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Il delitto perfetto sul piano nucleare. Basta un atomo per allontanare il battiquorum.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 aprile 2011)

«È stato un colpo da maestro. Diamo una prospettiva al nucleare e, visto che ci siamo, cancelliamo ogni possibilità che i referendum raggiungano il quorum». Ieri pomeriggio, quando la decisione del governo di cancellare il piano nucleare sta facendo il giro di tutti i mezzi d’informazione, un esponente dell’esecutivo racconta dietro la garanzia dell’anonimato un altro film. Possibile titolo: «Il delitto perfetto».
L’impresa non era delle più semplici. Anche per la presenza di mille variabili impazzite. A Berlusconi serviva dare una minima speranza agli investimenti sul nucleare dopo Fukushima, tenere insieme i tanti malpancisti del governo (a cominciare dal ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo), soddisfare l’immancabile pretesa tremontiana (nel senso di Giulio) di tenere chiusi i cordoni della borsa (il piano nucleare costa, eccome se costa), togliere il dossier dalla campagna elettorale delle amministrative e, last but non least, cancellare le minime speranze che il referendum sul legittimo impedimento raggiungesse il quorum, magari trainato dai quesiti anti-atomo. Cinque obiettivi. Raggiunti in un sol colpo ieri.
Quando il gruppo del Senato guidato da Maurizio Gasparri e dall’ex radicale (esperto, quindi, di referendum) Gaetano Quagliariello segnala al governo la presenza di un emendamento firmato da Francesco Rutelli (altro ex radicale) nelle discussione sul decreto omnibus, ecco che gli uffici di Palazzo Chigi si trovano di fronte all’occasione che aspettavano. Il colpo del «delitto perfetto» in grado di colpire tutti e cinque i bersagli. All’emendamento del leader dell’Api, che cancellava ogni traccia normativa sulla prevista realizzazione delle centrali, il governo esprime parere favorevole. C’è una triangolazione tra Paolo Romani e Giulio Tremonti, il raccordo con il gruppo del Pdl a Palazzo Madama «e il gioco», aggiunge la fonte governativa, «si conclude. Infatti nessuno ci vieta di ripresentare il piano l’anno prossimo, quando magari l’eco del disastro giapponese si sarà spenta…».
Ovviamente, anche il delitto perfetto del governo ha qualche limite. Perché con gli effetti collaterali del disastro giapponese il mondo dovrà fare i conti per molti anni a venire. D’altronde, come spiega Benedetto della Vedova dando una boccata di sigaro nel cortile di Montecitorio, «mi pare che di nucleare non si parlerà più». Ma è altrettanto vero, e il capogruppo dei finiani alla Camera lo riconosce, che «stavolta la maggioranza ha preso due piccioni con due fave».
Il secondo piccione di cui parla Della Vedova è, ovviamente, il referendum. Con l’approvazione dell’emendamento anti-atomo del decreto omnibus, il quesito che avrebbe trainato quelli sull’acqua e il legittimo impedimento scomparirà dalle schede della consultazione del 12 giugno. Domanda: ma c’era qualche minima speranza che, per la prima volta dopo un decennio, un referendum passasse il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto? La risposta poteva anche essere affermativa. Almeno a prendere per buono un sondaggio riservato commissionato da Federutility (la federazione che riunisce le aziende di servizi pubblici, interessata al quesito sull’acqua), che una settimana fa fissava la partecipazione al voto in una forbice tra il 48 e il 52 per cento. Speranze che, senza il traino del voto sull’atomo, ovviamente si riducono al lumicino. Con tanti saluti alla partita sul legittimo impedimento.
Con la mossa del Senato, il governo si garantisce una giornata con l’happy end. Con Paolo Romani, uno degli artefici della partita, che si concede il lusso di annunciare «un nuovo piano energetico entro l’estate». E con l’opposizione che, ieri, ha finito per dividersi. Perché quando arriva la notizia della cancellazione del piano per il nucleare, Pier Luigi Bersani esulta: «È una nostra vittoria». Al contrario di Antonio Di Pietro, che invece convoca una conferenza stampa per «denunciare il colpo di mano del governo sul referendum del legittimo impedimento». Il segretario del Pd, più tardi, aggiusterà il tiro. Prima con una dichiarazione alla stampa («La decisione del governo? È positivo ma non lo è abbastanza: perché è chiaro che vuole solo scappare dal confronto sul referendum»), poi con una battuta affidata ai fedelissimi: «Dal “governo del fare” erano diventati il governo del “faremo”. Adesso si sono trasformati nel governo del “non faremo più”». Anche Massimo D’Alema, come Di Pietro, lega la cancellazione del piano nuclerare al referendum: «Berlusconi vuole solo far fallire il quorum». Morale della favola: alla Camera, sulla riconversione del decreto omnibus, l’opposizione marcerà a ranghi separati. «Decideremo dopo averne parlato», dice l’udc Roberto Rao a metà pomeriggio. Ma i rutelliani voteranno a favore, visto che l’emendamento accolto dall’esecutivo era firmato dal loro leader. «Anche io sarei tentato di votare sì. Ma, visti i numeri della Camera, è irrilevante», scandisce il finiano Della Vedova. Il Pd ne parlerà alla ripresa dei lavori dopo Pasqua. «Se hanno cambiato idea è merito di Alberto Losacco», è la battuta di Dario Franceschini, che rimanda al «profetico» appello anti-atomo firmato giusto ieri dal suo fedelissimo sull’Unità. I dipietristi, invece, voteranno compatti contro. Opposizione divisa. «Delitto perfetto», insomma.

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Written by tommasolabate

20 aprile 2011 at 11:43

I colleghi lo temono. E lui, Giulio, confessa alla Bindi: “Rosy, non sai quanto ti invidio”

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 13 aprile 2011)

Giulio TremontiÈ la bionda Stefania Prestigiacomo, sua nemica giurata, ad aprire le danze: «Che cos’è, domani quello viene in consiglio dei ministri a varare qualche manovrina economica senza avvertire nessuno, come al solito?».

Sembra una di quelle rarissime classi disciplinate, in cui gli studenti stanno composti anche quando il maestro è assente. Mancano per l’appunto il maestro, Silvio Berlusconi, e un assente giustificato, Franco Frattini, impegnato in Lussemburgo con gli altri ministri degli Esteri. Il resto della squadra di governo è tutta al proprio posto, nell’Aula di Montecitorio, a “marcare” l’approvazione del processo breve caro al maestro. L’armonia dura fino a che la Presigiacomo non solleva i suoi dubbi sull’esame del documento di economia e finanza nonché sul Piano nazionale delle riforme, che oggi saranno al vaglio di un Consiglio dei ministri che si riunirà alla Camera. «Quello ci farà uno dei suoi soliti scherzi?», è il ritornello che la bionda titolare dell’Ambiente affida alle orecchie poco discrete di alcuni suoi colleghi.

Quello, che non ha certo bisogno di presentazioni, è Giulio Tremonti. L’uomo su cui si addensano sistematicamente i sospetti di mezzo governo, soprattutto dopo il ticket Berlusconi-Letta ha perso la sponda di Cesare Geronzi nel salotto buono della finanza nostrana. L’uomo del «rigore» e dei cordoni della borsa rigorosamente sigillati, insomma.

Quando «Stefy» e altri ministri ne parlano male, lui, l’ultimo successore di Quintino Sella a via XX settembre, è impegnato nella prima delle tante chiacchierate «eterodosse» (la definizione, tra il perfido e l’ironico, è di un suo collega di governo) in cui s’è intrattenuto ieri. Che «Giulio» non sia contento di stare in Aula a «perdere tempo» si vede lontano un miglio. E così, quando incrocia Rosy Bindi, le sussurra in un orecchio: «Rosy, non sai quanto ti invidio». «E perché?», replica la pasionaria del Pd. «Perché rimpiango la legislatura passata, quando facevo il vicepresidente della Camera. Credimi», insiste Tremonti, «stavo molto meglio di oggi». «Perché avevi meno rogne, caro Giulio», è la controreplica della Bindi.

Rosy BindiChe trami alle spalle del Cavaliere oppure no, resta il fatto che ogni mossa di Tremonti viene sempre vista con sospetto. E così, quando s’avvicina al “frondista” Claudio Scajola, suo acerrimo (ex?) nemico per una chiacchierata, Dagospia gli dedica l’apertura dell’home page. Titolo: «Gli ultimi giorni di Pompei». Sommario: «Di cosa confabulano per 22 minuti, oggi a Montecitorio, Tremonti o Scajola? Le conseguenze per il Cainano si potranno vedere in futuro, o anche domani».

Una cosa è certa. La full immersion di ieri alla Camera dimostra quello che Radiotransatlantico sostiene da tempo: tra i banchi dell’opposizione, Giulio Tremonti rimane una star. Di più, è l’unico esponente della maggioranza a essere apprezzato da Bersani, Fini, Casini e financo da Di Pietro, con cui “dialoga” attraverso il professor Vincenzo Fortunato, il suo capo di gabinetto che ha ricoperto lo stesso incarico per «Tonino».

Quale sarà il punto di caduta della «settimana incandescente» evocata da Gianni Letta non è dato saperlo. Ma se il castello di carte berlusconiano crollasse, l’unico nome per la guida di un governo di transizione sarebbe quello di Tremonti.

Alle 18.14, quando l’aria dell’emiciclo di Montecitorio gli dev’essere sembrata irrespirabile, «Giulio», versione ipersorridente, dribbla tutti i colleghi della maggioranza che gli capitano a tiro e raggiunge Enrico Letta nel cortile interno. I due chiacchierano per una decina di minuti. Fino a che, al tandem Tremonti-Letta jr., non si aggiunge Walter Veltroni, che quando vede il ministro dell’Economia abbandona il quasi ex finiano Andrea Ronchi alla compagnia di Marco Minniti.

«Giulio», «Walter» ed «Enrico» fanno giusto in tempo a tornare in Aula per godersi un piccolo momento storico. Alle 18.39, quando il pd Roberto Giachetti attacca Gianfranco Fini per non aver concesso la parola alle opposizioni dopo l’intervento di Angelino Alfano, dai banchi di Pdl e Lega arrivano applausi all’indirizzo del presidente della Camera. Sono i primi dopo oltre un anno. Poi ci sono i brusii di Palazzo. Su Ronchi e Urso, che starebbero pensando di anticipare l’addio a Fli. Sui Responsabili, che stanno per diventare un partito vero e proprio. Sulla prescrizione breve, la cui approvazione passa attraverso altri attimi di palpitazione. A Roma, nel bel mezzo del corridoio dei passi perduti, il centrodestra trattiene ancora il fiato. Se la passano meglio i pidiellini di Milano, dove una mozione di Nicole Minetti contro i parrucchieri abusivi ha passato tranquillamente il vaglio del Consiglio regionale.

Written by tommasolabate

13 aprile 2011 at 12:24

Consorte difende il decreto Parmalat: “Sull’italianità la storia mi dà ragione”.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

«Il decreto anti-scalate? Il governo fa bene, il problema è che si è mosso in ritardo. Di fronte alla minaccia di un’azienda francese molto visibile (Lactalis, ndr) che si sta muovendo su Parmalat, e quindi su un settore strategico per il nostro sistema-paese, non si può rimanere fermi».

Giovanni Consorte risponde alla telefonata del Riformista alle 8 di sera. E accetta di discutere di quella parolina che a lui, tempo fa, portò molto male. «Italianità».

L’ingegner Consorte è l’ex numero uno dell’Unipol che, quasi sei anni fa, tentò lConsortea scalata alla Bnl, poi finita in mani francesi. Da quell’intricatissima stagione, è venuto fuori con condanne in primo grado e in appello per insider trading, poi annullate nel 2009 dalla quinta sezione penale della Cassazione per incompetenza territoriale della procura di Milano. Oggi è patron di Intermedia, e pochi mesi fa è stato uno dei protagonisti del salvataggio del Bologna calcio.
Il dato “storico-politico” della vicenda è che Consorte, nel 2005 come nel 2011, sosteneva la necessità di proteggere l’italianità di alcune aziende. Allora di Bnl come oggi di Parmalat. Nel giorno in cui dal Quirinale arriva la firma al decreto anti-francesi, lo stesso in cui la procura di Milano apre un’inchiesta sulla scalata by Lactalis, l’ex deus ex machina finanziario delle Cooperative dice al Riformista: «Vede, io la penso esattamente come sei anni fa. Non ho cambiato idea. Ciascun paese dovrebbe dotarsi di “barriere in entrata”, per impedire che le sue aziende di determinati settori strategici finiscano in mani straniere. Se non lo facciamo che succede? Succede semplicemente che finiamo di essere produttori e ci limitiamo a fare i consumatori».
Di obiezioni teoriche ce ne sarebbero a bizzeffe. Ma Consorte insiste: «Il settore bancario, la telefonia e mettiamoci pure l’agroalimentare, visto che stiamo discutendo di un’impresa del calibro di Parmalat: se non difendiamo la bandiera italiana sulle nostre aziende, finiremo per essere sempre in balia degli altri. Anche perché gli altri, a differenza nostra, sanno difendersi: che banche abbiamo preso noi in Francia o in Germania?».
Durante il colloquio, l’ex numero uno di Unipol riesce a togliere un po’ di polvere dall’album dei ricordi. «All’epoca, quando sostenevo la necessità di proteggere l’italianità delle banche, mi accusarono di essere il protagonista di una battaglia di retroguardia. E non mi riferisco soltanto ad alcuni esponenti dell’allora governo (sempre guidato da Berlusconi, ndr). Ma anche a tantissimi “soloni” della sinistra, di quelli che anche oggi sono in auge». I nomi, fuori i nomi. «Ma lasci stare… Impedirono a Unipol di scalare Bnl perché quell’operazione avrebbe cambiato la mappa del potere finanziario italiano. Significava impiantare un nuovo polo bancario a Bologna, nella regione che ha la più alta percentuale di risparmio. E farlo fuori dai, chiamiamoli così, “giri tradizionali”. Che dire, si vede che i tempi non erano maturi… Con risultato che oggi una banca come Bnl paga le tasse in Francia, mica in Italia».
Sta dicendo che, difendendo l’italianità di Parmalat, secondo lei il governo si muove come avrebbe dovuto muoversi all’epoca su Bnl? «Sì, questa può essere un’ottima sintesi. In ogni caso la storia dà ragione a me. D’altronde, sostenevo e sostengo una tesi talmente ovvia che è quasi banale», risponde l’Ingegnere. «E poi glielo ripeto: il decreto dell’esecutivo è una mossa tardiva. Senza “barriere in entrata” a protezione dei nostri settori strategici, l’Italia non va da nessuna parte. Servono interventi a livello complessivo, non basta mica un decreto fatto tra l’altro per rispondere alle minacce francesi su Parmalat».
Resta giusto il tempo per due domande, a cui Consorte risponde rapidamente prima che la comunicazione telefonica s’interrompa. Lei che opinione ha del ministro dell’Economia Giulio Tremonti? «Ottima. Un’ottima opinione», scandisce il numero uno di Intermedia. E di Silvio Berlusconi? «Se devo essere sincero, non lo conosco affatto».

Written by tommasolabate

26 marzo 2011 at 10:50

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