Si decide tutto a Milano.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 aprile 2011)
Angelino Alfano aveva appena definito «senza giustificazioni» il paragone giudici-Br. Le agenzie non hanno quasi tempo di darne notizia che Silvio Berlusconi sale sul palco per lanciare un attacco contro «i magistrati eversivi». Roma, ore 17.15, ieri. È l’inizio della campagna elettorale di un premier preoccupato. Soprattutto per il voto di Milano.
Le parole che il presidente del Consiglio scandisce dal palco del Palazzo dei congressi di Roma, dove ieri è andato in scena il meeting Al servizio degli italiani organizzato da Michela Vittoria Brambilla, fanno cadere il gelo anche sulle stanze (semi-deserte) del Quirinale, della Consulta, del Palazzo dei Marescialli e financo in quelle del ministero della Giustizia del “suo” Alfano.
Dopo che il guardasigilli aveva appena finito di stigmatizzare in una nota i manifesti apparsi a Milano contro le toghe, il Cavaliere torna all’attacco dei magistrati. «Bisogna accertare se c’è un’associazione a delinquere. Molti giudici seguono la sinistra e hanno un progetto eversivo», grida il premier prima di citare il 1993, in cui «vennero fatti fuori i socialisti, la Dc e i repubblicani». L’equazione che ha in testa è fin troppo scontata: «Hanno fatto fuori un leader come Craxi, oggi stanno cercando di far fuori Berlusconi». Sono tesi che quantomeno provocheranno, oltre al solito giro di reazioni dell’Anm, anche la replica istituzionale del Csm.
Non è tutto. Dal palco del palazzo dei Congressi, il premier ammette l’aspetto ad personam della norma sulla prescrizione breve («Devo essere tutelato»), definisce quello su Mediatrade «un processo risibile in un’atmosfera surreale», dà dello «sfigato» all’avvocato inglese Mills e conferma il forcing sulla restrizione delle intercettazioni: «In uno Stato che si definisce democratico, i cittadini non possono sentirsi spiati».
È il segnale che, nell’ottica del presidente del Consiglio, l’ora X della campagna elettorale per le amministrative è ormai scoccata. «E ditemi se non vale la pena di andare a votare», spiega tornando a evocare deliberatamente persino lo scioglimento anticipato della legislatura.
Nella tornata che si concluderà il 29 maggio con i ballottaggi, la posta in gioco è molto più alta delle amministrazioni comunali di Milano e Bologna, Napoli e Torino. Berlusconi, ad esempio, sa che perdere Milano provocherebbe degli effetti collaterali incalcolabili per la tenuta della coalizione, a cominciare dagli scossoni del Carroccio. E così, da quando Letizia Moratti ha cominciato a manifestare i dubbi sulla vittoria al primo turno e i finiani hanno lasciato trapelare l’eventuale sostegno a Giuliano Pisapia al ballottaggio, il premier ha capito che l’unica strada da prendere era quella già battuta (con successo) in passato: polarizzare lo scontro.
Da qui la decisione di alzare ulteriormente i toni, all’indomani dell’appello bipartisan lanciato da Beppe Pisanu e Walter Veltroni dalle colonne del Corriere della sera. Per adesso, i berluscones della cerchia ristretta non temono alcun contraccolpo. Ma sanno benissimo che, dopo una sconfitta alle amministrative, la piattaforma messa nero su bianco dal presidente dell’Antimafia e dal segretario del Pd potrebbe essere l’unica in grado di coagulare consensi anche fuori dal Palazzo. Dalla Cei alla Confindustria, dagli immancabili «poteri forti» che il premier cita in continuazione a Luca Cordero di Montezemolo. Certo, anche con l’obiettivo di arginare l’inizio di una nuova discussione sul governo tecnico, il Cavaliere preferisce evocare lo spettro di elezioni anticipate («Ditemi voi se non è meglio andare a votare»). Ma che cosa succederebbe se, come argomentano nelle loro conversazioni riservate anche Fini e Casini, «Bossi e Tremonti voltassero gli voltassero le spalle?».
Ipotesi, dubbi, congetture. A cui si aggiungono quelli che Berlusconi nutre sulla sua stessa creatura, il Pdl. «Anche noi, come tutti i partiti, siamo caduti in una forse evitabile patologia», ha ammesso ieri il premier annunciando il ricambio generazionale. «Spalanchiamo le porte al nuovo». Dove per «nuovo» potrebbe intendersi la mossa di affidare ad Angelino Alfano (che si è tatticamente chiamato fuori dalla successione per la leadership del centrodestra) anche le “chiavi” del partito. Un partito di cui, a stretto giro, non farà più parte Beppe Pisanu. L’ex ministro dell’Interno, che potrebbe persino spingersi a votare contro la prescrizione breve al Senato, adesso è davvero sull’uscio. «Che cosa ci faccio nel Pdl? Cerco di cambiarlo, finché ci rimarrò», ha detto ieri il presidente della commissione Antimafia rispondendo alla domanda di uno studente di Oristano.
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