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«Si vota nel 2012». Renzi scende in campo e prepara il «grande annuncio»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 ottobre 2011)
Lo spazio per la diplomazia s’è esaurito. La settimana prossima Matteo Renzi farà il primo passo verso le primarie per la premiership.
A meno di colpi di scena dell’ultim’ora, alla kermesse dei post-Rottamatori convocata alla Stazione Leopolda tra otto giorni, il sindaco di Firenze mostrerà la proprie carte. Chiarendo oltre ogni ragionevole dubbio che, in caso di elezioni anticipate, lui stesso parteciperà alla primarie per la leadership del centrosinistra.
Stavolta non si tratta semplicemente di dar seguito alla generica promessa, ribadita ieri mattina su Rai Tre davanti alle telecamere di Agorà, secondo cui «uno di noi (sottinteso: della sua generazione, ndr) si candiderà». No. Perché il dossier «primarie 2012» istruito da Renzi sarebbe già arrivato a uno dei capitoli più delicati: quello della raccolta dei finanziamenti.
Chi lo conosce bene giura che «Matteo» ha già incontrato alcuni imprenditori in vista della delicatissima partita delle primarie, in cui si troverà a sfidare quantomeno l’unico iscritto “certo” alla competizione, e cioè Pier Luigi Bersani. I nomi, ovviamente, sono coperti dal più stretto riserbo. Il direttore dell’orchestra del fund raising quello no, è facilmente intuibile. Si tratta del presidente dell’Aeroporto di Firenze Vincenzo Manes, che è anche il numero uno di Intek spa, una società di partecipazioni industriali, finanziarie e di servizi con ottomila dipendenti tra Europa e Asia.
L’accelerazione di Renzi verso la candidatura a premier, in fondo, è l’elemento che ha catalizzato verso l’appuntamento della Stazione Leopolda una serie di «pezzi da novanta» che spaziano tra l’accademia e la finanza, i giornali e le banche. Come Pietro Ichino e Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e persino Corrado Passera, messi in fila l’altro giorno da un informato articolo apparso sul sito L’Inkiesta. O come Chicco Testa, managing director di Rothschild, già parlamentare, presidente dell’Enel e – più recentemente – del Forum nucleare italiano.
Domanda: perché Renzi, come in fondo tutto lo stato maggiore del Partito democratico, è sicuro che le elezioni politiche si terranno nella prossima primavera? Semplice. Perché tutti, come dimostra il moltiplicarsi delle fibrillazioni interne ai Democratici, scommettono che a gennaio Silvio Berlusconi staccherà la spina al suo stesso governo. Anche Walter Veltroni ed Enrico Letta, che pure ufficialmente continuano a spingere per la prospettiva dell’esecutivo istituzionale, sono convinti che gli spazi di manovra per i fan del governissimo si siano esauriti. Il proscioglimento del premier nel processo Mediatrade, che i legali del Cavaliere considerano come l’anticamera dell’assoluzione su Mills, ha fatto il resto. «A gennaio», riflette a voce alta un altissimo dirigente del Pd, «quando avrà scongiurato definitivamente il governo istituzionale e si sarà lasciato alle spalle parte delle rogne giudiziarie, Berlusconi provocherà lo showdown. Noi andremo alle primarie mentre lui lascerà che sia Alfano a giocarsi la partita…». Con quel porcellum che, ovviamente, consentirebbe al centrodestra di evitare l’ecatombe (con un’altra legge elettorale) del 2013.
Anche Bersani sa che la strada verso il combinato disposto “primarie-voto anticipato” è irrimediabilmente già tracciata. Il segretario del Pd, che ieri l’altro è volato a Madrid per il Global Progress, risponde stizzito a chi insinua che il suo temporeggiare sulle primarie sia dettato dalla paura di perdere. «Bersani – dice di se stesso, parlando in terza persona – è una persona seria che non ha paura di nessuno». Ma prima, aggiunge, «serve lo spartito». Poi sarà la volta «dei suonatori». Prima il programma, poi il leader.
Ma il big bang che Renzi ha programmato per la manifestazione della Leopolda è destinato a scombinare i piani di tutti. Oltre che a ridisegnare le geometrie interne del Pd, sia nella maggioranza che nella minoranza. Dentro il partito c’è chi giura che le ultime discussioni sulla linea politica – ad esempio sull’intervento della Bce, che ha visto i lettiani scontrarsi col responsabile economico Stefano Fassina – siano destinate ad avere un seguito. Letta, ad esempio, ha intensificato i suoi colloqui con Renzi. Al pari di Fioroni e Veltroni. Quest’ultimo, almeno a sentire i suoi, non avrebbe del tutto accantonato l’idea di «scendere in campo in prima persona». Certo, per una scommessa del genere, «Walter» avrebbe bisogno di almeno un anno in più di tempo. Ma l’orizzonte del voto nel 2013 sembra ormai uscito da tutti i radar. A cominciare da quello di «Matteo».
Bersani va al corteo. Ma c’è tensione dentro il Pd.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 settembre 2011)
Alle 16 di ieri, quando Pier Luigi Bersani annuncia la sua partecipazione allo sciopero generale della Cgil, un pezzo del partito scende sul piede di guerra. Da Veltroni a Letta, da Fioroni a Renzi: tutti contro la decisione del segretario di schierare i Democratici con la Camusso.
Massimo D’Alema sceglierà la piazza di Genova, approfittando della concomitanza con un dibattito nel capoluogo ligure che aveva in agenda da due mesi. E in piazza ci sarà anche Rosy Bindi, per protestare contro l’articolo 8 della manovra e soprattutto perché – dice – «è un dovere esserci» e dire «al governo che così non va». Non solo: manifesteranno dietro le bandiere della Cgil anche Stefano Fassina e Sergio Cofferati, l’ex ministro Cesare Damiano e Paolo Nerozzi. E altri ancora.
Ma, stavolta, la frattura interna al Pd sulla scelta di partecipare allo sciopero della Cgil va ben oltre il solito giochino del «chi va / chi non va» alle manifestazioni del sindacato di corso d’Italia. Soprattutto perché, stavolta, a finire sott’accusa sono, nell’ordine: la decisione di Bersani di prendere parte alla manifestazione di Roma; e il comunicato con cui il responsabile Economia del partito, Stefano Fassina, ufficializza la «presenza» del Pd ai cortei.
Il segretario, che sin da subito aveva guardato con attenzione allo sciopero indetto dal sindacato della Camusso («Dobbiamo essere ovunque si protesti contro questa manovra», aveva scandito giovedì nella sua relazione al coordinamento del partito), ha preso la decisione di scendere in piazza solo ieri. Soprattutto dopo aver ascoltato i rappresentanti degli enti locali che minacciavano la restituzione delle deleghe al governo. Arrivando a quell’incontro è scattata la molla che ha convinto il leader pd a sciogliere ogni riserva. «Certo che ci sarò, ci saremo con tutti quelli che criticano questa manovra», ha spiegato Bersani. E ancora, sempre dalla viva voce del segretario: «Il governo? Sono irresponsabili, non ho altra definizione. Chiederemo alla Camera lo stralcio dell’articolo 8». La nota di Fassina, altro tassello contestato da un pezzo di partito, era arrivata poco prima. «Il governo Berlusconi deve andare via per il bene del Paese», aveva messo nero su bianco il responsabile economico del Pd. «Le mobilitazioni di lavoratori, giovani e pensionati vanno sostenute. Per questo – conclusione – saremo allo sciopero generale indetto dalla Cgil».
E il pezzo del partito che si oppone? Walter Veltroni, per adesso, sceglie il silenzio. Ma basta ascoltare uno degli esponenti democratici a lui più vicini, Giorgio Tonini, per capire che aria tiri dalle parti dell’ex segretario. «Capisco le ragioni della Cgil ma non le condivido. Questo sciopero è sbagliato in sé», spiega il senatore. E la scelta del Pd di essere presente? Tonini mette da parte qualsiasi eufemismo e lo dice con nettezza: «Il compito del Pd, che il partito non sta svolgendo come si deve, non è quello di schierarsi con un sindacato che scende in piazza da solo. Ma incalzare il governo, portarlo su strade come quelle indicate da Romano Prodi nel suo editoriale sul Messaggero di domenica». Riforme di lungo periodo e «severe decisioni a effetto immediato», insomma.
Anche Beppe Fioroni, il deputato del Pd più vicino alla Cisl targata Bonanni, scende in campo contro Bersani: «La Cgil, ovviamente, è libera di fare le scelte che ritiene più oppurtune. Ma non non possiamo andarle sempre dietro». Perché, aggiunge l’ex ministro della Pubblica Istruzione, «la nostra bussola dovrebbe essere l’invito alla responsabilità che ci è arrivato l’altro giorno da Giorgio Napolitano. Non possiamo fare come quei surfisti che provano a cavalcare l’onda della piazza, salvo poi rischiare di venirne travolti».
L’area del dissenso va oltre i confini di quel Movimento democratico di cui sia Veltroni che Fioroni fanno parte. Lo schieramento di piazza del Pd non piace a Enrico Letta, anche se lui e il suo braccio destro Francesco Boccia scelgono la strada del silenzio. E non piace a chi, come Marco Follini, dice che «chi allinea il Pd alla Cgil non fa un buon servizio». Dissente, anche se tace, pure Matteo Renzi. Ma la posizione del sindaco di Firenze è nota: «Non possiamo andare dietro la Cgil».
Ma Bersani è convinto di essere sulla strada giusta. «I sondaggi dimostrano che la presenza del Pd nei luoghi dove si protesta contro la manovra è riuscita ad “assorbire” anche il caso Penati», dicono i fedelissimi del segretario. Ma la giornata di oggi è destinata, in un senso o nell’altro, a lasciare un segno nella storia dell’opposizione che verrà. E non tanto per la distinzione tra Vendola («Sarò in piazza») e Casini («Lo sciopero è del tutto sbagliato»). Quanto perché l’opposizione delle altre forze sociali alla mossa della Cgil non si riassorbirà in poco tempo. Basta leggere, e nemmeno troppo tra le righe, l’intervista che il leader della Cisl Bonanni ha rilasciato al settimanale A di Maria Latella: «Questo sciopero è stato deciso per regalare una passerella a leader politici senza più nessuna credibilità».
Referendum e caso Penati cambiano l’opposizione. Lo sfogo di Bersani: “De Magistris è da querela”.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 2 settembre 2011)
«Quello che dice de Magistris è da querela». Chi ne raccoglie lo sfogo giura che per Pier Luigi Bersani l’intervista del sindaco di Napoli a Repubblica di ieri è più di un boccone amaro. È, testualmente, «un colpo basso».
Nemmeno la soddisfazione di ricevere al Nazareno la delegazione dell’Anci e di sentirsi dire nientemeno che da Gianni Alemanno che «sulla manovra del governo c’è una situazione drammatica» ha ripagato il segretario dalla sorpresa ricevuta di buon mattino a mezzo stampa. Stavolta l’attacco non arriva dal centrodestra. A prendere di mira il leader del Pd, con una chiamata in correità sul caso Penati, è Luigi de Magistris. A una domanda di Concita De Gregorio, che lo intervista per Repubblica, il sindaco di Napoli risponde così: «Mi irrita la sorpresa che mostrano i leader di partito di fronte ai casi Bisignani, Penati e quant’altro. Penati era il capo della segreteria di Bersani. Bisignani l’uomo di fiducia di Gianni Letta a Palazzo Chigi. I leader sanno sempre benissimo quel che accade nel loro cerchio stretto».
Parole che Bersani, come spiegano i tanti esponenti del Pd con cui ha parlato ieri, considera «da querela». Questo il «teorema calunnioso» che il leader evoca nella relazione che apre la riunione del coordinamento del partito andata in scena ieri sera (troppo tardi per darne conto integralmente sul Riformista). «Se volessimo usare lo stesso metodo e le stesse argomentazioni di Luigi de Magistris, per il ruolo e la rilevanza che oggi più che mai egli assume nell’Italia dei valori, dovremmo fargli carico di Scilipoti, di Porfidia e di De Gregorio», scrivono in una nota il commissario del Pd partenopeo Andrea Orlando e il segretario regionale campano Enzo Amendola. Parole che riassumono perfettamente il pensiero di Bersani, con cui entrambi hanno parlato dopo aver letto l’intervista del primo cittadino di Napoli.
Dall’inchiesta che ha travolto l’ex presidente della provincia di Milano al vivace (per usare un eufemismo) dibattito interno sulla necessità di sostenere il referendum per il ritorno al Mattarellum: al leader del Pd, che vorrebbe un partito che si dedichi anima e corpo alla guerra contro il governo sulla manovra, i conti non tornano. Sulla seconda questione, che ha messo dalla stessa parte della barricata alcuni big che a stento si rivolgevano la parola (Prodi e Veltroni, tanto per fare un esempio), Bersani ha provato ad ammorbidire i toni. «Non firmo perché sono pagato per fare il parlamentare. E questa è una riforma che va fatta in Parlamento», ha spiegato agli amici più stretti. Però, ha detto ai cronisti, l’approccio del partito nei confronti dei quesiti sarà «amichevole». Un tentativo di sintesi, una via di mezzo che Bersani ha provato a riassumere nella sua relazione al coordinamento di ieri: «Va bene sostenere la raccolta delle firme anche nelle feste del Pd. Ma dobbiamo stare attenti». Perché, ha scandito guardando negli occhi i sostenitori del referendum presenti al summit (da Veltroni a Franceschini, passando per la Bindi), «il Mattarellum non risolve i problemi della politica italiana. E noi non vogliamo rifare l’Unione del 2006». Di conseguenza, ha concluso la parte della relazione dedicata al dossier, «la priorità rimane la nostra proposta di legge depositata in Parlamento. I quesiti devono rimanere “una pistola sul tavolo”».
Bersani avrebbe voluto che la ricognizione col gotha del partito fosse dedicata esclusivamente alla manovra del governo. D’altronde, ha ripetuto, «al contrario del premier penso che l’Italia sia un grande Paese. Gli italiani possono farcela. Per questo dobbiamo essere ancora più duri nei confronti dei pasticci di Tremonti e Sacconi». E soprattutto «insistere nella richiesta di dimissioni del governo perché Pdl e Lega non reggono più le pressioni di un’Europa che ci impone rigore nei conti pubblici». Invece no. L’accerchiamento percepito sul caso Penati gli ha imposto un’altra rotta. «Tutti sono uguali di fronte alla legge. E Penati non fa eccezione», ha detto ieri al summit. E ancora: «Però non potete trascurare la lettera con cui Filippo ha annunciato la rinuncia alla prescrizione. Chi ha un ruolo nel Pd, in questi casi fa un passo indietro».
Eppure si arriva sempre lì. Ai conti che non tornano. Ad alcuni dettagli che stanno lentamente cambiando la geometria delle alleanze dentro il perimetro del Pd e dell’opposizione. Qualche esempio? Veltroni e Fioroni, leader della minoranza interna, si separano sul referendum elettorale (il secondo, intervistato ieri dal Corriere della sera, s’è mostrato decisamente freddo rispetto all’ipotesi). Mentre Enrico Letta e Matteo Renzi, che non sono mai stati granché legati, si sono “avvicinati” al punto che il sindaco di Firenze ha raggiunto lunedì la kermesse lettiana di veDrò (anche) per un’oretta di colloquio (riservato) con il vicesegretario. E non è tutto. La terza stranezza è quella più sorprendente. Alla festa nazionale dell’Api, in corso a Labro, Alessandro Profumo s’è avvicinato in un secondo allo stesso campo che Montezemolo evoca da anni: la politica. «A 54 anni mi metto in gioco, se c’è bisogno di un contributo per far funzionare le cose. La passione non manca». Neanche un’ora dopo Pier Ferdinando Casini l’aveva assoldato come prossimo ministro dell’Economia. Con parole molto chiare: «Sei uno degli uomini più intelligenti del Paese: fai politica».
Il sonno del premier, la notte della Repubblica.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 30 luglio 2011)
I presenti hanno ancora la scena davanti agli occhi. Silvio Berlusconi con le palpebre abbassate e la testa chinata in avanti. Gianni Letta che prova a scuoterlo: «Silvio! Silvio! Silvio!». Istanti che sembrano durare ore. Nel bel mezzo del consiglio dei ministri, quarantott’ore fa.
Palazzo Chigi, interno giorno. Giovedì 28 luglio. Ieri l’altro, insomma. Sembra una “normale” riunione del consiglio dei ministri. “Normale” quanto lo può essere quella di un esecutivo che pare aver imboccato un interminabile viale del tramonto, visto che all’ordine del giorno c’è anche la lettera con cui il presidente della Repubblica ha messo nero su bianco la sua «preoccupazione» per il decentramento dei ministeri a Monza imposto dalla Lega Nord al resto della coalizione.
Come da copione, tocca a Gianni Letta formalizzare di fronte ai membri del governo – e al suo capo in testa, ovviamente – la consegna del testo che arriva dal Quirinale. I contenuti del messaggio di Giorgio Napolitano, naturalmente, sono già noti a tutti. Anche per questo, forse, mentre il sottosegretario alla presidenza del Consiglio parla, molti dei presenti rivolgono lo sguardo verso il Cavaliere.
Succede tutto in pochi istanti. Guidato dagli occhi della maggioranza dei membri del governo, Letta sospende la lettura del messaggio del Colle e si gira anche lui verso Berlusconi. Il presidente del Consiglio ha gli occhi chiusi. E il volto chinato in avanti. «Silvio!», accenna il sottosegretario. Ma il Cavaliere non reagisce. «Silvio!», insiste l’eminenza grigia del berlusconismo, che stavolta prova a scuotere il braccio del presidente del Consiglio. Anche il secondo tentativo va a vuoto. Berlusconi è immobile.
Si tratta di pochi secondi, ovviamente. Che a più d’un ministro, però, sono parsi interminabili. Al terzo tentativo di svegliare il premier, al terzo «Silvio!» proferito da Letta con un tono di voce sempre più preoccupato, il Cavaliere reagisce. Si sveglia di colpo. E prima ancora di aprire gli occhi e di sollevare il mento scandisce, come se fosse stato appena svegliato da un brutto sogno: «Avete visto gli ultimi sondaggi?».
Messa così sembra quasi l’incipit di una barzelletta, di una di quelle storielle inventate in cui Berlusconi trova spesso il modo di ironizzare su se stesso. Il premier assopito. Letta che scandisce, per ben tre volte, «Silvio!». E il Cavaliere che finalmente si risveglia dal torpore, chiedendo ai presenti se avessero visto le ultime rivelazioni demoscopiche.
Peccato che non sia l’inizio di una barzelletta. E che non ci sia, per l’appunto, nulla da ridere. Primo, perché la scena si materializza non nella platea del Salone Margherita o sul divano di Palazzo Grazioli, bensì durante una riunione del Consiglio dei ministri. Secondo, perché l’episodio – che ovviamente non può essere ricondotto a «un malore» – la dice lunga sullo stress a cui il presidente del Consiglio è sottoposto. E sulle possibili ricadute sulla tolda di comando di un Paese che continua a sfiorare il baratro.
Uno dei ministri presenti alla riunione di ieri l’altro, che parla dietro la garanzia di anonimato, prova a derubricare l’episodio. Ma avverte: «Il Presidente, giovedì, era molto affaticato. Infatti, per tutta la giornata, ha lavorato stringendo i denti. Tutti quelli che l’hanno visto, compreso chi ci ha scambiato giusto due chiacchiere, si sono resi conto che era molto provato». La motivazione opposta dal premier e dalla sua cerchia ristretta, aggiunge la fonte, «rimanda alla preparazione in vista dell’intervento chirurgico alla mano», a cui il Cavaliere s’è sottoposto ieri. «Non c’è nulla da stupirsi», aggiunge il componente dell’esecutivo concludendo la sua conversazione col Riformista: «D’altronde si sa, l’uomo è di quelli che, pur di evitare periodi di convalescenza, moltiplica i carichi di lavoro. Uno, insomma, che proprio quando dovrebbe riposarsi sceglie di lavorare il doppio».
Ieri, a ventiquattr’ore dal Consiglio dei ministri, Berlusconi è stato operato al polso destro per una sindrome del tunnel carpale. L’intervento vero e proprio, ha spiegato il chirurgo Alberto Lazzerini, è durato una decina di minuti. Ed è andato «benissimo». Ma i medici dell’istituto clinico Humanitas di Rozzano (Milano) hanno preferito tenere il premier sotto osservazione per sei ore. In modo da accertare che stesse bene e che non provasse dolore.
Nell’agenda di Berlusconi, adesso, ci sono tre giorni di riposo ad Arcore. Il rientro a Roma è previsto solo per martedì. Il resto è tutto nella coltre di silenzio che continua ad avvolgere il presidente del Consiglio in un momento decisivo per le sorti di maggioranza e governo. Un silenzio alimentato soprattutto da un Cavaliere che non parla più. Ai piani alti del Pd sospettano che dietro la sparizione del premier ci sia una strategia mirata. Il cui obiettivo finale è far sì che ad essere sovraesposti siano soprattutto le forze politiche e i personaggi nel mirino delle inchieste di Monza e Napoli. Il Partito democratico, insomma. E Giulio Tremonti.
«Qua scoppia un casino». Nel Papa day c’è anche Tedesco. E la paura dei forconi contagia il Pd.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 luglio 2011)
È il rischio del «tutti nello stesso calderone». La paura bipartisan del «domani (oggi, ndr) ci aspetteranno fuori dal Palazzo coi forconi», che ha il volto terreo di Dario Franceschini.
Perché oggi pomeriggio, nel centro della Capitale, potrebbe tornare a materializzarsi «l’incubo del 1993». Quello del «cappio» idealmente agitato in faccia a tutta la politica. Alle 16, l’Aula di Montecitorio si esprimerà a scrutinio segreto (chiesto da Scilipoti e dal gruppo dei Responsabili) sulla richiesta d’arresto per il deputato del Pdl Alfonso Papa. Alla stessa ora, dopo una richiesta avanzata da Nicola Latorre a nome dei vertici del gruppo del Pd, l’assemblea di Palazzo Madama deciderà sull’arresto del senatore democratico Alberto Tedesco. Tra i due casi c’è un abisso. Soprattutto perché Tedesco, a differenza di Papa, si alzerà in piedi e prenderà la parola per chiedere agli «onorevoli colleghi» di votare a favore della richiesta dei magistrati che indagano sulla Sanitopoli pugliese. E anche perché il Partito democratico, come ha spiegato oltre i confini dello sfinimento il segretario Pier Luigi Bersani, «è nettemente contrario al voto segreto e voterà sì a entrambi gli arresti».
Ma che cosa succederebbe se, complice una forzatura dei senatori della maggioranza («Gli unici che possono imporre il voto segreto a Palazzo Madama sono quelli del Pdl», spiega Nicola Latorre), Camera e Senato respingessero l’una l’arresto di un deputato del Pdl, l’altra quello di un senatore del Pd? Che cosa accadrebbe se la mossa del Pd di sincronizzare i due voti («L’abbiamo fatto proprio perché giravano voci strane di “scambio”», insiste il senatore dalemiano) si rivelasse un autogol? Il rischio è quello del «tutti colpevoli», a prescindere. Tutti nello stesso frullatore: Papa, Tedesco, Pdl, Pd.
E qui si ritorna al volto preoccupato di Dario Franceschini. Che, a metà pomeriggio di ieri, abbandona l’Aula e raggiunge alcuni dei suoi nel cortile di Montecitorio. «Maledetto voto segreto. Ora ditemi che cosa devo fare. Secondo voi è meglio convocare un’assemblea di gruppo, così si vede che almeno siamo tutti presenti?», dice rivolto ad alcuni colleghi e amici che hanno trovato riparo sotto un gazebo. «La concomitanza con il voto su Tedesco al Senato rischia di trasformarsi in un casino», è l’opinione del deputato Francesco Tempestini. «Una scelta inopportuna», la chiama un altro esponente del Pd, Dario Ginefra. «Una caz…ta», dirà più tardi Enrico Letta a Bersani.
Franceschini e tutta la sua truppa sanno che il voto segreto può trasformare il pomeriggio di oggi in un dramma. È lui stesso che cerca i cronisti per ribadirlo in tutte le salse. «Avete carta e penna?», chiede a due colleghe delle agenzie di stampa. «Il Pd voterà compatto per l’arresto di Alfonso Papa. E soprattutto non chiederà il voto segreto, perché in un momento come questo deve essere tutto trasparente e perché serve un’assunzione chiara di responsabilità», aggiunge. Il sospetto, quanto mai legittimo, è che il Carroccio sfrutti la segretezza della decisione per “salvare” Papa. Salvo, un minuto dopo, “bombardare” il Palazzo. Franceschini lo dice chiaramente: «Questi guerrieri padani si nascondono dietro il voto segreto. Un minuto dopo, però, diranno che è tutta colpa nostra…».
La paura dei «forconi» cresce. E contagia tutti, nessuno escluso. Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds che
ha (meritata) fama di iper-garantista, lo dice senza troppi giri di parole: «Voto a favore dell’arresto, sia chiaro. Ma domani (oggi, ndr) potrebbe essere una giornata drammatica per tutto il Parlamento». A qualche metro da lui, sprofondato con lo sguardo assente su un divanetto del Transatlantico, il giovane responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando scuote la testa: «È un casino, un casino…». Identico lo sguardo della trentenne parlamentare campana Pina Picierno, nota per le sue battaglie contro la camorra: «Ma vi rendete conto che io, che sfido ogni giorno a viso aperto il clan dei casalesi, tra qualche ora potrei ritrovarmi in mezzo alla strada con la gente che mi punta l’indice contro? No, non ci sto…». Il lettiano Francesco Boccia allarga lo spettro: «Stamattina m’ha chiamato il giovane dirigente di una Asl pugliese e m’ha riferito i commenti della povere gente costretta da questa manovra a pagare il ticket. M’ha detto che, ai loro occhi, ormai siamo “quei bastardi”. Proprio così: “Quei politici bastardi…”».
Ancora poche ore. Poi, sui tabelloni luminosi di Camera e Senato, sarà scritta una sentenza che va ben oltre i destini personali di Alfonso Papa e Alberto Tedesco. Tolti gli astenuti, non si saprà chi ha votato a favore e chi contro. Ma di fronte al rischio che la situazione travolga tutti – colpevoli e non – l’opposizione potrebbe meditare su scelte ad effetto. Abbandonare l’Aula, minacciare le dimissioni di massa, tirarsi fuori dal «cappio» che la stessa Lega potrebbe tornare ad agitare. Bersani lo ripete: «Andiamo a votare». Più che tattica politica, ormai pare una supplica. «Dobbiamo salvare il Paese».
Se cade Letta sono rimasti in due, due ministri e due briganti, sulla strada da Pontida a Palazzo Chigi.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 giugno 2011)
«Il governo cade? Non ho la sfera di cristallo». Quando offre in pasto ai cronisti l’ennesima vagonata di punti interrogativi sulla sopravvivenza dell’esecutivo, probabilmente Roberto Maroni sa già dell’arresto di Luigi Bisignani, di cui le agenzie hanno appena dato notizia. Sono le 12.30 di una giornata che alimenta le voci sulla corsa dell’outsider al dopo-Silvio.
Il perché lo racconta molte ore più tardi un ministro del governo, che dietro la garanzia d’anonimato affida al Riformista l’atmosfera da allarme rosso che si respira alla corte di Re Silvio: «Vedete, in condizioni normali Berlusconi è in grado di sopravvivere a dieci raduni di Pontida consecutivi. Ma se il caso Bisignani finisse per mettere in seria difficoltà Gianni Letta, allora il Cavaliere rischierebbe di finire in un pericolosissimo vicolo cieco».
Le tante incognite che s’addensano sull’eminenza grigia del berlusconismo – alimentate dalle prime rivelazioni che Bisignani avrebbe reso ai pm («Informavo Gianni Letta dei colloqui con Alfonso Papa») – portano a due certezze. L’inchiesta sulla P4 può togliere dal risiko del post-Silvio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Riducendo a due, nel caso di un crollo del governo, i candidati per Palazzo Chigi: Giulio Tremonti, il nemico numero uno di Letta. E Roberto Maroni, l’outsider.
Ma questa storia sarebbe incompleta senza un “dettaglio” (virgolette d’obbligo) tutt’altro che trascurabile. La dichiarazione il cui il titolare del Viminale, a margine di un convegno organizzato dai poliziotti della Uil, sembra voler chiudere la sfida a colpi di sciabola contro il superministro dell’Economia. «Sono convinto che la riforma fiscale si debba fare. È una scelta coraggiosa, e in questo momento ci vuole coraggio», ribadisce Maroni. «E sono soddisfatto», aggiunge, «che Tremonti abbia aderito a questa richiesta».
Morale della favola? Dopo giorni di botte e risposte, di veline e veleni, di mosse e contromosse, nel giorno in cui l’inchiesta di Napoli rischia di travolgere il berlusconismo ortodosso «Giuletto» e «Bobo» si stringono (per un attimo) idealmente la mano. E il segno che Maroni continua a “bombardare” politicamente la maggioranza si manifesta quando, nel giro di pochi minuti, prima annuncia di aver chiesto a Berlusconi e Tremonti «un miliardo di euro per il 2011 sulla sicurezza». E subito dopo riapre il dossier libico: «Basta soldi per i bombardamenti». Perché «fino a quando continueranno le bombe, continueranno le partenze e noi dovremmo assistere i profughi».
L’arresto di Bisignani. La domenica di Pontida. La fiducia sul decreto sviluppo. La “verifica” in Parlamento. Senza dimenticare la sentenza, attesa per inizio luglio, sul Lodo Mondadori, che portebbe comportare un tracollo finanziario per «l’Impero» di Cologno Monzese. I cinque gironi infernali a cui è costretto il Cavaliere possono portare all’ascesa delle stesse due persone: Maroni e Tremonti. Con pensantissime ricadute in casa Lega. Perché, come spiegano nel Carroccio, «se c’è un punto in cui il titolare del Viminale e il principale sponsor leghista di Tremonti (Roberto Calderoli, ndr) convergono, quella è l’inimicizia nei confronti del cerchio magico di bossiani, che infatti premono tutti perché rimanga in piedi l’alleanza con Berlusconi». Di conseguenza, se il premier entra in crisi, si trascina tutto il cerchio magico. E anche in questo caso rimarrebbero in piedi loro due. «Giulietto» e «Bobo», «Bobo» e «Giulietto».
Per andare dove? Per fare cosa? Chissà. Una cosa è certa. Nell’ipotetica corsa a Palazzo Chigi, l’ultimo successore di Quintino Sella è favorito per la supermanovra economica con cui l’Italia deve “coprirsi” per i prossimi tre anni. Maroni, invece, ha un altro vantaggio. Sembra il premier «su misura» per quell’unico «governo di scopo» che l’opposizione potrebbe sostenere con l’obiettivo di cambiare la legge elettorale e andare a elezioni anticipate (con una riforma che agevolerebbe la corsa solitaria della Lega, ovviamente). Non a caso, nei conciliaboli da Transatlantico tra big di Pd e Terzo Polo, il nome più quotato è quello del titolare del Viminale. Punti interrogativi, incognite, dubbi. Che si cominceranno a decrittare a Pontida.