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«Che cos’è questa pagina bianca?» L’allarme della Lega sugli omissis di Tremonti
di Tommaso Labate (dal Riformista del 30 giugno 2011)
La partita sulla manovra è ancora tutta da giocare. Ieri sera, quando l’ultima bozza di Tremonti è arrivata all’ufficio legislativo del Carroccio alla Camera, gli sherpa leghisti – di fronte all’articolo sulle pensioni – si sono fermati: «Che cos’è questa pagina bianca?».
La stessa scena si è ripetuta quando i consiglieri dei ministri Angelino Alfano e Ignazio La Russa si sono imbattuti nel comma 7 dell’articolo 21 dell’ultima versione cartacea della manovra. Nelle pagine della bozza, insomma, dove c’è scritto chiaro e tondo – sotto il titolo «Fondo sperimentale di riequilibrio» – che la “loro” Sicilia, insieme alla Sardegna, sarà chiamata a pagare un contributo pesante per i prossimi anni. Il taglio di compensazione dell’Irpef per i comuni delle due isole sarà ridotto di un miliardo per il 2013 e di due miliardi per il 2014. Il taglio alle provincie siciliane e sarde, stando al testo, sarà di 400 milioni per il 2013 e 800 per il 2014.
L’obiezione, in fondo sacrosanta, è che le lacrime e il sangue da versare sull’altare della «manovrona» da qualche parte dovranno stare. La stessa obiezione, però, si ferma di fronte ai tanti omissis di cui è corredato un testo che, a meno di colpi di scena, questa mattina sarà licenziato dal Consiglio dei ministri.
E qui si torna all’atmosfera di panico che si respira nelle stanze di Montecitorio occupate dalla Lega nord. Quelle in cui gli sherpa del Carroccio, che nella lettura dell’ultima bozza di Tremonti erano arrivati a pagina 31, hanno trattenuto il fiato di fronte a una pagina bianca, che correda il capitolo sugli «Interventi in materia previdenziale». «Nel testo che abbiamo noi, non ci sono cifre», s’è sentito dire ieri pomeriggio il capogruppo Reguzzoni. «C’è soltanto scritto che le norme decisive sulle pensioni sono “in attesa di definizione”». Circostanza che ha scatenato una guerra di nervi all’interno di una maggioranza che, adesso, è tornata a tremare. Un autorevole esponente del Carroccio, vicino al ministro Calderoli, la mette così: «La manovra che Giulietto ci ha illustrato ieri non arriva mica a coprire i 47 miliardi previsti. Significa che da via XX settembre stanno ancora giocando a nascondere le carte». Il ragionamento della fonte, lo stesso che tutto il (litigioso) gotha della Lega sottoscriverebbe in trenta secondi, prosegue così: «Se il grosso della manovra arriverà dalle pensioni o coi condoni, noi ci chiamiamo fuori e tanti saluti». Una “lettura” che fa pendant con la profezia messa a verbale martedì pomeriggio da Umberto Bossi, subito dopo il supervertice di Palazzo Grazioli: «Il governo non è al sicuro finché la manovra non sarà approvata».
Non è un caso se Giorgio Napolitano, parlando ieri coi giornalisti al rientro dalla cerimonia all’Università di Oxford, ha scelto di fare una premessa: «Vedremo che cosa arriverà dal governo». Di certo c’è che, e il capo dello Stato l’ha detto senza giri di parole, «chi prende delle decisioni oggi sulla situazione economica si prende delle responsabilità anche per domani». E ancora, sempre dalla viva voce del presidente della Repubblica: «Il 7 giugno c’è stato un documento molto puntuale della Commissione Europea, che riconosceva che lo sforzo fatto rende credibile la vigilanza dei conti fino al 2012». Ma in quello stesso documento, ha sottolineato l’inquilino del Quirinale, c’è scritto che per Bruxelles «occorrono misure addizionali per il 2013-2014».
Ma da dove arriveranno i 47 miliardi rimane un mistero. Il deputato-economista Francesco Boccia, che il Pd ha messo dietro il delicatissimo dossier, scuote la testa: «Il testo della manovra che circola da giorni è solo un depistaggio». E «depistaggio», in fondo, è la stessa parola che rimbalzava ieri tra i banchi di una maggioranza che – a dispetto della tregua di martedì – ancora non si fida di Tremonti.
Ai collaboratori più stretti, il titolare dell’Economia ha confidato che «ho la certezza che l’Unione europea approverà la mia manovra». Ma del testo definitivo, ancora non c’è traccia. Nell’ultima notte che accompagnerà la manovra da via XX settembre a Palazzo Chigi, la maggioranza trattiene il fiato. La Lega, che non pare accontentarsi dell’alleggerimento dei tagli per i comuni virtuosi e della sanatoria sulle quote latte, è in trincea sulle pensioni. Il blocco siciliani del governo (da Alfano a La Russa, da Prestigiacomo a Romano) minaccia la ressa sui tagli ai comuni delle Isole.
Veti incrociati e veleni che fanno da contorno alla clamorosa caduta che la maggioranza ha subito ieri in Aula sulla legge comunitaria. «Sono segnali preoccupanti», ha detto il Cavaliere ai suoi. Lo stesso Berlusconi che non dà per chiusa nessuna partita. Nemmeno quella sulla possibile successione a Tremonti.
La grande imboscata contro Tremonti. Il Cav. ha già sondato Bini Smaghi.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 28 giugno 2011)
Questa è la storia di una grande imboscata. Il capitolo finale di un duello che difficilmente si concluderà col segno X. Silvio Berlusconi contro Giulio Tremonti. La novità delle ultime ore, che rimbalza dall’inner circle del Cavaliere, evoca già l’ipotesi di un cambio della guardia a via XX settembre: «Berlusconi ha già sondato il possibile successore di Giulietto: Lorenzo Bini Smaghi».
Sembra un episodio uscito dalla vecchia serie tv Ai confini della realtà. Soprattutto considerando che i paletti imposti dall’Europa con il nuovo Patto di stabilità, per il nostro Paese, non cambiarebbero al cambiare del ministro che dovrà apporre la sua firma sulla manovra. Ma, stavolta, non si tratta di un telefilm. Bensì del «tranello» che un Berlusconi affetto da “Tremontite acuta” sta per tendere al “nemico Giulietto”.
Il capitolo finale del duello tra il presidente del Consiglio e il suo ministro dell’Economia viene girato in più location e spalmato in più date. Venerdì, il set è Bruxelles. Sabato si “gira” a Torre in Pietra, al matrimonio di Mara Carfagna. Domenica, invece, il protagonista è apparentemente un comprimario, Guido Crosetto. Il sottosegretario che, a cominciare da una telefonata con l’Ansa, attacca le bozze tremontiane della manovra economica archiviandole alla voce «roba che andrebbe analizzata da uno psichiatra». Ieri, invece, la scena principale è a via Bellerio, Milano. Dove Umberto Bossi, a conclusione della segreteria politica del Carroccio, rifila il suo siluro a “Giulietto”: «La Lega», è la sintesi del ragionamento del Senatur, «non può appoggiare una manovra che preveda tagli ai comuni senza compensazioni».
La chiave del “giallo”, la stessa che spinge privatamente il Cavaliere a osare laddove non aveva
mai osato («Stavolta, se Giulio minaccia le dimissioni, finisce che le accetto») è nella scena di Bruxelles. Stando all’autorevole versione che circola ai piani alti di Palazzo Chigi, venerdì Berlusconi avrebbe offerto a Bini Smaghi un posto nel governo. Il senso dell’invito che il premier avrebbe rivolto al membro del board della Bce suona più o meno così: «Lei entrerebbe nella mia squadra per dare maggiore autorevolezza all’esecutivo in un momento cruciale per l’Italia?». La proposta di «Silvio», che in quel momento pare voler “ridimensionare” il frontman Tremonti, pare orientata alla copertura della casella, ancora vacante, del ministero delle Politiche comunitarie. Un ruolo di seconda fascia, soprattutto per un pezzo da novanta del calibro di Bini Smaghi. Che, infatti, rifiuta. Ma visto che la proverbiale ostinazione del Cavaliere non si ferma di fronte a nessun ostacolo, ecco che i berlusconiani che accolgono il Capo al ritorno da Bruxelles non danno per chiusa alcuna porta. Anzi. «Stavolta non subiremo i ricatti di Tremonti. Anche perché possiamo sostituirlo», dice uno della cerchia ristretta del premier evocando Bini Smaghi. Parole che fanno pendant con la sibillina dichiarazione che il premier aveve rilasciato venerdì in conferenza stampa: «Non posso dire nulla su quello che sarà il nuovo impegno professionale di Lorenzo Bini Smaghi perché ne stiamo trattando».
A tenere protetta “l’imboscata” contribuisce non poco la partita sulla successione di Mario Draghi. Ma è un equivoco, visto che Bini Smaghi sembra ormai fuori dalla short list per Palazzo Koch. Sia come sia sabato, durante il matrimonio della Carfagna, il premier fa capire a qualche commensale di avere un possibile «sostituto» di Tremonti. E lascia anche intendere che secondo lui, “Giulietto”, ha ormai perso «l’appoggio incondizionato di Bossi».
Il puzzle prende forma domenica, con le accuse che Crosetto rivolge pubblicamente a Tremonti. Le bozze della manovra? «Andrebbero analizzate da uno psichiatra». E il ministro? «Vuol solo far saltare banco e governo». Al ministero dell’Economia, alla fine del week-end, fiutano che qualcosa non torna. Della serie, se un sottosegretario dà praticamente del “matto” al ministro più potente del governo, e senza che il premier prenda le distanze, un motivo ci sarà.
Quel motivo lo si trova a via Bellerio. Dove, ieri pomeriggio, Bossi ha chiuso la riunione della segreteria del Carroccio anticipando l’aut aut che oggi opporrà Tremonti: «La Lega non accetta una manovra che abbia tagli agli enti locali senza compensazioni».
L’opposizione fiuta quello che sta per succedere. «Tremonti? Non lo vedo allegrissimo», dice Bersani. «L’unica cosa certa è che c’è un’imboscata al ministro dell’Economia. Dal prossimo Cdm uscirà il nuovo ministro?», mette nero su bianco l’economista-deputato del Pd Francesco Boccia.
Sono tutte analisi che hanno un fondamento. A cui mancano però quei “dettagli” (virgolette d’obbligo) che i berlusconiani della cerchia ristretta attribuiscono al «Capo». Quella chiacchierata di venerdì con Bini Smaghi. E l’ombra del membro del board del Bce sul ministero dell’Economia, insomma.
Se cade Letta sono rimasti in due, due ministri e due briganti, sulla strada da Pontida a Palazzo Chigi.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 giugno 2011)
«Il governo cade? Non ho la sfera di cristallo». Quando offre in pasto ai cronisti l’ennesima vagonata di punti interrogativi sulla sopravvivenza dell’esecutivo, probabilmente Roberto Maroni sa già dell’arresto di Luigi Bisignani, di cui le agenzie hanno appena dato notizia. Sono le 12.30 di una giornata che alimenta le voci sulla corsa dell’outsider al dopo-Silvio.
Il perché lo racconta molte ore più tardi un ministro del governo, che dietro la garanzia d’anonimato affida al Riformista l’atmosfera da allarme rosso che si respira alla corte di Re Silvio: «Vedete, in condizioni normali Berlusconi è in grado di sopravvivere a dieci raduni di Pontida consecutivi. Ma se il caso Bisignani finisse per mettere in seria difficoltà Gianni Letta, allora il Cavaliere rischierebbe di finire in un pericolosissimo vicolo cieco».
Le tante incognite che s’addensano sull’eminenza grigia del berlusconismo – alimentate dalle prime rivelazioni che Bisignani avrebbe reso ai pm («Informavo Gianni Letta dei colloqui con Alfonso Papa») – portano a due certezze. L’inchiesta sulla P4 può togliere dal risiko del post-Silvio il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Riducendo a due, nel caso di un crollo del governo, i candidati per Palazzo Chigi: Giulio Tremonti, il nemico numero uno di Letta. E Roberto Maroni, l’outsider.
Ma questa storia sarebbe incompleta senza un “dettaglio” (virgolette d’obbligo) tutt’altro che trascurabile. La dichiarazione il cui il titolare del Viminale, a margine di un convegno organizzato dai poliziotti della Uil, sembra voler chiudere la sfida a colpi di sciabola contro il superministro dell’Economia. «Sono convinto che la riforma fiscale si debba fare. È una scelta coraggiosa, e in questo momento ci vuole coraggio», ribadisce Maroni. «E sono soddisfatto», aggiunge, «che Tremonti abbia aderito a questa richiesta».
Morale della favola? Dopo giorni di botte e risposte, di veline e veleni, di mosse e contromosse, nel giorno in cui l’inchiesta di Napoli rischia di travolgere il berlusconismo ortodosso «Giuletto» e «Bobo» si stringono (per un attimo) idealmente la mano. E il segno che Maroni continua a “bombardare” politicamente la maggioranza si manifesta quando, nel giro di pochi minuti, prima annuncia di aver chiesto a Berlusconi e Tremonti «un miliardo di euro per il 2011 sulla sicurezza». E subito dopo riapre il dossier libico: «Basta soldi per i bombardamenti». Perché «fino a quando continueranno le bombe, continueranno le partenze e noi dovremmo assistere i profughi».
L’arresto di Bisignani. La domenica di Pontida. La fiducia sul decreto sviluppo. La “verifica” in Parlamento. Senza dimenticare la sentenza, attesa per inizio luglio, sul Lodo Mondadori, che portebbe comportare un tracollo finanziario per «l’Impero» di Cologno Monzese. I cinque gironi infernali a cui è costretto il Cavaliere possono portare all’ascesa delle stesse due persone: Maroni e Tremonti. Con pensantissime ricadute in casa Lega. Perché, come spiegano nel Carroccio, «se c’è un punto in cui il titolare del Viminale e il principale sponsor leghista di Tremonti (Roberto Calderoli, ndr) convergono, quella è l’inimicizia nei confronti del cerchio magico di bossiani, che infatti premono tutti perché rimanga in piedi l’alleanza con Berlusconi». Di conseguenza, se il premier entra in crisi, si trascina tutto il cerchio magico. E anche in questo caso rimarrebbero in piedi loro due. «Giulietto» e «Bobo», «Bobo» e «Giulietto».
Per andare dove? Per fare cosa? Chissà. Una cosa è certa. Nell’ipotetica corsa a Palazzo Chigi, l’ultimo successore di Quintino Sella è favorito per la supermanovra economica con cui l’Italia deve “coprirsi” per i prossimi tre anni. Maroni, invece, ha un altro vantaggio. Sembra il premier «su misura» per quell’unico «governo di scopo» che l’opposizione potrebbe sostenere con l’obiettivo di cambiare la legge elettorale e andare a elezioni anticipate (con una riforma che agevolerebbe la corsa solitaria della Lega, ovviamente). Non a caso, nei conciliaboli da Transatlantico tra big di Pd e Terzo Polo, il nome più quotato è quello del titolare del Viminale. Punti interrogativi, incognite, dubbi. Che si cominceranno a decrittare a Pontida.
Il sorpasso. Dai sondaggi il dramma del Cavaliere: Pd primo partito.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 giugno 2011)
L’allarme rosso ha la forma di un foglietto di carta, che venerdì è passato da Palazzo Grazioli allo stanzone del Pdl che attende il neo-segretario Alfano. Sul foglietto c’è scritto: Pd 29,2 per cento, Pdl 27,5 per cento.
Fossero veri i dati in possesso dei vertici berlusconiani (Ipsos), per la prima volta il Partito democratico avrebbe sorpassato il Popolo delle libertà. E le “sorprese” contenute nella rilevazione demoscopica non sono finite. Basta guardare il capitolo sulla popolarità dei leader. Crolla quella di Silvio Berlusconi (l’asticella è ferma al 26,9 per cento), cresce quella del leader democratico Pier Luigi Bersani (45 per cento).
Sull’asse che unisce la war room del presidente del Consiglio e il sancta sanctorum pidiellino di via dell’Umiltà, il morale è sotto i tacchi. E al dramma dei numeri si aggiunge la paura per quello che potrebbe succedere la settimana prossima se, come gli sherpa del Cavaliere cominciano a sospettare, la percentuale degli italiani che si recherà alle urne «sarà tale da superare il quorum». Che a quel punto determinerebbe la validità della consultazione referendaria.
Chi ha avuto occasione di confrontarsi col «Capo» nelle ultime quarantott’ore giura che «Berlusconi è disperato». I numeri dei sondaggi, che hanno orientato tutte le sue mosse dal 1994, stavolta lo stanno spingendo verso un cul de sac.
C’è un esempio che vale più di molti altri. Come spiega un ministro a lui vicino, «durante la sua ormai lunga carriera da presidente del Consiglio, in ogni momento di grave difficoltà il Presidente ha minacciato il ricorso alle elezioni anticipate». Stavolta, invece, «della minaccia di “provocare” lo scioglimento anticipato della legislatura non c’è traccia da nessuna parte». Niente. La solita arma fine-di-mondo, che Berlusconi usava puntualmente per mettere paura all’opposizione, è scomparsa da tempo da qualsiasi radar.
Il perché sta nel «foglietto di carta» di cui sopra, nel capitoletto dedicato al «testa a testa» tra centrosinistra e centrodestra. La forbice tra le due coalizioni vede lo schieramento trainato dal Pd in vantaggio di 9 punti rispetto a quello “capitanato” dal Pdl. Un vantaggio che, nel caso in cui il «Terzo Polo» si schierasse col Nuovo Ulivo (Pd, Sel, Idv), salirebbe addirittura a 17 punti percentuale.
E non è tutto. Il primo «sondaggio riservato» del dopo-amministrative fa paura al Cavaliere anche perché alle difficoltà di un Pdl al 27,5 per cento si accompagna una sostanziale “tenuta” del Carroccio. La Lega, infatti, rimane comunque ancorata alla doppia cifra (poco più del 10%). Uno score, spiegano da via Bellerio, che ovviamente «crescerebbe a dismisura qualora la nostra strada si separasse da quella di Berlusconi».
Alla débâcle post-elettorale dei berluscones si accompagna un centrosinistra trainato dall’effetto-amministrative. Pd al 29.2, Sinistra e libertà al 9, Italia dei valori al 6, Udc al 5.5. E, al di là delle cifre attribuite ai singoli partiti, nel sondaggio in questione si annota che la percentuale degli italiani convinti che «sarà il centrosinistra a vincere le prossime elezioni» (42%) è superiore a quella degli elettori che scommettono su una riconferma dell’attuale maggioranza berlusconiana (solo il 31,9% degli interpellati è convinto che, se si votasse domani, il centrodestra rivincerebbe le elezioni).
Tolta la nomina di Alfano a segretario, nel Pdl le contromosse sembrano toppe peggiori del buco. Intervistato da Repubblica, Claudio Scajola ha invitato a «buttare via» la creatura politica del Cavaliere. «Serve una casa dei moderati che ci riunifichi all’Udc», è l’opinione dell’ex ministro. Non quella di Fabrizio Cicchitto, però. «Il Pdl va rinnovato, non smontato», ha messo a verbale il capogruppo a Montecitorio.
La proposta di Scajola, tra l’altro, è stata respinta al mittente dal Terzo Polo. Con un coro di niet che ha raggiunto la vetta massima con un caustico commento che Enzo Carra ha pubblicato sul suo blog. «In case pagate da ignoti, noi dell’Udc non vogliamo abitarci», ha scritto il deputato centrista evocando lo scandalo di Affittopoli che l’anno scorso costrinse Scajola a dimettersi dal governo.
Intanto Alfano ha affidato a un’intervista al Corriere della sera il suo manifesto sulla forma-partito del Pdl. Primarie e congressi sì, «e subito». Correnti «no». Sembra di rivivere, anche nell’utilizzo dei termini, lo stesso calvario attraversato dal Pd fino all’anno scorso. Con una differenza. Nell’eterogeneo mondo del berlusconismo, ci sono big che ancora non hanno mostrato le loro carte. Uno su tutti, Giulio Tremonti.
Il ministro dell’Economia, che nei desiderata del Cavaliere dovrebbe “accontentarsi” di un posto da vicepremier (insieme a Roberto Calderoli) e in cambio sotterrare l’ascia di guerra, ha liquidato i cronisti che gli chiedevano di Alfano facendo ricorso al «cuius regio, eius religio». Significa che il suddito deve conformarsi alla religione del principe dello Stato in cui vive. Ma nel gruppetto (bipartisan) di parlamentari con cui si confronta spesso, c’è chi giura che l’ultimo successore di Quintino Sella ha timore di finire risucchiato dentro «una nuova Democrazia cristiana», come si configurerebbe quel partito «che ha Alfano alla segreteria». Da qui i rumors, che si faranno sempre più insistenti, sulla possibilità che «Giuletto» abbandoni il Pdl con un gesto plateale. Magari all’indomani dei referendum.
Se Milano scarta l’Asso-Silvio, è l’ora del tris di jack. Tremonti, Maroni, Alfano: una poltrona per tre.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 24 maggio 2011)
Se le partite di Milano e Napoli toglieranno l’asso-Berlusconi dal tavolo, scatterà l’ora del «tris di jack». Giulio Tremonti, Roberto Maroni e Angelino Alfano. Tre cavalli di razza che sembrano già sintonizzati sul pomeriggio del 30 maggio. Basta vedere come si tengono lontani dal ring elettorale.
Mentre il gotha del blocco Pdl-Lega s’affanna in ordine sparso a tirar fuori dal cilindro dicasteri da decentrare (a Milano e Napoli), multe da condonare (Milano) e case abusive da non abbattere (Napoli), i tre ministri simbolo del governo Berlusconi si tengono ben lontani dalla rissa. Basta vedere come si sono mossi negli ultimi giorni, sempre a debita distanza da quelle «paure» e dagli spettri di «zingaropoli islamiche» agitati ora dal Cavaliere ora dal Senatùr. Rispetto a Giuliano Pisapia, che ormai è il bersaglio fisso anche dei berluscones moderati, Maroni s’è limitato a dire: «Il suo programma prevede iniziative non condivisibili in materia di moschee e cose del genere. Ma la sua elezione non mi fa paura».
Quanto ad Angelino Alfano, ieri ha rimarcato come non mai la sua distanza da una coalizione che
continua a puntare l’indice – soprattutto in campagna elettorale – contro i magistrati. «I parlamentari collusi con la criminalità se ne devono andare, non ho dubbi su questo. Anzi, se i partiti hanno la forza di cacciarli è meglio», ha scandito il Guardasigilli intervenendo a Palermo alla commemorazione della strage di Capaci, usando parole che gli sono valse l’elogio incondizionato del procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso («Una delle qualità che riconosco ad Alfano è quella di percepire al volo le priorità»), che pure non ha risparmiato una stilettata all’indirizzo della maggioranza («Impossibile dialogare con chi ci insulta»).
Il terzo cavallo di razza è Giulio Tremonti, che tolta una sortita bolognese (insieme a Bossi) per il candidato leghista Manes Bernardini, non solo s’è chiamato come sempre fuori dalla mischia. Ma ieri, fanno notare dal centrodestra napoletano, «ha rifilato una bella mazzata a Gianni Lettieri», che a Napoli corre contro Luigi de Magistris. In che modo? Semplice. Il ministro dell’Economia è l’azionista di Fintecna. Di conseguenza, c’è anche la sua «manina» dietro il piano di esuberi di Fincantieri che prevede la chiusura dello stabilimento di Castellammare di Stabia, definito «inaccettabile» persino dal pidiellino presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro (anche Lettieri, per la cronaca, ha preso malissimo la notizia).
Maroni, Alfano e Tremonti. Il tris di jack si tiene lontano dagli schizzi di fango di una campagna elettorale ad alzo zero per giocarsi la poltrona di Palazzo Chigi, sempre se i ballottaggi provocheranno la resa dei conti nel centrodestra. Nei briefing tenuti coi fedelissimi negli ultimi giorni, Gianfranco Fini ha spiegato che «la situazione» della maggioranza assomiglia moltissimo ai giorni prima del 14 dicembre. Con la differenza che nessuna «compravendita» potrà mettere al riparo Berlusconi dall’eventuale sconfitta di Letizia Moratti. Nel Terzo Polo, infatti, scommettono sul Carroccio che stacca la spina al Cavaliere. E sull’ascesa di Tremonti, che guiderebbe il governo con una maggioranza allargata. «In quel caso», spiega Roberto Rao, braccio destro di Pier Ferdinando Casini, «il ministro dell’Economia potrebbe puntare su un programma di riforme basato su economia e lavoro, finanziandolo con quello che lui stesso ha risparmiato fino ad oggi». Nel senso che, «mentre finora s’è tenuto il bancomat nascondendo il Pin anche a Berlusconi, se andasse a Palazzo Chigi Tremonti potrebbe investire sul Paese gestendone in prima persona il rilancio». È lo scenario di un centrodestra de-berlusconizzato, con maggioranza allargata (a Terzo Polo e pezzi di Pd) e un governo di decantazione senza scadenza. Per tenere lontane le urne.
È lo scenario che, però, non piace a Pier Luigi Bersani. A differenza di alcuni suoi autorevoli colleghi di partito (Walter Veltroni su tutti) il segretario del Pd, che considera Tremonti «il corresponsabile del malgoverno del paese», ha in testa un altro piano. Il cui punto di caduta sarebbero le elezioni anticipate, a novembre. Se il Carroccio togliesse l’ossigeno al Cavaliere dopo il voto, il leader democratico tirerebbe fuori dal suo mazzo la carta Maroni. Giusto il tempo di approvare i decreti finali del federalismo caro a Bossi e poi si andrebbe tutti alle urne. Con la Lega che, favorita dall’approvazione della madre di tutte le sue riforme, sarebbe agevolata anche correndo da sola in tutto il Nord.
E il terzo jack? Angelino Alfano entrerà in partita solo nel caso più improbabile: quello di un «passo indietro» di Berlusconi, che ne favorirebbe l’ascesa. Quest’ultimo è lo scenario meno battuto, perché soggetto a un numero indefinito di variabili. Tra tante incognite c’è una sola certezza: a prescindere dal governo che sarà in carica nel caso di showdown, l’«epocale riforma costituzionale della giustizia» del premier uscirà dai radar del Palazzo. Anche se quell’esecutivo sarà guidato dal suo primo firmatario. Lo stesso che infatti ieri se n’è tornato a casa con un bel plauso firmato da Pietro Grasso.
Referendum e voto a novembre. La strategia Pd per tentare il kappaò.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 19 maggio 2011)
Colpire Silvio Berlusconi al ballottaggio di Milano. Affondarlo al referendum sul legittimo impedimento del 12 giugno. La strategia di Pier Luigi Bersani di tendere al Cavaliere lo stesso tranello in cui Bettino Craxi cadde nel 1991 – anticipata ieri dal Riformista – ha incassato ieri il via libera del partito. Durante la riunione coi segretari regionali del Pd, il leader ha ribadito la necessità di alzare il livello dello scontro sui quesiti. Anche perché, è il senso del ragionamento di “Pier Luigi”, l’eventuale sconfitta di Berlusconi sarebbe senza appello.
Ovviamente la partita è complicatissima. Perché manca il traino del referendum sul nucleare (su cui però deve ancora esprimersi la Cassazione). E soprattutto perché il quorum è un obiettivo che manca ormai da un decennio. Eppure Bersani ci crede. «Dobbiamo provarci», ha spiegato ieri nella riunione coi segretari regionali. «È necessario incrociare la campagna dei ballottaggi con quella dei referendum», ha insistito prima che la sua linea venisse ratificata all’unanimità. C’è addirittura un piano di mobilitazione ad hoc, elaborato dalla war room del Nazareno proprio dopo la «svolta» impressa dal segretario sui quesiti: manifesti, gazebo, manifestazioni locali, concerti, spot radiofonici. Tutto per spingere oltre la soglia del 50 per cento più uno la percentuale dei votanti al referendum.
Sull’accelerazione nella strategia referendaria il centrosinistra si trova compatto. Anche perché, come ha spiegato ieri Antonio Di Pietro, «questa scelta rappresenta anche un’apertura alle istanze del Movimento di Beppe Grillo». D’altronde lo ha detto anche il candidato sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «È fondamentale – ha incalzato Pisapia – che i cittadini decidano su temi così importanti. L’esito del referendum di giugno è decisivo». L’eventuale vittoria del centrosinistra a Milano e Napoli potrebbe trainare il quorum. «Una vittoria di Pisapia nel capoluogo lombardo, in termini di affluenza, “vale” almeno quanto l’impossibile riammissione del quesito sul nucleare», ragionava ieri il deputato dalemiano Antonio Luongo conversando con alcuni colleghi su una panchina del cortile di Montecitorio. Sembra una mission impossible. Però è chiaro che, se riuscisse, sarebbe il colpo del ko definitivo per il Cavaliere. «Nell’ultimo anno il premier ha “retto” nascondendosi dietro la certezza che il paese reale, al contrario del Palazzo, sta con lui», ragionano ai piani alti del Pd. «Una sconfitta al referendum, persino un quorum mancato di pochissimo, gli toglierebbero la sua arma principale», aggiungono.
Ma dopo? Che cosa succederebbe se il «piano Bersani» riuscisse? Gli ambasciatori che stanno tenendo il filo dei colloqui tra Pd e Carroccio stanno già mettendo nero su bianco i termini del «dopo-Silvio». Calcolando che il premier, per tenere la Lega nella maggioranza, arriverebbe al passo indietro (in favore di Tremonti), a quel punto ai democrat non rimarrebbe che una strada. Le elezioni anticipate a novembre. Con uno schema che, a quel punto, il Senatùr non potrebbe rifiutare. Quale? Al Nord, il Pd si candiderebbe in alleanza solo con Vendola (e Di Pietro?), senza il Terzo Polo. Lasciando insomma che il Carroccio, che a quel punto si presenterebbe da solo, riesca a riportare a Montecitorio quantomeno la stessa pattuglia di parlamentari che ha oggi. Al Centro e al Sud, invece, Bersani potrebbe testare un’alleanza più larga, quel «centrosinistra allargato» di cui parla da tempo. È un po’ lo stesso schema del Berlusconi del ’94 (Polo della libertà al Nord, Polo del Buon governo al Sud). Solo che, stavolta, quelle geometrie variabili che portarono il Cavaliere al potere, potrebbero segnarne la fine.
Quel “patto dei congiurati” sul federalismo fiscale.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 10 maggio 2011)
Ormai la partita è tutta in chiaro. Basta ascoltare le parole che Gianfranco Fini ha detto ieri a Milano, lasciando intendere che in caso di ballottaggio i voti di Fli non saranno di certo convogliati verso Letizia Moratti: «Penso che saranno proprio i milanesi», ha scandito il presidente della Camera, «a essere decisivi per la definizione del futuro rapporto tra Pdl e Lega».
Al di là di qualsiasi forzatura, la frase che la seconda carica dello Stato ha pronunciato nel capoluogo lombardo durante la presentazione del suo libro L’Italia che vorrei è la rappresentazione plastica dei desiderata di tutta l’opposizione. Se Letizia Moratti non si riconferma nella sua seggiola a Palazzo Marino, l’entrata in crisi della maggioranza sarebbe cosa fatta. In fondo, l’ha ripetuto anche ieri Pier Luigi Bersani, alla testa di un Pd che adesso ha concentrato la sua comunicazione pre-elettorale sulla distanza tra il “popolo leghista” e il Cavaliere. «I leghisti sono un po’ a disagio. Siamo al governo del ribaltone, siamo il teatrino della politica, siamo il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti», ha scandito il segretario del Pd a margine di un comizio a Pavia. E ancora, sempre dalla viva voce del leader dei Democratici: «Sono tre mesi che dico che a Milano si vince. Mi prendevano per un matto tre mesi fa, ma io lo ribadisco».
Che la battaglia di Milano sia diventata lo spartiacque di tutta la legislatura lo dimostra anche la mole di contatti sotterranei che, a meno di due settimane dalle amministrative, il gotha leghista (compreso il “non tesserato” Giulio Tremonti) sta intrattenendo con i vertici dell’opposizione. Da Fini a Bersani, passando per Casini o Enrico Letta, non c’è alto dirigente della minoranza che, al di là dei toni “da campagna elettorale”, non stia cercando di tessere col Carroccio quella tela che s’era di fatto interrotta il 14 dicembre scorso.
Nelle agende di ciascuno di coloro che Berlusconi ha già privatamente bollato come «congiurati» c’è anche una giornata segnalata con la penna rossa: il 21 maggio prossimo, praticamente a metà strada tra il primo turno delle amministrative e i ballottaggi. Entro quella data, infatti, il Parlamento dovrà prorogare di sei mesi la legge delega sul federalismo fiscale. Significa, spiegano anche nella cerchia ristretta del Carroccio elaborando un’efficace traduzione dal “politichese”, «che si riapriranno le danze sul federalismo». Dai giri di valzer nella “bicameralina” alle votazioni in Aula. A cominciare da quelle sui decreti mancanti (i primi saranno su «premi e sanzioni» per le amministrazioni locali e sulle funzioni di Roma capitale) per proseguire sulle norme che verranno riscritte. E su questo, come spiega la fonte leghista, «noi trattiamo con tutti e su tutto. D’altronde, la proroga annunciata da Roberto Calderoli due mesi fa venne scelta per andare incontro alle richieste del Pd e del Terzo Polo». Il deputato-economista Francesco Boccia, uno degli esponenti democratici che segue più da vicino il dossier sul federalismo fiscale, lo spiega senza troppi giri di parole: «Il federalismo fiscale potrebbe essere l’unico fatto “politico” tout-court di questa legislatura». Ed è ovvio, aggiunge il deputato vicino a Enrico Letta, che «su questo terreno potrebbero registrarsi significativi cambiamenti all’interno del quadro politico».
Ovviamente, il voto sul rinnovo della legge delega non prevede alcuna sorpresa dell’ultim’ora. Non foss’altro perché praticamente tutte le forze politiche sono d’accordo (quantomeno) sulla tabella di marcia. Ma la vera «svolta», la stessa che nei colloqui tra la Lega e l’opposizione è tutt’altro che sottotraccia, riguarda le prospettive nel caso in cui Milano passasse al centrosinistra. Col federalismo fiscale di nuovo al centro dell’agenda politica, ci sarebbe «un’ora X» in cui un’altra maggioranza avrebbe modo di testarsi. «E i voti sulla riforma più cara al Carroccio», è l’analisi svolta anche dal Terzo Polo, «sarebbero senz’altro un’occasione migliore dell’eventuale voto di fiducia sulla nuova maggioranza», ventilato da Fini all’indomani della nota del Quirinale sull’infornata di nuovi sottosegretari.
Ovviamente, se riuscisse a passare senza graffi attraverso le forche caudine del voto, Berlusconi si rafforzerebbe. E l’opposizione, a cominciare dal Pd, rischierebbe di finire inghiottita dalle dispute sul futuro del centrosinistra, a cominciare da quella sulla leaderhip («Su questo io ci sono, ma dobbiamo sentire anche gli altri», ha detto ieri Bersani intervistato da Porta a porta»). Ma se la tornata delle amministrative non sorridesse al Pdl, a quel punto la legislatura sarebbe a una svolta. E i voti finali sul federalismo potrebbero sancire il «patto dei congiurati» che segnerebbe anche la storia del berlusconismo.
Tremonti successore? Il bluff di Silvio per rompere la pax leghista.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 maggio 2011)
Il bacio della morte (politica, naturalmente) sulle guance di «Giulio». E un modo per tentare di rompere il recente armistizio sottoscritto tra le «fazioni» in guerra all’interno del Carroccio.
Due obiettivi con un solo colpo. È quello che Silvio Berlusconi “spara” di fronte alle telecamere di Porta a porta quando ieri pomeriggio, a poche ore dall’approvazione della mozione della maggioranza sulla Libia, indica per la prima volta come “delfino” il suo più acerrimo nemico interno: Giulio Tremonti. «Se per il centrodestra sarà necessario che io mi ricandidi alla guida del governo, non mi tirerò indietro», è la premessa. Ma «se invece verranno fuori altre personalità, e ne abbiamo diverse, Tremonti in primis, io sarei felice di lasciare ad altri la conduzione del governo».
Ovviamente si tratta di un bluff. Non foss’altro perché, quando lo indica in pole position nella linea di successione a se stesso, il presidente del Consiglio è in preda all’ennesima crisi di nervi causata, a suo dire, dall’ultimo successore di Quintino Sella. «Ma lo sapete», aveva raccontato in mattinata, che «Giulio ancora non s’è degnato neanche di farmi vedere la bozza del decreto sullo sviluppo che sarà approvata domani (oggi, ndr) dal consiglio dei ministri?».
Nella sua cerchia ristretta giurano che la mossa di “benedire” il rivale per la successione sia stata elaborata tempo fa per «sovraesporlo». Fosse solo questo, l’obiettivo sarebbe stato raggiunto in nemmeno mezz’ora. Basti pensare che le prime due reazioni alle parole di Berlusconi sull’incoronazione del superministro dell’Economia sono quelle dei suoi rivali diretti. Roberto Maroni mette a verbale che «Tremonti è un ottimo ministro e sarebbe un ottimo presidente del Consiglio». Angelino Alfano, che il Cavaliere aveva indicato come erede (in privato) salvo poi smentire (in pubblico), dice che «l’idea di Tremonti premier, se l’ha detta Berlusconi, è condivisibile».
Eppure, dietro la mossa di Berlusconi, c’è di più. Il Cavaliere sa che la stragrande maggioranza dei suoi tormenti delle ultime settimane – Libia compresa – derivano da un patto di non belligeranza sottoscritto dal gotha della Lega. E che la tregua imposta da Bossi nelle stanze di via Bellerio, che ha congelato le rivalità tra la fazione «Calderoli-Tremonti» e quella guidata da Roberto Maroni, era servita a ricompattare gli alti dirigenti del partito contro il premier.
Da qui la contromossa, che Berlusconi serve a freddo, poche ore dopo che l’Aula di Montecitorio ha fischiato la fine (momentanea) delle ostilità sulla Libia. Indicare «Giulio» alla succesione per riattizzare lo scontro interno alla Lega su chi deve stare in prima fila nel caso in cui le amministrative sanciscano la crisi della maggioranza. E spezzare quella trama bipartisan che tanto il ministro dell’Economia quanto il titolare dell’Interno stanno alimentando.
D’altronde, che Tremonti abbia contatti continui e costanti con i leader dell’opposizione (Fini compreso) non è un mistero per nessuno, men che meno per il premier. Quanto alla tela bipartisan di Maroni, basta citare che ieri il ministro dell’Interno ha ricevuto una delegazione del Pd (guidata da Walter Veltroni e Andrea Orlando) che gli aveva chiesto udienza dopo la valanga di arresti nel Pdl campano. Una mossa, questa, che ha innervosito i berluscones partenopei al punto tale che è dovuto intervenire il premier in persona per placarne i bollenti spiriti.
«Tremonti aizza la Lega», aveva titolato il Giornale? «E noi aizziamo Tremonti nella Lega», è la strategia del Cavaliere. È un gioco a carte scoperte. Come ha capito anche Bossi. «Berlusconi durerà a lungo. Tremonti? Io sono amico suo. Ma Silvio dice queste cose per allontanare il momento (dell’addio alla leadership) il più possibile», spiega il Senatur in serata. In tasca, però, il premier ha un’altra carta. Sapendo che l’eventuale esito negativo delle comunali di Milano potrebbe riaprire la crisi nella maggioranza, «Silvio» ha cominciato a sondare qualche malpancista del Carroccio. Non a caso, la corrente delle camicie verdi che puntano a confermare senza se e senza ma l’alleanza col Pdl è già nata. E ne fa parte, oltre ad alcuni bossiani del cerchio magico, anche Marco Reguzzoni. Proprio lui, l’uomo che aveva annunciato la «tregua» sulla Libia prima che l’accordo fosse raggiunto. L’uomo che adesso i vertici di via Bellerio vorrebbero spostare al governo (coi galloni di viceministro o sottosegretario) per lasciare la poltrona di capogruppo a un esponente più “affidabile”. Come il maroniano Stucchi, ad esempio.
La Lega anti-raid sparge veleno su Mario Draghi.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Sembra l’anticamera di una crisi di governo. Alle 19.34, quando Bossi dice all’Ansa che «dopo le dichiarazioni di Berlusconi Gheddafi ci riempirà di clandestini», la maggioranza – almeno sulla politica estera – di fatto non esiste più.
Pare la sconfessione dei teorici del «gioco delle parti», di quelli secondo cui al Cavaliere serviva che il Carroccio “coprisse” per il centrodestra anche il fronte anti-bombe. E sembra anche la piena smentita indirizzata a chi, come Ignazio La Russa, si presenta ai microfoni del Tg3 per negare l’ennesima «lite» che sta per scoppiare dentro la maggioranza.
Fin qui le ipotesi. L’unica certezza è che le poche parole che il Senatur affida all’Ansa nel tardo pomeriggio di ieri seppelliscono l’ottimismo di maniera con cui il presidente del Consiglio aveva risposto alle domande sulla tenuta della coalizione a ventiquattr’ore dall’annuncio dei bombardamenti italiani sulla Libia. «Con Bossi è tutto a posto», aveva replicato il premier passeggiando per le vie della Capitale poche ore dopo il vertice italo-francese. «Comprendo le perplessità leghiste», aveva aggiunto, ma «non è stata una decisione facile. Ieri sera ho parlato con Calderoli, Maroni e Bossi. E anche oggi ci risentiremo».
Fatica sprecata. Perché il leader della Lega, ancor prima di ricevere la seconda telefonata del premier sulla crisi libica, seppellisce la strategia bellica del governo. Con un uno-due devastante. «Dopo le dichiarazioni di Berlusconi, Gheddafi ci riempirà di clandestini». E uno. «Le guerre non si fanno e comunque non si annunciano così. Berlusconi ci dirà pure che Gheddafi ci riempie di clandestini, ma io dico che non sono d’accordo sui bombardamenti. Se gli americani vogliono bombardare, che lo facciano loro». E due. Tutto dalla viva voce del ministro delle Riforme.
E pensare che, fino all’intervento a gamba tesa del Senatur, sembra di stare di fronte al remake del film già visto all’inizio della crisi libica. C’è la decisione («Sono costretto», ha confidato il premier ai suoi) di intervenire attivamente nella missione, che Berlusconi mette nero su bianco smentendo se stesso. C’è la “copertura” dell’opposizione, da cui si smarca soltanto l’Italia dei valori. E anche l’intervento del Quirinale, con Giorgio Napolitano che spiega come «l’ulteriore impegno dell’Italia in Libia costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta a marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio supremo di difesa e confortata da ampio consenso in Parlamento». Ma in serata, dopo le parole di Bossi, nella cerchia ristretta del presidente del Consiglio l’allarme sale oltre il livello di guardia. Tanto è vero che gli sherpa di Palazzo Grazioli e di via Bellerio s’affrettano a far filtrare la notizia di un faccia a faccia tra «Silvio» e «Umberto» che avrà luogo prima del consiglio dei ministri di giovedì. Tra i più stretti consiglieri del premier c’è la certezza che «la situazione verrà ricomposta».
Ma il nervosismo sulle parole dell’alleato è alle stelle. Tanto che, nell’inner circle berlusconiano, c’è chi teme che il fuoco di fila leghista assomigli a «un avviso di sfratto». A questo punto della storia è necessario fare un passo indietro al giorno di Pasqua. Quando il Cavaliere, nella telefonata di auguri a Bossi, comincia a mettere il leader del Carroccio di fronte alla possibile svolta. «Umberto, neanche io vorrei bombardare», è il senso delle parole del premier. Ma, è il sottotesto, «siamo costretti a farlo. Con Gheddafi ancora in piedi, ci ritroveremo l’Italia sommersa dai clandestini». Sono parole che, al leader della Lega, non piacciono affatto. Anche perché, nel sancta sanctorum del Carroccio, qualcuno dei fedelissimi segnala al «capo» che la mossa rischia di sembrare «l’ennesimo asservimento alla strategia di Sarko». In fondo, è lo stesso meccanismo che porta i leghisti spargere veleno sull’ipotesi che dietro la «svolta sui raid ci sia anche il benestare che l’Eliseo darà a Mario Draghi per la corsa del numero uno di Bankitalia alla guida della Bce».
Veleni o non veleni, sui bombardamenti il Carroccio risponde come un sol uomo. Tolto il taciturno Roberto Maroni, che però da tempo manifesta perplessità sulla piega che sta prendendo l’affaire Libia, la Lega – come spiega Roberto Calderoli – «è contraria alla guerra e lo dirà in consiglio dei ministri». Una posizione che provoca la reazione stizzita di La Russa: «Calderoli? Ha informazioni incomplete».
L’unica certezza è che anche in questa partita Giulio Tremonti si muove dietro le quinte. Il ministro dell’Economia, che in un colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha smentito «i complotti» ma confermato la strategia rigorista, è il vero argine al decreto per il finanziamento della missione libica, che per adesso “regge” esclusivamente sul bilancio della Difesa. E si torna al via, come uno sfortunato lancio di dadi del Monopoli. A una maggioranza di «separati in casa» che, Gheddafi o non Gheddafi, si gioca la sopravvivenza alle elezioni di Milano.
Gasparri attacca: «Il Pdl in preda al tafazzismo. Ci sono troppi untorelli».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 aprile 2011)
C’è Daniela Santanchè che attacca Letizia Moratti sul caso Lassini. C’è Giancarlo Galan che prende di mira Giulio Tremonti sulle colonne del Giornale. E c’è Maurizio Gasparri che allarga le braccia e dice al Riformista: «Si vede che la sinistra ci ha contagiato. Anche il Pdl ha preso questa benedetta malattia del tafazzismo». Non è tutto: «Io e altri», aggiunge il capogruppo al Senato, «cerchiamo di mettere pace, di distribuire gli “antibiotici” contro quest’infezione. Ma niente… Ci sono troppi untorelli in azione».
A Milano dovevate vincere a mani basse. E invece litigate su Lassini.
«Scusi, ma il caso Lassini non era già chiuso?»
Non per la Santanchè. Che, attaccando il sindaco di Milano, ha detto che su Lassini «decideranno gli elettori».
«Per noi il caso Lassini è chiuso. Dopo i manifesti sui giudici e le Br, il partito ha preso le distanze da Lassini e lui non solo ha ammesso l’errore, ma s’è ritirato dalla campagna elettorale. Tutto questo significa che il Pdl invita i cittadini milanesi a non votare quel candidato. La questione resta aperta solo da un punto di vista tecnico. Che cosa dobbiamo fare di più, un decreto legge per evitare che gli elettori scrivano il suo nome sulla scheda?»
E l’attacco di Santanchè alla Moratti?
«Io davvero non ci capisco più niente. Ciascuno di noi dovrebbe fare la campagna per il nostro candidato sindaco e invece c’è chi addirittura attacca Letizia…».
Tafazzismo puro.
«Lo ripeto: forse la sinistra ci ha trasmesso il virus di questa malattia. E pensare che c’è gente come me, come Cicchitto e come Quagliariello che convoca delle riunioni per parlare, per discutere tra di noi, per cercare di vedere se ci sono problemi, per evitare che ci si metta a fare delle interviste che creano solo danni. Io ho aperto una farmacia, distribuisco antibiotici contro questo tafazzismo. Ma nel Pdl ci sono un po’ di untorelli…».
«Non saranno certo dei poveri untorelli a spiantare Bologna», disse Berlinguer nel ’77 attaccando il Movimento.
«Io cito i Promessi Sposi di Manzoni: «Va, va, povero untorello. Non sarai tu quello che spianti Milano…». Solo che qua gli untorelli sono più di uno».
Infatti c’è anche l’attacco di Galan a Tremonti.
«Appunto. Vede, i litigi tra i ministri di spesa e quelli del Tesoro sono un tema vecchio quanto Adamo ed Eva. Nella prima Repubblica queste sfide erano una costante. Immaginate oggi che Tremonti assomma le deleghe dei dicasteri di Tesoro, Finanze, Bilancio e pure qualcosa delle vecchie Partecipazioni statali».
È una potenza.
«E invece no, forse è l’esatto contrario. Ma sapete quanti sono i fattori che condizionano l’operato del povero Giulio? L’Unione europea, la globalizzazione, il mercato interno. Basti pensare che, sul fronte dell’energia, tra Libia e Fukushima nelle ultime settimane è cambiato tutto».
Eppure l’attacco al «rigorista» Tremonti, pubblico o meno che sia, è diventato uno degli sport più praticati, nel centrodestra.
«Pure io ci ho discusso molte volte, con Tremonti. Ma c’è qualcuno che può pensare che Giulio chiuda i cordoni della borsa solo per il gusto di mettere in difficoltà il governo di cui fa parte?».
Evidentemente sì.
«Io dico che, invece che rilasciare interviste per incassare qualche applauso facile facile, ciascuno dovrebbe fermarsi un attimo e pensare che Tremonti ha mille parametri da rispettare».
Forse Tremonti ha un caratteraccio.
«Questo di sicuro. Soprattutto perché, qualsiasi cosa succeda, pensa che ci sia sempre un “grande disegno” contro di lui. E poi perché qualche volta non sa ascoltare».
Gasparri, lei ha provato a farglieli notare, questi difetti?
«Certo. Ma Giulio dà sempre risposte del tipo: “Perché, vuoi dire che io non sto ad ascoltare gli altri?”».
Che fatica il mestiere di paciere nel Pdl.
«Tutti dovremmo cercare di smussare gli angoli più spigolosi del nostro carattere. Anche io, che certe volte ero troppo esuberante, mi sono dato una calmata».
La ricetta della tranquillità pidiellina del “medico” Gasparri?
«Niente psicofarmaci né sonniferi, quelli fanno male. Però una bella tisana dovremmo berla tutti, soprattutto di questi tempi».
Dopo le amministrative, il Pdl cambierà forma?
«Io sono per fare i congressi, come dice il mio amico La Russa, che per aver espresso questa posizione è stato ingiustamente attaccato. E sapesse le risate che mi faccio quando leggo di esponenti del nostro partito che sui giornali invocano i congressi e nelle riunioni dicono l’esatto contrario…».
Fuori i nomi.
«Niente nomi. Ho detto che dobbiamo tutti darci una calmata e mi metto io ad attaccare gli altri?».
Pisanu, un autorevole senatore del gruppo che lei presiede, ha chiesto un governo che superi quello attuale. Per i finiani chiedeste l’espulsione…
«L’altro giorno ho letto una dichiarazione di Pisanu che diceva: “Resto nel Pdl finché mi sopportano”, e cose così. Quando l’ho incontrato gliel’ho detto: “Caro Beppe, guarda che io ti sopporto benissimo”. La differenza tra Pisanu e Fini è che il primo ha delle idee diverse, che io non condivido. Il secondo, invece, era uno che boicottava…».
In che senso scusi?
«Basta un esempio solo. L’anno scorso, quando la Polverini era in difficoltà nel Lazio, disse che non poteva fare campagna elettorale da presidente della Camera. Quest’anno, però, vedo che in giro per sostenere Fli ci va, eccome se ci va».