un commissario che possa salvare l’azienda».
Di fronte al «commissariamento», che aveva già trovato la ferma opposizione di Passera, Bersani incassa un assist inaspettato e Casini prova a mediare. Ma è Alfano quello che reagisce male. «Presidente, il Pdl non accetterà mai questa ipotesi». La riunione arriva a un punto morto. A un triplice fischio che porterà la partita ai tempi supplementari. È sempre Monti a indicare la via: «Sappiate che, in ogni caso, sulla Rai io voglio intervenire. E che per me tutte le ipotesi sono in campo», è il senso del ragionamento del premier. Che invita i tre leader ad «abbandondare il mantra “legge Gasparri sì – legge Gasparri no”». E a concedersi «un po’ di tempo» per trovare il modo di «scendere dalle barricate».
Il totonomine è già partito. Piero Angela ammette ai microfoni della Zanzara di Giuseppe Cruciani (su Radio 24) di essere stato contattato. «Tutti mi stanno chiedendo se voglio fare il presidente della Rai», dice il “papà” di Quark. Risposta? «No, grazie. Penso che posso servire meglio la Rai continuando a fare il lavoro che faccio». In corsa c’è anche l’ex direttore della Stampa Giulio Anselmi. Ma è quella del dg, soprattutto se i poteri finiranno davvero per essere «pieni», la partita più importante. Il presidente del Consiglio punta a una personalità che abbia l’identikit di Enrico Bondi. E – all’interno di un risiko in cui spuntano qua e là i nomi di Francesco Caio, Mario Resca e Rocco Sabelli – anche Passera ha schierato la “sua” candidatura: quella di Claudio Cappon, ex direttore generale all’epoca dell’ultimo governo Prodi.
«Mi raccomando la solita riservatezza, eh?», si premura di dire Monti ai tre leader chiudendo i lavori del supervertice. È notte fonda. Poche ore dopo, tra le prime file del centrodestra, circolava già anche la pietanza servita a Palazzo Chigi. «Alfano dice che hanno mangiato lasagne. Si vede che il presidente del Consiglio ha voluto omaggiare Bersani e Casini, entrambi emiliani», dice un ex ministro del governo Berlusconi. Una battuta per ridere ovviamente. Al contrario del fuoco di fila che il Pdl ha aperto contro il premier sull’ipotesi di un cambio delle regole sulla Rai. Per tutti il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «Non accetteremo il commissariamento dell’azienda. Nessuno pensi che facciamo finta».
Esorciccio a Sanremo. La Rai manda all’Ariston un commissario senza poteri.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 febbraio 2012)
È come quando nei film americani arriva l’omino dell’Fbi a sottrarre le indagini allo sceriffo? Oppure una mossa a effetto, tipo l’Esorciccio interpretato da Ingrassia che arriva nel paesello a scacciare il demonio al grido «Aglio olio e peperoncino, esci fuori da questo lettino!»? La scelta della Rai di mandare un commissario a Sanremo sembra più «la seconda che hai detto».
Perché Antonio Marano, il «commissario» che il dg Lorenza Lei ha inviato a Sanremo per tentare di evitare pericolosi bis di Adriano Celentano, di fatto non avrà alcun potere sul Molleggiato. Che, contratto alla mano, potrà continuare a invocare chiusure di testate (Avvenire e Famiglia cristiana), offendere Aldo Grasso ed entrare a gamba tesa sulla Consulta. Perché? Semplice. Al massimo Celentano sarà accusato di aver violato il «codice etico» dell’azienda. E, per questo, potrà anche essere (virgolette d’obbligo) “processato” nei prossimi mesi. Ma nessuno ha accesso ai suoi testi. Soltanto il direttore della Rete, infatti, può intimargli l’altolà. Non a caso, l’ultima volta che il Molleggiato s’era presentato sul palco dell’Ariston coi galloni del superospite, al crepuscolo della legislatura berlusconiana 2001-2006, l’allora direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce aveva scelto di autosospendersi dall’incarico per quattro settimane pur di non assumersi la responsabilità della voce del verbo d’Adriano.
Risultato? Coi «poteri d’intervento» Marano ha i titoli per approdare a bordo Ariston come il Montalbano di Camilleri, persino per presentarsi al grido di «Marano sono». Ma su Celentano e quello che dirà, nisba. È il segno che la Rai del presidente Paolo Garimberti («La Rai si dissocia da Celentano») e del dg Lorenza Lei («Di fronte alla situazione che si è venuta a creare…») ha trovato un parafulmine a cui mettere in conto eventuali remake del Celentano horror picture show di martedì?
Di certo c’è che l’arrivo di Marano nella città dei fiori ha trasformato il dietro le quinte sanremese nella Guerra dei Roses. Il direttore di RaiUno Mauro Mazza spiega che tra i compiti del commissario «c’è il coordinamento dell’offerta radiotelevisiva», che «è un lavoro che svolge quotidianamente», che – insomma – Marano «viene a darci una mano». Ma alla teoria del Marano-ti-dà-una-mano la macchina del Festival si ribella. Il direttore artistico Giammarco Mazzi è furibondo: «Voglio capire in che cosa consiste questo potere d’intervento. Perché per quel che mi riguarda il percorso artistico di questa edizione è già tracciato». E il travaso di bile dell’eterno ragazzo Gianni Morandi arriva a superare persino la sua soglia preferita, quella dei cento all’ora. «Ma ci voleva un comunicato stampa per annunciare l’arrivo di Marano? Quindi, se andremo male con gli ascolti, la colpa è di Marano?».
Anche la politica si divide. Seguendo la direttrice di una strada coincidenza: gli ultras del governo Monti criticano Celentano. Al contrario degli scettici e degli oppositori dei Professori, che invece prendono di mira l’azienda di viale Mazzini. «Dopo Celentano di ieri, stamani ho comprato due copie di Avvenire e Famiglia Cristiana», scrive su Twitter il vicesegretario del Pd Enrico Letta. «Non si puó mai chiedere o auspicare la chiusura di un giornale. Mai», annota Walter Veltroni. E ancora, stavolta nel Pdl, «Celentano predicatore, è vergognoso quanto accaduto» (Maurizio Lupi), «Siamo al tramonto di un vecchio guru» (Roberto Formigoni). E infine, nel Terzo Polo, «Celentano sbaglia» (Rocco Buttiglione). Un po’ più critico, invece, il deputato-spin doctor dell’Udc Roberto Rao: «La Rai ha rinunciato ai diritti web sull’intervento di Celentano dopo averlo pagato a peso d’oro. Complimenti».
Chi è più morbido nel sostegno al governo, al contrario, attacca la Rai. «Il commissario servirebbe di più a viale Mazzini», dichiara il bersaniano Matteo Orfini (che pure non risparmia critiche a Celentano). «L’arte non si censura mai», aggiunge Vincenzo Vita, della sinistra del Pd. «Sono d’accordo con Celentano. Bisogna commissariare i dirigenti della Rai», s’infervora Antonio Di Pietro. Perché, aggiunge Beppe Giulietti, «non sanno manco fare i censori. Non lo sapevano quando l’hanno chiamato che finiva così?».
Nella contesa s’affacciano i frati di Assisi, «fratello Adriano, che il Signore ti dia pace». E pure il berlusconiano Sandro Bondi, che giudica «commovente» il discorso «sulla fede e sulla morte» uscito dalla molleggiata bocca dell’Adriano nazionale. Certo, fosse stato ancora ministro della Cultura, sul pensiero di Bondi ci sarebbe stato da riflettere. Adesso no. Di fronte alla sua commozione si può piangere o ridere. O, alle brutte, mandargli un commissario traversito da Esorciccio. Magari per dirgli, come faceva Ciccio Ingrassia nella nota pellicola: «In nome di Mao ti espello!». Oppure, in maniera più argomentata: «Ascoltami! Con Mao o Maometto, alzati dal letto!».