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Corrado Orrico. Il Maestro di Volpara e la sua gabbia.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 luglio 2010)
«La struttura della Gabbia riproduce quella di un campo di calcio, di dimensioni ridotte e variabili, ma in cui la presenza di barriere (originariamente una gabbia, appunto) impedisce l’uscita del pallone dal campo di gioco. Queste barriere, oltre a poter variare per dimensioni e materiali, possono interessare solo i bordi del campo oppure creare anche una sorta di soffitto che copra lo stesso». (Dalla voce «Gabbia (calcio)» di Wikipedia).
«In the 1990s, Juventus (with Gigi Maifredi) and Inter (with Corrado Orrico) both tried to revoluzionize their teams with supposedly spectacular systems of play. Both experiments ended in a disaster». (John Foot, A history of Italian football, 2006, pagina 221).
È bastata una frase smozzicata. Un inciso. Una di quelle cose che, se riportate per iscritto, finiscono all’interno di un periodo lungo, inesorabilmente confinate tra due virgole. L’ha detta Rafa Benitez, il nuovo allenatore dell’Inter, quella Frase che, per quello che evoca, ha acquisito dignità da effe maiuscola. Smozzicandola, ovviamente. E facendola piombare nel caldo torrido di una normale conferenza stampa di metà luglio: «Recupereremo la gabbia e la palestra».
Ora chiunque non mastichi (o non smozzichi) di cose di pallone non può sapere, nel momento in cui s’imbatte davanti alla tivvù nel faccione tondo del mister spagnolo, che quest’ultimo ha appena menzionato la parola «gabbia» nell’unica accezione in cui la stessa non dà l’idea di «prigione», di «costrizione», di «servitù». Ma, al contrario, di «fantasia», di «bellezza». Di «libertà», insomma. Perché la gabbia di cui ha parlato Benitez in quell’inciso – «Recupereremo la gabbia e la palestra» – è legata agli schemi di un profeta del calcio di vent’anni fa. Un profeta fallito. Corrado Orrico.
UN PROFETA DI PERIFERIA. Quando arriva all’Inter, nell’estate del 1991, Corrado Orrico è un acclamato santone di periferia. Difese solide e calcio spettacolo. Messa così pare la via di mezzo tra un ossimoro e la perfezione. Il problema è che le sue idee, il cinquantenne Orrico, le ha sviluppate nelle serie minori. Quasi sempre in squadre che finiscono per “-ese”, come succede alle Cenerentole: Sarzanese, Carrarese, Massese, Udinese, Lucchese. Quando Gianni Brera lo battezza «Maestro di Volpara», dal nome del borgo carrarese da cui proviene, il profeta è già a Milano con la lista di richieste da sottoporre all’attenzione del presidente nerazzurro Ernesto Pellegrini, che cercava la risposta interista al sacchismo (nel senso di Arrigo) prodotto da Berlusconi. La richiesta, in realtà, è una sola. E non si tratta del ritocco allo stipendio bassissimo («Da operaio specializzato»), di calciatori da acquistare o di un collaboratore da far assumere a tutti i costi. Tutt’altro. «Per portare qui il mio calcio – dice Orrico – ho bisogno di una sola cosa. Dobbiamo costruire una gabbia». E gabbia fu.
IL MAESTRO DI VOLPARA. È il Primo comandamento del Maestro di Volpara: «La gabbia serve a tante cose: ad affinare la tecnica, a sviluppare i riflessi, a velocizzare il gioco, a migliorare la condizione fisica perché si gioca senza un attimo di sosta e, a livello organico, è un impegno mica da ridere». Al centro tecnico dell’Inter di Appiano Gentile, siamo nel luglio 1991, Orrico perde una settimana insieme a un ingegnere per progettare una gabbia ultramoderna. Il costo finale per la realizzazione dell’opera si aggira attorno ai trecento milioni di lire. «Occorreva», avrebbe raccontato anni dopo il Maestro, un materiale insonorizzato per attutire i rumori e un altro per aumentare la velocità del pallone». Il tutto funzionale all’elaborazione di un calcio pratico come la prosa e musicale come la poesia. Ossimoro e perfezione. Libertà. Ma la squadra mugugna. Perché in gabbia si sta chiusi, perché il pallone schizza come la pallina di un flipper, perché non c’è un attimo di pausa. Walter Zenga, il portiere, fa il capofila degli scontenti. Di quelli che, quando arriva l’ora della gabbia, vengono presi dai conati di vomito. Jürgen Klinsmann, il centravanti campione del mondo con la Germania, resiste anche perché, nelle pause dalla gabbia, almeno lui trova ristoro per l’anima conversando col Maestro di libri d’arte.
LA VISIONE, A LIVORNO. Com’era nata, la gabbia? Orrico ha sempre ammesso di non aver inventato nulla. «Il merito è di quei ragazzini che giocavano sulle spiagge livornesi. Semmai sono stato il primo a scoprire la gabbia e a utilizzarla in modo scientifico negli allenamenti». La Visione risale a un’estate della metà degli anni Sessanta. La Livorno operaia, quella dei portuali e dei figli dei portuali, degli operai e dei figli degli operai, si riversa in brache di tela verso il mare sotto casa. Ci sono le urla di gioia e i ghiaccioli colanti a causa del solleone, le mamme con la borsa di paglia e i papà coi baffoni come quelli di Giuseppe Stalin, i bambini e il pallone. Il Maestro di Volpara, che ancora maestro non era, se li trova davanti, i gabbioni. «Campetti di calcio quasi in riva al mare, in cemento, avvolti da una rete tirata su per evitare che il pallone finisse ogni due minuti in acqua». Eccola, la Visione. In uno di quei campi, ma questo Orrico non lo può sapere, il livornese Armando Picchi, anche prima di diventare il capitano della Grande Inter, trascorreva le sue estati. Leo Picchi, suo fratello, avrebbe poi tramandato la storia di quelle giornate torride ai Bagni Fiume: «Ogni giorno si finiva nella gabbia. Partite interminabili, a piedi nudi. I primi calci erano terribili, perché ti venivano le vesciche. Poi il piede faceva il callo. Potevi chiamarti Mazzola o Suarez, ma dentro la gabbia ognuno perdeva le sue stellette. Se c’era da picchiare, si picchiava. Se c’era da stringere qualcuno sulla rete, lo si stringeva. E pazienza se il dito ci rimaneva dentro».
LA SCOMMESSA. Orrico elabora la Visione avuta nelle spiagge livornesi. E il suo gioco a zona, fatto di una libertà che s’alza in volo da una gabbia, inizia a fare il giro dei campi della Toscana. Carrarese e poi Massese, Camaiore e poi di nuovo Carrara, dove porta la squadra di casa dai dilettanti alla C1. Il miracolo si arresta all’Udinese, dove fallisce nella sua prima esperienza nella massima serie (esonerato dopo ventidue giornate). Ma il Maestro risorge dalle ceneri e torna in auge. Ancora alla Carrarese, poi a Prato, quindi a Lucca, dove lo champagne che sgocciola dal suo calcio consente alla Lucchese di sfiorare la promozione in serie A. È la primavera del 1991. L’Inter di Pellegrini ha già deciso di affidare al Profeta della gabbia le chiavi del dopo Trapattoni e soprattutto il guanto di una grande sfida: superare con un asso di briscola tutte le carte del Milan di Sacchi.
«GABBIA DI MATTI ». Dopo un’estate nella gabbia, la squadra di Orrico si presenta il primo settembre al taglio del nastro del campionato 1991-92. A San Siro è di scena il Foggia di don Pasquale Casillo e Zdenek Zeman, che quel giorno esordisce in serie A. Tutti si aspettano che l’Inter del crepuscolo di Matthaus annienti le neo-promossa. Invece no. Gli uomini del boemo vanno in vantaggio con Ciccio Baiano e i nerazzurri pareggeranno con la riserva Massimo Ciocci. Ma l’uno-a-uno finale del tabellino, da solo, non racconta lo spettacolo di una partita che un tempo si sarebbe detta «ricca di capovolgimenti di fronte». Tiri e parate, tanti fraseggi zero dribbling, tutto collettivo e niente singolo. Il «WM a zona» creato in una gabbia dal Maestro di Volpara contro il calcisticamente eterodosso 4-3-3 del Maestro di Praga. In quarantamila si godono uno spettacolo che pare uscito da una canzone di Sergio Caputo. Una partita swing and soda, con sprazzi di jazz, atmosfere da night club e tanto alcol. Anche se sono le quattro di pomeriggio. Per Orrico, però, l’inizio coincide col declino. La squadra, abituata a giocare a uomo, non digerisce la nouvelle vague zonista. Vince a Roma con la Roma e in casa col Verona. Ma poi comincia a barcamenarsi tra sconfitte e pareggi fino a che, dopo il crollo con l’Atalanta a Bergamo, il Maestro di Volpara saluta tutti e se ne va. A fine partita Amedeo Goria gli porge il microfono della Rai: «In fondo sono i calciatori che vanno in campo. Non pensa che le colpe siano di tutti?». E lui, con quella dignità che può trasformare anche il più piccolo degli uomini in un eroe: «Ringrazio tutti, i giocatori e il presidente. Purtroppo ho fallito. Se me ne vado vuol dire che la colpa è solo mia». È il 19 gennaio 1992. L’Inter di Orrico è pronta per il dimenticatoio. Con l’etichetta fissata da un titolo del “Guerin sportivo”: «Gabbia di matti».
IL MAUSOLEO. I resti della gabbia fatta costruire da Orrico sono sopravvissuti ad Appiano Gentile per anni. Un mausoleo fatiscente alla memoria di una grande illusione. Quando nel 2002 arrivò ad allenare l’Inter, Roberto Mancini chiese che quella cattedrale venisse trasformata in un campetto coperto. E pensare che, pochi mesi prima, la Nike aveva recuperato l’idea orrichiana per la fortunata campagna pubblicitaria in cui i grandi calciatori dell’epoca (Totti, Figo, Ronaldo, also starring Cantona) si sfidavano all’interno di una gabbia, appunto. Oggi, a tanti anni di distanza, Rafa Benitez recupera l’Idea. Infilando un sogno dentro una frase smozzicata. E il Maestro di Volpara, che ora ha quasi settant’anni?
LE CARTE IN REGOLA. È un uomo triste, oggi, Orrico. Come tutti i padri che sopravvivono ai figli. Il suo, di figlio, s’è suicidato l’anno scorso. E neanche la casa di Volpara c’è più. «L’ho messa in vendita», disse in un’intervista al “Tirreno”. «Io non ho debiti, ma vivo con la pensione da operaio e non basta per gestire quella proprietà». E poi, aggiunse, «sto bene perché vivere con il salario di un operaio specializzato mi fa essere più in sintonia con il partito che ho sempre votato». Il ricordo dell’Inter è lontano anni luce. Nessun rimpianto tranne uno, nel cuore del Maestro: «Con il denaro si possono acquistare molti libri. Per il resto ho poche esigenze. Quello che mangio, ad esempio, me lo coltivo da solo». E a uno viene quasi da immaginarselo, Corrado Orrico, negli anni Sessanta. Mentre guarda quei ragazzi giocare a pallone chiusi nei gabbioni. E visto che la scena è ambientata a Livorno, sembra di sentire la voce di Piero Ciampi che canta in sottofondo: «Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ Ha un carattere melanconico/ beve come un irlandese./ Se incontra un disperato/ non chiede spiegazioni… ».