tommaso labate

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Dev’essermi sfuggito qualcosa.

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Dev’essermi sfuggita la notizia di quei criminali finti pentiti che con le loro bugie hanno portato alla condanna di Silvio Berlusconi.

E devono essermi sfuggiti anche i giorni, le settimane, i mesi in cui Silvio Berlusconi è stato sottoposto alla carcerazione preventiva, in cella, al gabbio, insomma.

E per forza dev’essermi sfuggita pure la storia di Berlusconi che si dimette da europarlamentare, rinuncia all’immunità e si fa arrestare.

È sicuramente solo per questo che adesso, mentre Silvio Berlusconi si paragona a Enzo Tortora, non capisco. Perché deve essermi sfuggito qualcosa, sicuro.

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Written by tommasolabate

11 Maggio 2013 at 18:30

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La sesta stella.

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«Lunga vita a Beppe Grillo. Secondo me, il comico ha ragione. Sta subendo la stessa sorte di Berlusconi. La sinistra, dopo essersela presa col secondo, adesso sta concentrando sul primo una campagna d’odio subdola e pericolosa. Ha paura di lui e dei suoi voti.

Prego perché Grillo stia attento. Soprattutto perché temo davvero per la sua incolumità fisica. Da campagne d’odio come quella che stanno montando nei suoi confronti poi può sempre venir fuori un cretino come quello che lanciò la statuetta contro Silvio».

Daniela Santanchè (dal Corriere della Sera di oggi, pagina 9).

Written by tommasolabate

3 settembre 2012 at 15:14

Dalla Bicamerale al patto col comunista Cossutta. La grande epopea di Mister Dietrofront

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di Tommaso Labate (dall’Unità del 27 maggio 2012)

Se pure venerdì ha preferito lasciare più spazio ad Angelino Alfano, si vede che le doti del piazzista sono ancora quelle dei tempi d’oro. Di quando, tanto per pescare un esempio dal suo variopinto bouquet di prodezze imprenditoriali, si presentò a casa di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini per convincerli ad abbandonare la Rai per approdare in Fininvest. «Ci dice che è pronto a darci un programma, che ci aspetta a braccia aperte. È un venditore», raccontò una volta Vianello. Che, insieme alla moglie, si fece sedurre dal dettaglio finale che il protagonista della scena aveva inserito nel suo canovaccio. «Ci offre patti chiari e pure soldi. Insomma, ha argomenti convincenti. A un certo punto – è ancora Raimondo la voce narrante – gli chiedo se vuole bere qualcosa. Lui mi risponde: “Non avrebbe un panino?”. Mi assale un dubbio: ma questo è davvero miliardario?».

Quasi trent’anni fa, di fronte a una delle ditte più premiate di Mamma Rai, Silvio Berlusconi offrì patti chiari e pure soldi. E, in cambio di un panino, realizzò un affare per sé e per la coppia Vianello-Mondaini, che gli sarebbero stati fedeli fino alla morte.  Ma adesso che propone al Pd quello che il Pd va cercando da una vita, e cioè il semipresidenzialismo alla francese, con tanto di maggioritario a doppio turno, è quasi scontato che tra i Democratici più d’uno pensi di trovarsi di fronte al Principe della risata mentre prova a vendere la Fontana di Trevi in Totòtruffa ’62. Come a dire, la merce è ottima. Ma il venditore è davvero affidabile?

In fondo, si tratta dello stesso venditore che il primo febbraio 1998 diede un colpo d’ascia alla commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. E fu un colpo a sorpresa, che fece naufragare più o meno quello stesso sistema semipresidenziale e maggioritario alla francese che il Cavaliere torna a proporre tredici anni dopo.

Strano ma vero Berlusconi si trovava in Francia, la patria del «modello», quel giorno. E mentre in Italia il lavoro delle forze politiche marciava spedito verso la riforma delle riforme, lui sfasciò il castello di carte. In contumacia e con un clamoroso dietrofront. «Il sistema maggioritario è certamente il migliore in una democrazia avanzata», precisò. Ma, aggiunse, «questo non è il caso dell’Italia, dove ci sono cinque poli». Quindi, dopo un dettagliato elenco dei poli – «An, la federazione liberaldemocratica, la Lega, l’Ulivo e Rifondazione» – la bordata: «In queste condizioni il sistema proporzionale lo trovo più democratico. Perché con le preferenze il cittadino sceglie i suoi candidati, che nel maggioritario sono invece imposti dall’alto, dai partiti».

Ora non è tanto la capacità di disfare in due minuti una tela bipartisan che i partiti avevano costruito in molti mesi, dalla sera in cui la signora Letta aveva servito la ben nota crostata sotto i cui auspici era nato l’omonimo «patto». Quanto il fatto che, per raggiungere l’obiettivo, quella volta Berlusconi arrivò addirittura a scendere a patti col più comunista di tutti i comunisti: Armando Cossutta. Fu il Cavaliere stesso ad ammettere i contatti con l’allora leader di Rifondazione, che era un proporzionalista ortodosso. «Ho sentito la proposta di Cossutta che rilancia il sistema proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento: si dovrebbe riaprire la discussione», sussurrò a mezza bocca dalla Francia mentre l’«Armando», dall’Italia, ricambiava il favore al grido di «siamo pronti a discutere con tutti», anche con Berlusconi, per evitare il maggioritario.

Armando Cossutta

La fine è nota. Alla bordata del Cavaliere seguì la lenta agonia della Bicamerale. A cui fu sempre il grande venditore a staccare la spina qualche mese dopo. Quando, era proprio il 27 maggio del 1998, si alzò nell’Aula della Camera dei Deputati e seppellì tutti i sogni di riforma. «Abbiamo deciso di bloccare la deriva verso le sabbie mobili di un disegno di riforma di basso livello, di una Costituzione frutto di una composizione occasionale e improvvisata di norme. Abbiamo deciso di arrestare questo degrado». Game over.

La grande abilità di Berlusconi nel giustificare il passo indietro, almeno nelle confidenze fatte trapelare dai fedelissimi, fu nel chiamare in causa un altro suo celeberrimo bluff. Nel 1996, quando dopo il governo Dini s’avanzava un esecutivo di larghe intese guidato da Antonio Maccanico, il Cavaliere prima disse sì. Poi, complice la retromarcia di Fini, spinse per tornare alle urne sorretto dall’infausta certezza di vincere le elezioni. Da lì la sua postuma e silenziosa predilezione per il proporzionale, che evidentemente aveva covato in misteriosa solitudine. «Sono condizionato da ex fascisti. Quasi quasi, sarebbe meglio tornare al proporzionale». Peccato che si fosse dimenticato di dirlo al resto della ciurma bipartisan, che è più o meno la stessa a cui chiede oggi di lavorare per il semipresidenzialismo. E che lo guarda col sospetto di chi si presenta offrendo la Fontana di Trevi. Al contrario di come aveva fatto con Sandra&Raimondo, ai quali invece s’era limitato a chiedere giusto un panino.

Dall’eterno ritorno dell’imminente al gioco delle tre buste. Scatta l’ora X di Montezemolo

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di Tommaso Labate (dall’Unità del 19 maggio 2012)

Per gli ammiratori è come se fosse una copertina vivente del Time, tipo quella che il settimanale dedicò a Mario Monti qualche mese fa, con tanto di titolo a caratteri cubitali: «Can this man save Italy?». Per i detrattori, invece, assomiglia tanto all’eterno concorrente di un gioco a premi come quelli condotti dal suo ex compagno di liceo Giancarlo Magalli. E quindi a un uomo perennemente indeciso tra la busta numero uno, «Nuovo Prodi», e la busta numero due, «Nuovo Berlusconi». Con almeno un occhio sempre puntato alla più generica busta numero tre, «Papa Straniero».

Sia come sia, l’eterno quiz sul futuro politico di Luca Cordero di Montezemolo è destinato a essere trascinato ai titoli di coda dall’avvicinarsi delle elezioni. Il presidente della Ferrari, che negli ultimi anni ha sia alimentato e che smentito le voci sul suo sempre «imminente» ingresso nel ring, adesso ha scartato la busta del «Nuovo Prodi», e quindi quella della leadership di una coalizione che comprendesse a vario titolo un pezzo del centrosinistra classico. E, in tempo per quella convention nazionale del suo think tank Italia Futura che potrebbe andare in scena entro due mesi, deve sciogliere il secondo dubbio. Fare il «Nuovo Berlusconi» col benestare del Cavaliere, che potrebbe affidargli le chiavi di quel rassemblement ribattezzato «Federazione dei moderati»? Oppure provare a sottrargli tanto la federazione quanto i moderati, scartando quindi la parola «Berlusconi» e tenendosi stretto l’aggettivo «nuovo»?

«Silvio» e «Luca» si conoscono da una vita. Eppure, come confessò privatamente il Cavaliere mesi fa, quando proprio una fronda di montezemoliani a fargli mancare i voti in Parlamento (do you remember la deputata Giustina Destro?), «neanche io, che di solito capisco tutti con uno sguardo, sono mai riuscito a capire dove vuole andare a parare quell’uomo». Era stato così anche nel 2001. Quando Berlusconi, tornato a Palazzo Chigi a sei anni a mezzo dal ribaltone del ’94, era praticamente sicuro che Montezemolo sarebbe entrato nel suo governo. «Mi ha dato la sua parola. Farà parte della mia squadra», aveva giurato. E invece niente. Con tanti saluti sia alla parola che alla squadra.

Non solo. La stessa identica sensazione di amarezza Berlusconi l’ha provata anche tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006. Quando, con Montezemolo presidente, Confindustria si spostò su posizioni vicine al centrosinistra di Prodi, da cui però «Luchino» prese le distanze quando si rese conto che il carrozzone dell’Unione non sarebbe stato in grado di andare avanti a lungo.

E adesso? Nella cerchia ristretta di Montezemolo si continua a smentire qualsiasi patto col Pdl. «Niente accordi» e, di conseguenza, «nessun relativo contato preparatorio». Resta il fatto che, mentre il Cavaliere insiste nel corteggiarlo, tra il Pdl lo spettro di «Luchino» ha già alimentato la balcanizzazione. «Spero che dopo le amministrative Berlusconi, Alfano, Passera e Montezemolo si siedano attorno a un tavolo per evitare la vittoria della sinistra», accelera il nostalgico di Forza Italia Giancarlo Galan. «Montezemolo nella federazione? Se ci vuole stare sì. Ma la guida non la si ottiene solo per il cognome», frena il nostalgico di An Ignazio La Russa. E il nostalgico-e-basta Angelino Alfano, sul criptico andante, a chiudere il cerchio: «Montezemolo? Berlusconi non ha retropensieri».

E così, dopo aver scartato la busta numero uno del «Nuovo Prodi», e mentre si allontana dalla busta numero due del «Nuovo Berlusconi», Montezemolo si tiene stretta la carta del «Nuovo e basta». Quella del «Papa straniero» sempre e comunque. Le teste d’uovo del suo think tank – il tridente formato da Andrea Romano, Nicola Rossi e Carlo Calenda – vergano documenti in cui si annota che il centrodestra dell’ultimo ventennio «si avvia a scomparire» ma «i suoi elettori no». In cui si nota che il Pd che guarda a Hollande ha avviato un percorso «per tornare a essere il Pds». In cui si avverte che il Terzo Polo, coerente e serio «nel sostegno al governo» Monti, non è riuscito a «trovare una compiuta morfologia che vada oltre la somma di parti ormai stanche». Serve altro, insomma.

Leggenda vuole che, alla morte di Umberto Agnelli, la telefonata in cui gli comunicarono che sarebbe stato lui il prossimo presidente della Fiat gliela fece il presidente dell’Ifil, Gianluigi Gabetti. «Luca, adesso tocca a te». E lui, di rimando: «Ci avete pensato bene?». Adesso che sta per scegliere la sua strada, e questa volta per davvero, Montezemolo se la starà ripetendo da solo, quella domanda. «Ci ho pensato bene?».

Silvio Grillo e Beppe Berlusconi. L’antipolitica di lotta è già stata al governo. Per dieci anni.

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di Tommaso Labate (dall’Unità del 28 aprile 2012)

L’esercizio, in fondo, è fin troppo semplice. Basta mettere l’uno accanto agli altri per scoprire come l’uno, Beppe Grillo, e gli altri, Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, assomigliano tanto alle classiche due facce di una stessa medaglia. Perché se c’è un punto in comune tra l’antipolitica e i partiti, quello è che la prima – al pari dei secondi – ha due facce. Una <di lotta>. E l’altra <di governo>. Perché è vero che esiste l’antipolitica di lotta, che ha la cadenza genovese di Grillo. Ma è altrettanto vero che l’Italia della Seconda Repubblica ha sperimentato almeno un decennio di antipolitica di governo. Quella segnata dal tandem Berlusconi-Bossi.

Tra il sostenere che <dobbiamo uscire dall’euro perché non possiamo più permettercelo>, come fa Grillo in questi giorni, e il mettere a verbale che <l’euro non ha convinto nessuno>, come ha scandito Silvio Berlusconi il 28 ottobre scorso, c’è una sola differenza. Il primo usa i toni ultimativi di chi sta fuori dal ring. Il secondo fa sfoggio della “moderazione” (sic!) di chi comunque si trovava a presiedere il governo di uno dei principali paesi dell’Eurozona.

Che sia di lotta o di governo, l’antipolitica si nutre di bersagli comuni. In questo caso, l’euro. Pazienza se la moneta unica è l’ultimo baluardo prima del baratro. C’è un popolo asserragliato dietro l’equazione “prima un panino costava mille lire, ora costa un euro”? Fine della storia, abbasso l’euro.

E così, <si può rimanere tranquillamente nell’Unione europea senza rinunciare alla propria moneta> come ha fatto la Gran Bretagna, sentenzia Grillo sul suo blog. Oppure, <l’euro è una moneta strana che non ha convinto nessuno, che è di per sé molto attaccabile, non è di
un solo paese ma di tanti paesi che non hanno un governo unitario> et voilà, signore e signori, <ecco perché c’è un attacco della speculazione>, come diceva Silvio Berlusconi al crepuscolo della sua permanenza a Palazzo Chigi. Antipolitica di lotta. Antipolitica di governo. Due facce che trovano un diabolico punto in comune quando nel teorema viene inserita la variabile Lega Nord, che è riuscita nel corso degli anni a fornire una formidabile sintesi di come si possa essere – contemporaneamente –  politica e antipolitica, di lotta e di
governo. Basta poco, no? Nell’ordine, è sufficiente promettere meno stato e meno tasse, come faceva il Bossi prima maniera. E se poi ti trovi per dieci anni a sostenere un governo che finisce per seguire la strada uguale e contraria – più tasse e più Stato – ci si può sempre purificare con l’acqua che sgorga dalle sorgenti del Po, da somministrare rigorosamente con un’ampolla di vetro. Oppure celebrare qualche Woodstock padana sul prato verde di Pontida. E, tanto per tornare all’esempio di prima, attaccare l’euro. <Unione europea? L’euro e i massoni ci hanno rovinato>, diceva il Senatur, socio di lusso della maggioranza del governo Berlusconi, nel 2005. Per non parlare di Maroni, e lui addirittura era il ministro del Welfare, che nello stesso anno si spingeva fino a proporre <un referendum per tornare alla lira>. Una consultazione che, evidentemente, piacerebbe tanto anche al Grillo del 2012.

Ma se c’è un terreno in cui l’antipolitica di lotta e di governo dà il meglio di sé, quello si materializza quando il bersaglio diventano i partiti. Non sarebbe il caso <di fare una norimberghina>, si chiede Grillo mentre cerca di istruire il processone a Monti (<Rigor Montis>), la nuova maggioranza (<Diarrea politica>), il tridente Alfano-Bersani-Casini (<Abc del nulla>) e persino contro Nichi Vendola (<L’ho aiutato e mi sparerei nei coglioni>)? E siamo proprio sicuri che, al di là dei nomi degli imputati, Berlusconi non sottoscriverebbe la <norimberghina> proposta da Grillo? D’altronde già alla fine degli anni Settanta il Cavaliere usava nei confronti di <certi politici> gli stessi argomenti che il comico genovese avrebbe imparato a maneggiare solo una decina di anni più tardi. La prova? Basta rileggere un’intervista che Berlusconi rilasciò a Repubblica nel 1977, un documento purtroppo finito nel dimenticatoio, che il giornalista Marco Damilano ha tolto dalla naftalina citandolo nel suo ultimo libro, Eutanasia di un potere (Editori Laterza, 2012).

In quell’intervista, che il quotidiano allora diretto da Eugenio Scalfari mandò in pagina sotto il titolo <Quel Berlusconi l’è minga un pirla>, il Cavaliere sosteneva senza troppi giri di parole: <Io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire in modo comprensibile…>. Sembra quasi lo spot del partito on-line di Grillo, girato con trent’anni e passa d’anticipo. Come prova un altro passaggio di quella conversazione tra Berlusconi e Repubblica. <Sono pochi i politici che si sano presentare in modo chiaro e immediato, facendosi capire dalla gente. Non come Moro, che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per interpretarlo>. Perché, sempre dalla viva voce del Cavaliere, <questi capi storici hanno il culo per terra ma ingombrano la porta>. Un bestiario che, negli anni a venire, sarebbe tornato utilissimo tutte le volte che, sentendosi scricchiolare, “Silvio” avrebbe addossato la colpa ora <ai comunisti> dell’opposizione, ora <ai democristiani> della sua stessa maggioranza.

Cambiando l’ordine dei bersagli, il prodotto non cambia. L’antipolitica può essere di lotta. E può essere di governo. Anche sulle tasse. <Gli attentati a Equitalia? Bisogna capirne le ragioni>, ha spiegato Grillo. Mentre Berlusconi s’era limitato (sic!) a misure più prudenti, tipo minacciare – come fece una volta da Lucca – quello stesso <sciopero fiscale> molto caro, in realtà, anche ai suoi alleati della Lega, che qualche volta l’avevano professato anche dai banchi del governo.

Sarà che forse la plastica del partito berlusconiano del ’94 e il web delle cinque stelle grilline degli anni Duemila producono progetti politici estemporanei. Eternamente estemporanei. Sia se rimangono di lotta, sia se arrivano al governo. O, forse, molto dipende dalla presenza scenica di chi nasce e cresce abusando di un naturale propensione a saper allietare il pubblico, pagante o votante.

D’altronde, questa è una traccia comune del percorso di Berlusconi e di Grillo. Il primo ha alimentato la leggenda che lo voleva ammaliatore di turisti da crociera, accompagnato al pianoforte da Fedele Confalorieri, e che aveva in Que reste-t-il de nos amours il suo cavallo di battaglia. Il secondo, disse una volta il fratello Andrea, eseguiva numeri comici e musicali per la famiglia, <cantava e suonava la chitarra lanciando urli alla James Brown>. Il secondo ha esordito al cinema in un film chiamato Cercasi Gesù. Il primo s’è mosso come se quella ricerca si fosse esaurita in se stesso, <l’unto del Signore>. Entrambi, poi, non hanno molta dimestichezza con l’eufemismo. Il primo archivia alla voce <coglioni> gli elettori che non lo votano. Il secondo organizza il Vaffanculo day. Lasciando per un attimo le vesti del “moderato” a Umberto Bossi. E al suo dito medio. Che è stato di lotta, certo. Ma anche, e tanto, di governo.

S’avanza uno strano Passera. In campo per il Polo della Nazione di Casini.

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di Tommaso Labate per Lettera 43

Quando Pier Ferdinando Casini ha dichiarato in diretta tivù a Otto e mezzo che «nel Polo della Nazione ci saranno anche i ministri del governo Monti», in realtà aveva in mente un nome su tutti. Quello di Corrado Passera.
Sono finiti in tempi in cui valeva la profezia di Roberto Maroni, convinto già da novembre che fosse Silvio Berlusconi il king maker che avrebbe benedetto la corsa alla premiership dell’ex numero uno di Intesa San Paolo…

Il resto dell’articolo lo trovate cliccando qui

Written by tommasolabate

20 aprile 2012 at 08:58

Quel “matrimonio” con Silvio celebrato il giorno dei morti. Il Cav. ora cerca un programma per Fede.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 30 marzo 2012)

Quando ieri sera saluta per l’ultima volta i telespettatori del Tg4, e sì che «dopo tanti anni c’è emozione nel fare un intervento che è un saluto e non un addio», le lacrime che ha dentro sono quasi di gioia. Quasi. Anche se in pochi lo sanno. Nemmeno ventiquattr’ore prima, infatti, nel corso di una riunione drammatica che va in scena nella stanza dei bottoni del Biscione, Emilio Fede ha appena sbattuto la porta. Altro che commozione. «L’hanno fatto mentre Silvio era allo stadio. Questo è un colpo di mano di Fedele Confalonieri», dice in un’intervista (poi smentita) a Repubblica mentre il Cavaliere è a San Siro per Milan-Barcellona.

Ce l’ha con “Fidel”, è ovvio. E anche con il numero uno dell’informazione Mediaset, Mauro Crippa. Ma Berlusconi, mercoledì sera, lo sa oppure no che hanno appena “segato” Emilio? E, soprattutto, perché il Giornale di famiglia, nel dare la notizia del licenziamento, si limita a un corsivetto in prima pagina – titolo: «Fede lascia il Tg4 e Mediaset» – e nulla più?

La risposta è in quello che il Cavaliere confessa ai fedelissimi ieri mattina. «Non posso permettermi di scaricare Fede. Bisogna trovare una soluzione». E la soluzione prende forma: un bel programma tutto per «Emilio». Ma non su Rete4. No. Sulla rete ammiraglia, Canale 5. Giusto per ingannare l’attesa che lo separa dal 2013, quando l’ex direttore del Tg4 sarà catapultato in Parlamento al posto della moglie Diana de Feo.

Magari in corner. Forse con le ossa rotte, visto la procura di Roma pensa a una rogatoria per far luce sui soldi che nega di aver portato a Lugano. Sta di fatto che si salva, forse, Fede. E tutto “grazie” alla sua innata, irruducibile, indomita, accademica arte di attaccare il ciuccio proprio lì, dove vuole il padrone. Che «Emilio» non sviluppa nel suo incontro col Cavaliere. Ma prima. Molto prima.

Perché tocca mettere tutto da parte. L’amore sconfinato per Berlusconi, il gioco d’azzardo, l’odore dei soldi, le donne, le feste, i festini, la fantomatica valigetta di Lugano, il Tg1, Studio Aperto, «Sciupone l’Africano», gli strafalcioni in diretta, le sfuriate, la tristezza di quelle bandierine piazzate su una bacheca durante lo spoglio delle elezioni regionali del ’95. La vera personalità di Fede sta in un dettaglio nascosto, ma tutt’altro che trascurabile, della sua esistenza: il suo rapporto col calcio.

Perché non è tanto l’aver abiurato alla fede bianconera per amor del presidente del Milan. Quanto la motivazione offerta a tutti quelli, e non sono stati pochi, che gli chiedevano come mai in gioventù fosse stato della Juventus. «Ero giovane», raccontò «Emilio». «E mi sono innamorato della Juve anche per necessità. Perché all’epoca, a Torino, io collaboravo con Hurrà Juventus». La necessità, insomma. E quel ciuccio straordinariamente piazzato là, dove vuole il padrone. Che si chiami Hurrà Juventus o Fininvest, non fa differenza.

Sarebbe stato atroce, troppo atroce, se a fregarlo per sempre – come ha detto a caldo a Repubblica – fosse stata quella lite coi vertici di Mediaset arrivata proprio nel momento in cui il Capo stava a San Siro. Quasi ridicolo se a tradire inconsapevolmente lui, che viene da Barcellona Pozzo di Gotto, fosse stato il Barcellona di Pep Guardiola.

E dire che la sua avventura nel Biscione, almeno per come lui l’ha raccontata, era partita sotto i mortuari auspici del 2 novembre di ventitre anni fa. Il giorno dei defunti, insomma. No, «non mi sembrava il caso di far baldoria», raccontò una volta in un’intervista a Libero. Le grandi celebrazioni per il suo approdo a Fininvest vengono rimandate di un giorno. Al 3 novembre, anno 1989. «Prima al Jolly di Milano 2. Poi al ristorante Angolo». Ad alzare i calici, insieme a lui ci sono Berlusconi, Gianni Letta, Confalonieri e Galliani. A cena si aggiunge Gianni Baget Bozzo. «Inizia così la grande avventura, un’avventura di libertà».

Al diavolo la realtà. Abbasso la verità. La storia di Fede, raccontata da Fede, pare una favola. Compreso l’incontro con Berlusconi. «La primissima volta che mi contatta sono ancora in Rai. Mi invita per un caffè al residence di Ripetta di Roma. E mi offre la conduzione di un programma domenicale e di un settimanale stile Tv7». È il 1982. Ma l’Emilio rifiuta. Poi se lo ritrova davanti al Castello Sforzesco, il Cavaliere, alla festa per la Coppa Campioni appena vinta dal Milan. Sono passati sette anni dal primo caffè.

Per come l’ha sempre ricostruita Fede, lui dice di essere in cerca di un editore. Galliani risponde «e noi cerchiamo un direttore». E qualche mese dopo Berlusconi alza il telefono: «Emilio, hai voglia di darci una mano per l’informazione?». Fin qui l’Emilio che racconta se stesso.

Ma quando sono gli altri a raccontare lui, ecco che vien fuori il suo best of. A Gad Lerner, che nel dicembre scorso gli dedica parole amare («Verrà ricordato ato più come selezionatore delle ragazze di Berlusconi»), Fede risponde con citazioni auliche. «Non sarai tu a decidere come sarò ricordato. Tu, quando arriverai a 80 anni, soltanto come un imbecille. (…) Se ho avuto delle storie d’amore me le sono meritate. Tu sei troppo brutto per averne avute. Soltanto se ridi scappano pure i mostri. Coglione».

Su almeno uno dei commi di cui sopra, quello che comincia con «se ho avuto delle storie d’amore…», avrebbe avuto da ridire financo la compianta Audrey Hepburn. Perché Fede, evidentemente non accontentandosi di aver sbandierato un flirt con Enza Sampò e dei non meglio precisati «incontri segreti» con Maria Pia Fanfani, fece credere di aver avuto una storia anche con lei. Salvo poi precisare di essersene solo innamorato (c’è una piccola differenza, no?) quando l’attrice era venuta in Italia, a Taormina, per il David a Vacanze romane.

In fin dei conti ha fatto così anche nelle ultime quarantott’ore. «È stato un colpo di mano di Confalonieri». Anzi no, «mai detto che è stato un colpo di mano di Confalonieri». Tra le due frasi, l’intervento del padrone. E quel ciuccio che sarà parcheggiato sempre là. E pazienza se di fronte ci saranno le telecamere di un programma su Canale 5 e non più il Tg4. Quando Emilio esce, a riverder le stelle ci riesce sempre.

Written by tommasolabate

30 marzo 2012 at 08:40

L’ultima disperata carta di Berlusconi. Il Colle in cambio del via libera alla Grande Coalizione.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 28 febbraio 2012)

Mentre lui, sul Corriere del Ticino, prova a superare ogni record di filomontismo ribadendo che non si candiderà mai più per Palazzo Chigi, il Giornale di famiglia – con un lungo articolo di Paolo Guzzanti – torna a darlo in corsa per il Quirinale. Che cosa ha davvero in mente Silvio Berlusconi?

Lo scenario che disegnano nella sua cerchia ristretta sembra una storia a metà tra il grottesco e la fantascienza. E parte da un’analisi sulla primavera del 2013 che alcuni berlusconiani hanno svolto alla presenza del Cavaliere qualche settimana dopo Natale. Della serie, «non dimentichiamoci che l’anno prossimo il primo atto della legislatura, dopo le elezioni dei presidenti di Camera e Senato, sarà la scelta del nuovo presidente della Repubblica. Sarà quest’ultimo a nominare il prossimo presidente del Consiglio…». Com’è successo nel 1992, quando fu Oscar Luigi Scalfaro, appena insediatosi al Colle, a conferire l’incarico a Giuliano Amato. E, ricordava l’altro giorno a Montecitorio il deputato del Pdl Peppino Calderisi, «com’è capitato anche nel 2006, quando prima si elesse Giorgio Napolitano, poi quest’ultimo nominò Romano Prodi presidente del Consiglio». Di conseguenza, prosegue il ragionamento che alcuni berluscones hanno condiviso col Capo, «in linea di principio potremmo ragionare sul Quirinale soltanto se avremo i numeri per minacciare la Grande coalizione a cui pensano Casini e una parte del Pd..».

Certo, a oggi è impossibile immaginare anche solo lontanamente Casini che dà il via libera per la corsa di Berlusconi verso il Colle in cambio del sostegno alla Grande coalizione. Sta di fatto che, da quando ha cominciato a sintonizzare le sue antenne sul 2013, il Cavaliere ha mutato la sua strategia, rivoluzionando persino l’approccio dei falchi del Pdl nei confronti di Monti.

Fino alla fine del 2011 Berlusconi è rimasto in silenzio. Adesso, come ha fatto anche ieri nell’intervista rilasciata al Corriere del Ticino, incensa il governo dei Professori e il suo comandante in capo in maniera fin troppo sospetta. «Oggi lui (Monti, ndr) si trova nella condizione di realizzare quelle riforme che il mio esecutivo aveva avviato (…). Per questo gli daremo il sostegno necessario». E ancora: «Conosco bene la serietà e la competenza di Monti, che io stesso nel 1995 sostenni per l’incarico di commissario europeo al Mercato interno». Per non parlare di tutti i falchi – politici e intellettuali – che incidono nello stesso perimetro del Cavaliere. Il Giornale, che insieme a Libero e il Foglio minacciava il «ricorso alla piazza» per fermare la tecnocrazia, adesso ha cambiato registro. Al punto che il suo direttore Alessandro Sallusti, ospite di Andrea Vianello durante la trasmissione di RaiTre Agorà, la settimana scorsa s’è spinto fino al punto di dire che voterebbe per Monti se quest’ultimo si candidasse alla guida di uno schieramento di centrodestra. Stesso discorso, tanto per fare un altro esempio, vale per Daniela Santanché: “prima della cura” le dichiarazioni di guerra contro i Professori, “dopo la cura” la conversione al montismo ortodosso condito dall’auspicio – affidato un paio di settimane fa al Foglio – di diventare «la sorella di Elsa Fornero».

Bastano le voci sulla speranza di tutelare Mediaset (anche nell’asta per le frequenze tv) per spiegare la scelta berlusconiana di giocare tutte le fiches sulla Grande Coalizione anche dopo il 2013? Bastano i veleni di Bossi sulla sentenza Mills («Pensavo che Berlusconi fosse condannato, invece i suoi voti sono determinanti per il governo Monti») per motivare la presenza del Cavaliere tra gli ultras dei Professori? Oppure c’è dell’altro? E qui si ritorna alla casella di partenza. A quell’ormai disperata rincorsa dell’ex presidente del Consiglio verso il Colle. Una rincorsa che, a prender per buona l’analisi di Paolo Guzzanti sul Giornale di ieri, potrebbe presto ricominciare. Titolo: «Adesso il Cavaliere è più forte: può puntare pure al Quirinale». Catenaccio: «La sentenza Mills rimette in pista Berlusconi».

Tutto, però, dipenderà dalle elezioni dell’anno prossimo. E dall’eventualità che Berlusconi, dopo la tornata elettorale del 2013, abbia ancora la forza di far dipendere da lui la nascita di una Grande Coalizione, magari con Mario Monti o Corrado Passera a Palazzo Chigi. Fino ad allora, però, rimarrà dietro le quinte. Uscendo allo scoperto solo per garantire il suo sostegno ai Professori. E continuando, in privato, a inventare barzellette. Come quella con cui ha allietato di recente alcuni amici, che ha per protagonista Bossi junior. «Il Trota va dall’Umberto per parlargli della stagione dei congressi della Lega. “Papà, papà, tra pochi giorni c’è il congresso a Bergamo. Che cosa dobbiamo fare?”. E Bossi, di rimando: “Andremo a parlare coi bergamaschi”. E il giovane Renzo, insospettito: “E con le bergafemmine no?”».

Dal no di Monti al rischio Tar. Alemanno pensa ancora alle dimissioni?

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 febbraio 2012)

Quando si presenta davanti a Mario Monti per ascoltare il «no» del Professore alle Olimpiadi di Roma 2020, Gianni Alemanno è di fatto un sindaco dimissionario. Per sua stessa ammissione.

Gianni Alemanno

Perché lo ripete per tutta la mattinata, Alemanno, ai suoi. «Se Monti nega la garanzia alle Olimpiadi mi dimetto per protesta». E visto che l’orientamento dei Professori all’ora di pranzo è già definito, ecco che il sindaco convoca una conferenza stampa ad hoc per il grande annuncio. L’appuntamento è alle 17.30, in Campidoglio.

Poi, però, nella war room alemanniana prende corpo l’idea della frenata. Infatti il sindaco, quando abbandona Palazzo Chigi dopo il faccia a faccia col presidente del Consiglio, mette a verbale che no, niente dimissioni. «Assolutamente no». E, come a voler rimarcare il concetto, aggiunge: «Mi spiace deludere i miei oppositori».

Sembra il viatico verso un esito scontato. Roma perde le Olimpiadi ma Alemanno rimane al suo posto. Eppure alle 8 di sera, nel momento in cui il Riformista va in stampa, il tormentone è tutt’altro che archiviato. E infatti quella parola, «dimissioni», continua incessantemente a comparire su ogni singolo messaggio che viaggia dalla stanza del sindaco al Campidoglio alla Camera dei deputati. Non a caso Pier Ferdinando Casini, che evidentemente è a conoscenza dei tormenti di «Gianni», dice ai cronisti che «non chiederemo le sue dimissioni». E non è tutto. C’è anche la conferenza stampa delle 17.30, che si era trasformata un giallo degno della miglior Agatha Christie. Prima viene confermata, poi rinviata di mezz’ora e infine misteriosamente annullata. Per lasciar spazio a una nota in cui Alemanno si limita al compitino. Prendere atto «della decisione del governo», ringraziare «la città e il Coni» e, soprattutto, spiegare che «rispetto le queste considerazioni (dell’esecutivo, ndr) ma non le condivido».

Mario Monti

Dopo il tramonto, però, succede qualcos altro. Silvio Berlusconi fa sapere che, se fosse stato premier, avrebbe dato il via libera all’operazione a cinque cerchi. E il Pdl, seguendo un canovaccio concertato con il sindaco di Roma, inizia ad attaccare Monti con toni a dir poco sorprendenti. Fabrizio Cicchitto chiede al premier di riferire in Aula alla Camera «le ragioni di questa scelta, in modo che possiamo aprire un dibattito in merito». E pure Angelino Alfano protesta: «Il no alle Olimpiadi è un’occasione sprecata. Perché non può passare l’idea che l’Italia sia un paese senza fiducia e senza speranza nel futuro». È un fuoco di fila con un unico obiettivo: il governo dei Professori. «La decisione di rinunciare a sostenere la città di Roma per Olimpiadi del 2020 ha il gusto amaro tipico delle grandi occasioni perdute», dice Beatrice Lorenzin. «La scelta del presidente Monti è estremamente amara non solo per i giovani atleti del nostro Paese, ma soprattutto per tutti i giovani italiani che, nonostante il periodo di crisi, tentano in tutti i modi di declinare la vita in positivo», aggiunge la leader dei giovani pidiellini Annagrazia Calabria. Il tutto mentre Alemanno si presenta di fronte ai microfoni del Tg5 per rettificare parzialmente il comunicato di metà pomeriggio. E tornare all’attacco: «In questo modo non si scommette sul futuro non solo di Roma ma di tutta l’Italia». E ancora: «Ci domandiamo adesso quale sia il progetto di sviluppo di questo governo».

Rosella Sensi

Ricapitolando, il Pdl prende di mira Monti, che paradossalmente viene difeso dai leghisti («In questo momento di crisi la candidatura di Roma alle Olimpiadi sarebbe stata come l’overdose per un tossicodipendente»). E Alemanno non abbandona l’idea del «colpo a effetto». Quale? Annunciare presto (o solo minacciare) le dimissioni da sindaco, scaricando sul governo il tramonto di un sogno olimpico che comunque si sarebbe infranto nel settembre del 2013. E puntare a guadagnare tempo. Perché, come il sindaco sa benissimo, tra pochi giorni il Tar potrebbe nuovamente cancellare con un tratto di penna la sua giunta, di nuovo per il mancato rispetto delle quote rosa. Tra l’altro una delle due donne della sua squadra, Rosella Sensi, ha di fatto perso il suo dossier di competenza (le Olimpiadi, appunto). Con il passo indietro, insomma, «Gianni» bloccherebbe sul nascere l’ennesima sconfessione (come farebbe il Tar ad annullare la giunta di un sindaco dimissionario?), uscirebbe dall’angolo in cui è confinato da sondaggi choc (tutte le rilevazioni lo danno sicuro perdente alla prossime comunali) e prenderebbe fiato. Magari facendosele politicamente respingere dal Pdl, le dimissioni.

Lo strano caso del Dottor Silvio e di Mister B.

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(di Tommaso Labate, dal sito Lettera 43, 25 gennaio 2012)

I falchi del Pdl ormai lo chiamano «lo strano caso del Dottor Silvio e di Mister B». Che, in fondo, altro non è che la trasposizione dell’adagio italiano sul poliziotto buono e quello cattivo. Con la differenza che si tratta sempre della stessa persona. E cioè di lui, Silvio Berlusconi.

Il Cavaliere versione Dottor Silvio

Perché è vero, è sempre esistito un Berlusconi pubblico e un Berlusconi privato. Ma la differenza rispetto al recentissimo passato è che il Cavaliere versione 2012 è l’esatto contrario del politico che la sparava grossa al riparo da sguardi indiscreti salvo poi gettare acqua sul fuoco quando si trattava di interventi pubblici.

L'ex premier versione Mister B.

Adesso, quando deve manifestare le sue idee sul governo Monti, l’ex presidente del Consiglio usa una strategia diametralmente opposta: incendiario in pubblico, pompiere in privato. Perché? Per l’articolo intero cliccare qui.

Written by tommasolabate

26 gennaio 2012 at 12:21

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