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Gioielleria Montecitorio. Senza le riforme Monti, la Camera non ha nulla da fare. E legifera sulle pietre preziose.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 25 novembre 2011)
Quando l’onorevole leghista Manuela Dal Lago arriva all’enunciazione «dell’articolo 9», l’Aula di Montecitorio sembra trattenere il fiato. Perché «l’articolo 9», spiega, «prevede che il ministero dello Sviluppo economico curi la realizzazione di campagne di comunicazione pubbliche, con cadenza almeno annuale, dirette a promuovere nei consumatori la conoscenza delle problematiche…». Oggi la Dal Lago è all’opposizione, come tutti i leghisti. Eppure il berlusconiano Antonio Mazzocchi, che invece sostiene il governo Monti, le dà ragione. D’altronde, sottolinea l’onorevole del Pdl, «c’è uno stato di incertezza e confusione, che interessa negativamente sia gli operatori che i consumatori». Un ideale rullo di tamburi accompagna l’ingresso sulla scena di Gabriele Cimadoro, che non è soltanto un “semplice” deputato dell’Italia dei Valori, ma anche il cognato di Tonino Di Pietro. Cimadoro fa del blocco pidiellin-leghista un boccone solo? Li spiezza in due come Ivan Drago minacciava di fare con Rocky IV? Macché, è d’accordo pure lui. Infatti riprende il ragionamento della Dal Lago e di Mazzocchi. E chiude il cerchio: «Questo lavoro svolto in modo bipartisan cerca di portare qualcosa di serio, di operativo e di utile al Paese».
Domanda: di che cosa sta discutendo la Camera dei Deputati alle 19 e 10 di mercoledì 23 novembre 2011, due ore dopo l’ennesima chiusura in rosso di Piazza Affari? Della crisi dei Btp, delle richieste della Bce, dei rischi dei Bund? O, magari, dei provvedimenti urgenti annunciati da Monti? Oppure del cambio della guardia in Finmeccanica? Acqua, acqua. A compattare il Palazzo in una discussione animatamente bipartisan è «la gemmologia». Mentre l’Italia crolla, infatti, a Montecitorio si discute, definizione del Devoto-Oli, «dello studio sistematico delle pietre preziose».
Dovendo giustificare un lauto stipendio e non essendosi ancora materializzati i provvedimenti annunciati dal governo Monti, gli onorevoli deputati decidono di riempire il tempo con una norma che poteva essere tranquillamente approvata in sede legislativa dalla commissione Attività produttive. Il dibattito che va in scena a Montecitorio ieri l’altro, infatti, è come la «matematica pura» citata da un personaggio del film Bianca di Nanni Moretti. «Sublime, ma inutile».
La discussione che accalora il Palazzo è quella sul «testo unificato delle proposte di legge Mazzocchi e Carlucci; Mattesini ed altri», sulla «regolamentazione del mercato dei materiali gemmologici». Pietre preziose, insomma. Un tema cruciale, soprattutto in tempi di crisi, eh? La leghista Dal Lago, in qualità di relatore, spiega che nel provvedimento «rientrano i materiali utilizzati nella produzione di gioielli, monili e oggettistica in genere». Roba da “paese reale”, insomma. «Suddivisi in minerali di origine naturale, minerali sintetici, prodotti artificiali, perle naturali e via di seguito». It’s gemmolocy, stupid. «Per la denominazione di questi materiali è vietato l’uso dei termini “semiprezioso” e “fino”».
E le pene previste per i negozianti che rifilano una gemma fasulla? «Il collega qui presente», sottolinea la Dal Lago indicando Cimadoro, «se non sbaglio le voleva maggiorate». «Volevo la crocefissione!», interviene il cognato di Di Pietro. E Dal Lago, conciliante: «Non è neanche sbagliato».
Donella Mattesini, deputata aretina del Pd, si iscrive a parlare: «Signor Presidente, in un momento di crisi come questo parlare di gemme può sembrare in qualche modo improprio». Silenzio. «Può sembrare di volersi riferire semplicemente a una nicchia…». Speranza. «…E, quindi, a un privilegio per pochi». Ma è un fuoco di paglia. Anche il ricongiungimento con la realtà di Mattesini dura poco. «Intendo ora descrivere un po’ la filiera produttiva delle gemme, che è complessa. Si parte dalla miniera per passare al trasporto nei luoghi di lavorazione…».
E non è tutto. Visto che un esercizio inutile può essere piacevole, ecco che la Dal Lago riprende la parola per chiedere che il proseguimento della discussione sulle «gemme» venga anticipata rispetto «al testo unificato di modifica dell’articolo 81 della Costituzione», che riguarda l’introduzione del pareggio di bilancio. Per fortuna interviene il deputato pd Roberto Giachetti, che sventa il blitz. E si va tutti a casa. Con una gemma nel cuore, dopo una giornata di fatica. E lo spread, intanto, sale.
«Manca il culatello di tua sorella». Alla Camera arriva l’opposizione slow food.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 aprile 2011)
Della «cipolla rossa di Breme», si sgola l’onorevole Zucchi Angelo del Pd, «se ne producono 600 quintali». E l’Aula di Montecitorio trattiene il fiato.
Gennaro Malgieri del Pdl urla: «Ma l’abbiamo già sentito!». Amedeo Laboccetta, sempre del Pdl, s’inalbera: «Ma che fa? Si mette a leggere di nuovo?». Il democratico Zucchi, pavese di Siziano, anni 56, non si cura di loro. Ma guarda e legge: «Il lardo di Colonnata rappresenta uno dei nostri prodotti dop più ambiti, (…) che tutto il mondo ci invidia». Quanto alla cipolla rossa di Breme, aggiunge, «la coltivano sei agricoltori. E ha una tradizione che si ritrova fin dal 906 dopo Cristo».
Nell’anno duemilaundici, per la precisione il 6 aprile, ieri insomma, Montecitorio si trasforma in un pensatoio che manderebbe in visibilio financo il più coriaceo seguace di Carlin Petrini. L’Aula dello slow food, insomma. Merito (o colpa) del raccordo Pd-Idv-Udc, che per rallentare l’approvazione del processo breve caro al Cavaliere produce un’inedita forma di ostruzionismo. Domenica sera Roberto Giachetti, segretario d’Aula dei Democratici, si rilegge l’articolo 32 comma 3 del Regolamento della Camera. È uno strumento normativo che ciascun deputato può usare per «precisare meglio» il proprio pensiero del giorno prima. E così, come da copione, tutti i protagonisti del dibattito del martedì tornano sulla scena. Con argomenti di alta cucina.
«Onorevole Giachetti, non può infliggerci oggi una lezione su Moby Dick di Herman Melville», ammonisce Rocco Buttiglione presiedendo l’Aula in assenza di Fini. Infatti Marina Sereni, del Pd, chiude con la letteratura e passa alla cucina. «Anch’io voglio avvalermi dell’art. 32 comma 3 per chiarire il mio pensiero di ieri (martedì, ndr)», dice la deputata fassiniana. Che, con la scusa di intervenire sul decreto sui piccoli comuni, attacca a parlare dei prodotti tipici dell’Umbria: «Penso al vino sagrantino di Montefalco, al tartufo nero di Norcia, allo zafferano di Cascia, ai prosciutti tipici di Preci. È ancora presto, non potete avere fame, colleghi!», insiste Sereni prima di intrattenere gli onorevoli colleghi sulla «straordinarietà dell’esperienza di Brunello Cucinelli e del cachemire prodotto in un borgo splendido come Solomeo».
Dai gruppi di Pdl e Lega s’alzano cori di insulti. Zucchi (Pd) cita la comunità ebraica di Mortara (Pavia), che 600 anni addietro chiese e ottenne «di inventare un salame che non venisse dal maiale: così nasce il salame d’oca». «Onorevole Zucchi», lo incalza il pdl Maurizio Lupi dalla presidenza, «la ringrazio per la spiegazione dotta ed erudita sul salame d’oca».
Ma la sinfonia culinaria raggiunge vette inesplorate quando prende la parola il deputato marchigiano Massimo Vannucci (Pd), che si lamenta dell’assenza di un dettaglio dal resoconto stenografico del giorno prima: «Quando Ciccanti (Udc) parlava del prosciutto di Carpegna, dai banchi della lega è arrivato un grido: “Mettici anche il culatello!” Ciccanti ha risposto: “Di tua sorella, probabilmente”. Questo nel verbale non c’è». E Lupi, dalla presidenza: «Perché si vede che la sorella non aveva comprato il culatello». E Vannucci, di rimando: «Eh no! Altrimenti non si capisce. Lo faccio per l’onorevole Ciccanti! Io non so se la sorella del collega producesse culatello e quindi se l’onorevole Ciccanti si riferisse a questo». Pdl e Lega aumentano il volume delle loro proteste e citano gli appelli della scorsa settimana del capo dello Stato. Un altro deputato del Pd, Salvatore Margiotta, prende la parola e precisa: «Ho citato anch’io alcuni prodotti tipici della Basilicata. L’Aglianico del Vulture, i pecorini di Moliterno e di Filiano, i fagioli di Sarconi, le acque minerali del Vulture, l’olio Barile, i peperoni di Senise…Ma non voglio dire che i prodotti della Lucania sono migliori di altri che esistono nel nostro paese. Potrei fare un elenco infinito», conclude Margiotta: «Il tartufo d’Alba, il lardo di Colonnata, il Barolo e Brunello di Montalcino, tutti i prodotti dell’Umbria citati poc’anzi dalla collega Marina Sereni, nonché tutti quelli cui ha fatto riferimento il collega Zucchi, tra cui anche il salame di Mortara…». Morale della favola? Alle 21, quando il Riformista va in stampa, dell’approvazione del processo breve non c’è neanche l’ombra. C’è però Fabrizio Cicchitto, triste solitario y final. Che, temendo un altro blitz dei Franceschini boys, precetta tutti i “suoi” in vista di una probabile seduta notturna…
Quel pomeriggio di un giorno da cani. A Montecitorio.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 aprile 2011)
«Che cos’è il genio?», si chiedeva il “Perozzi” (Philippe Noiret) in Amici miei prima di magnificare l’ennesimo scherzo elaborato dal “Necchi” (Duillio Del Prete). «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione!». Il “Necchi” che ieri ha mandato ko la maggioranza è il segretario d’Aula del Pd, Roberto Giachetti.
Aula di Montecitorio, interno giorno, ore 10,25. Quando chiede la parola a inizio seduta, nessuno immagina che Giachetti stia per mettere insieme «fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione», i quattro elementi di un menù parlamentare che trasformerà il 31 marzo del 2011 nell’ennesimo «giorno da cani» della maggioranza. Nel suo intervento il deputato del Pd chiede che dentro il «processo verbale» di cui è appena stata data lettura rientrino alcune performance in cui si era prodotto Ignazio La Russa il giorno prima. «Nel pieno del suo intervento il collega La Russa, rivolto ai colleghi del Pd, affermava che siamo dei conigli», dice. «Chiedo almeno che rimanga agli atti della Camera e soprattutto dentro il processo verbale (…) una frase del genere, che per quanto mi riguarda qualifica il Ministro», insiste.
Sembra una goccia nell’oceano degli atti parlamentari. E invece l’intervento di Giachetti è la biglia che, magicamente, manda in tilt il flipper pidiellino, leghista e responsabile. Meno di venti minuti dopo, infatti, la maggioranza è in un angolo. Per la prima volta nella storia della Repubblica, la Camera boccia il processo verbale del giorno prima. In teoria non significa nulla. In pratica, però, l’opposizione guadagna le ore (preziose) per ricacciare in alto mare il processo breve. Gli attimi prima della chiusura della votazione sono un inferno. Fini si sgola: «Prego i colleghi di prendere posto e di votare. Il Ministro Brunetta ha votato? Il Ministro Fitto ha votato? Ministro Alfano, prego. Dichiaro chiusa la votazione». L’ultimo secondo è fatale al guardasigilli, che sbaglia a inserire la tesserina per votare nell’apposita fessura e poi, con un gesto di stizza, la lancia contro Di Pietro. Ed è fatale anche alla Prestigiacomo, che si volta furibonda verso la terza carica dello Stato (i due, un tempo, si volevano bene assai). «No, no», grida Stefy a Gianfry, chiedendogli implicitamente di tenera aperta la votazione. «Gli ha gridato “stronzo”, Prestigiacomo ha gridato “stronzo” a Fini», giurano dai banchi dell’opposizione (attendesi il resocondo definitivo, oggi). Game. Set. Match. Il presidente della Camera decreta: «Onorevoli, la votazione è stata dichiarata aperta oltre ogni limite. La Camera respinge, a parità di voti».
Dai banchi del Pdl, il tarantino Pietro Franzoso grida nei confronti di Fini frasi che le vecchie educande avrebbero definito «irripetibili». Il presidente della Camera viene colpito da una copia del Corriere della Sera, mentre una palletta di carta lo manca di poco. «Non sono stato io, erano da dietro», sbraita Franzoso. I boatos (giustizialisti) incolpano le berlus-blondies Castiello Giuseppina da Afragola e Mannucci Barbara da Roma. La prima per il lancio del giornale, la seconda per la palletta di carta.
Ma anche nel più tragicomico degli spettacoli può spuntare una scena tra il misero e il becero. Succede quando, dopo un intervento di Italo Bocchino, Osvaldo Napoli perde la testa e si dirige verso l’assistente della deputata Ileana Argentin. «Tu non puoi applaudire, capito?», dice il berlusconiano piemontese. «Che succede? Che c’è, onorevole Argentin? Non capisco, ha chiesto di parlare, onorevole Argentin?», dice Fini dallo scranno più alto. «Mi hanno rotto anche il microfono! Si è appena avvicinato un collega per dire al mio operatore che non deve permettersi di applaudire» (Argentin). «E ha ragione», sbraita il leghista Polledri. «Ma come si permette!» (Fini a Polledri). «Allora ricordo all’Aula che io non muovo le mani…» (Argentin). «Invito il collega che ha proferito la parola a scusarsi. Onorevole Polledri, si scusi o chiarisca» (ancora Fini). Alcuni deputati del Pd bloccano il collega Michele Meta, amico di una vita di «Ileana», che prova a raggiungere i banchi della maggioranza. Dai banchi del Carroccio parte un «handicappata del cazzo» riferito alla Argentin. Che conclude: «Non desidero le scuse di nessuno. Credo che lei mi conosca abbastanza per sapere che non strumentalizzo mai queste cose. Ma se desidero applaudire un mio avversario, lo faccio come credo e quando credo. Se non lo posso fare con le mie mani, lo faccio con le mani di chiunque». Applausi. Sia Polledri che Napoli, quest’ultimo anche in Transatlantico, si scusano.
La giornata nera del governo si fa nerissima nel pomeriggio, quando il processo breve scompare dai radar. «Questi del gruppo del Pdl so’ proprio incompetenti. Si sono fatti fregare ancora», è l’analisi del “responsabile” Francesco Pionati. Tutto per “colpa” del processo verbale e dell’intuizione di Giachetti. Tutta colpa delle pagine 72 e 73 del resoconto stenografico di mercoledì 30 marzo, il La Russa day. Che – testualmente – dà dei «conigli» ai deputati dell’opposizione e si becca in cambio un doppio «fascista, coglione!». Qualche riga più sotto c’era quella parolina che il ministro della Difesa aveva rivolto al suo ex amico Fini. Per gli atti di Montecitorio è un «va…» (all’indirizzo della presidenza). Ma fior di testimoni, come hanno riportato tutti i giornali di ieri, giurano che quel «va…» era corredato da due effe, una a, una enne, una ci, una u, una elle e una o.