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«Salva Fininvest in cambio di Grilli a Bankitalia». Il patto saltato tra Silvio e Giulietto. Che adesso rischia il posto.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 luglio 2011)
Che cosa c’entra l’accantonamento della norma “salva Fininvest” con la successione a Draghi in Bankitalia e col destino di Tremonti? «Io e Giulio avevamo un patto», rivela Berlusconi ai suoi.
In questi giorni di silenzio forzato, a cui è “costretto” per non turbare quei mercati finanziari che evidentemente non hanno fiducia in lui, il Cavaliere ha deciso di togliere l’ultima coltre di mistero da quel “trucchetto normativo” che ha messo a rischio la tenuta del governo prima che l’ondata di speculazioni sull’Italia lo riportasse a un passo dal baratro.
Nelle sue confessioni, affidate ad autorevoli interlocutori del governo e della maggioranza, il presidente del Consiglio parla espressamente di «patto». Ovviamente, si tratta della sua (ennesima) versione dei fatti. Ma dice proprio così: «Io e Giulio avevamo un patto. Era stato lui a garantirmi l’approvazione di quel comma che i giornali e la sinistra hanno spacciato per “salva Fininvest”».
Dopo la condanna del tribunale civile e la “resa” certificata dalla dichiarazione di ieri l’altro di Niccolò Ghedini («Fininvest pagherà e non c’è nessuna ipotesi di legge allo studio»), l’affaire del comma ad aziendam sembra consegnato alla storia. Ma c’è un elemento di novità. E riguarda quello che – a sentire il premier – c’era dall’altra parte della bilancia. «Prima che la manovra approdasse in consiglio dei ministri», è la sintesi degli sfoghi berlusconiani, «Tremonti mi chiese di prendere una decisione definitiva sull’orientamento del governo nella scelta del nuovo governatore della Banca d’Italia. Naturalmente, nella sua testa c’era e c’è soltanto un nome: quello di Vittorio Grilli…».
L’approvazione di una norma che proteggesse Fininvest dal risarcimento alla Cir di
Carlo De Benedetti, da un lato. Il via libera di Palazzo Chigi all’ascesa del direttore generale del Tesoro verso la guida di Bankitalia, dall’altro. Un provvedimento caro a Berlusconi, da un lato. La decisione che stava in cima ai desiderata di Tremonti, dall’altro. Il «patto Silvio-Giuletto», insomma. Di cui il presidente del Consiglio, dettaglio di non poco conto, ormai parla al passato. Significa, come ripetono nella sua cerchia ristretta, «che se Grilli ha bisogno (come ha bisogno) del disco verde del premier per ambire al dopo Draghi, allora è meglio che ci metta una pietra sopra».
Vendetta? Ritorsione? Affronto? A prescindere dal nome che si darà all’orientamento del presidente del Consiglio sulla nomina del prossimo governatore di Bankitalia, l’unica certezza è che la strada del “candidato di Tremonti” verso la scrivania più prestigiosa di Palazzo Koch pare definitivamente sbarrata. Di conseguenza, se Grilli finisse davvero fuori gioco, alla ripresa autunnale la successione a Draghi sarebbe nel segno della continuità. Con Fabrizio Saccomanni, uomo di fiducia del futuro presidente della Bce, in pole position per il ruolo di governatore. E Ignazio Visco proiettato dalla vicedirezione alla direzione generale.
Ma il veto di Berlusconi a Grilli rappresenta soltanto un aspetto – seppur non secondario – di quello che potrebbe essere l’ultimo chilometro del tormentato viaggio comune di «Silvio» e «Giulietto». Tutto è legato a una domanda, lo stessa che circola intistentemente negli ambienti più vicini al Cavaliere: la settimana prossima, quando la manovra sarà approvata, Tremonti sarà ancora al suo posto, alla guida al ministero dell’Economia?
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia delle possibili dimissioni dell’ultimo
successore di Quintino Sella prende corpo il 5 luglio. Quando, in alcune chiacchierate a margine della presentazione del libro di Fabio Corsico e Paolo Messa sulle fondazioni bancarie (presenti, tra gli altri, Giuliano Amato, Romano Prodi e Gianni Letta), Tremonti lascia intendere che sta per lasciare il governo Berlusconi. Della serie, «una volta approvata la manovra, io mi dimetto. E poi…». Verosimilmente, oltre i puntini di sospensione del ministro dell’Economia, c’era lo scenario di un esecutivo che non avrebbe retto all’uscita di scena del suo componente più autorevole, anche agli occhi dell’Europa e dei mercati internazionali.
Negli ultimi giorni, a causa dei boatos sull’inchiesta che ha travolto Marco Milanese, la situazione sembra essersi capovolta. Ieri, Tremonti ha implicitamente negato l’ipotesi delle dimissioni. E il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore ha esplicitamente smentito che il ministro dell’Economia sia iscritto nel registro degli indagati. «Non basta il cambio di un ministro, serve il cambio di tutto il governo», ha scandito Pier Luigi Bersani. Eppure, a Palazzo, c’è un’atmosfera che accredita l’ipotesi di un’uscita di scena di Tremonti. Si tratta di dettagli piccoli o meno piccoli, per adesso. Piccoli come la scelta di una quindicina di deputati del Pdl (compreso il vicecapogruppo Simone Baldelli) di sottoscrivere un’interpellanza del Pd (primo firmatario Francesco Boccia) che chiede al governo di impegnarsi a favore del «divieto assoluto di vendita di titoli allo scoperto». O meno piccoli come i contatti continui tra il premier e il principale candidato al ministero di via XX settembre nel caso in cui Tremonti abbandonasse: Lorenzo Bini Smaghi.
La Lega anti-raid sparge veleno su Mario Draghi.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
Sembra l’anticamera di una crisi di governo. Alle 19.34, quando Bossi dice all’Ansa che «dopo le dichiarazioni di Berlusconi Gheddafi ci riempirà di clandestini», la maggioranza – almeno sulla politica estera – di fatto non esiste più.
Pare la sconfessione dei teorici del «gioco delle parti», di quelli secondo cui al Cavaliere serviva che il Carroccio “coprisse” per il centrodestra anche il fronte anti-bombe. E sembra anche la piena smentita indirizzata a chi, come Ignazio La Russa, si presenta ai microfoni del Tg3 per negare l’ennesima «lite» che sta per scoppiare dentro la maggioranza.
Fin qui le ipotesi. L’unica certezza è che le poche parole che il Senatur affida all’Ansa nel tardo pomeriggio di ieri seppelliscono l’ottimismo di maniera con cui il presidente del Consiglio aveva risposto alle domande sulla tenuta della coalizione a ventiquattr’ore dall’annuncio dei bombardamenti italiani sulla Libia. «Con Bossi è tutto a posto», aveva replicato il premier passeggiando per le vie della Capitale poche ore dopo il vertice italo-francese. «Comprendo le perplessità leghiste», aveva aggiunto, ma «non è stata una decisione facile. Ieri sera ho parlato con Calderoli, Maroni e Bossi. E anche oggi ci risentiremo».
Fatica sprecata. Perché il leader della Lega, ancor prima di ricevere la seconda telefonata del premier sulla crisi libica, seppellisce la strategia bellica del governo. Con un uno-due devastante. «Dopo le dichiarazioni di Berlusconi, Gheddafi ci riempirà di clandestini». E uno. «Le guerre non si fanno e comunque non si annunciano così. Berlusconi ci dirà pure che Gheddafi ci riempie di clandestini, ma io dico che non sono d’accordo sui bombardamenti. Se gli americani vogliono bombardare, che lo facciano loro». E due. Tutto dalla viva voce del ministro delle Riforme.
E pensare che, fino all’intervento a gamba tesa del Senatur, sembra di stare di fronte al remake del film già visto all’inizio della crisi libica. C’è la decisione («Sono costretto», ha confidato il premier ai suoi) di intervenire attivamente nella missione, che Berlusconi mette nero su bianco smentendo se stesso. C’è la “copertura” dell’opposizione, da cui si smarca soltanto l’Italia dei valori. E anche l’intervento del Quirinale, con Giorgio Napolitano che spiega come «l’ulteriore impegno dell’Italia in Libia costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta a marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio supremo di difesa e confortata da ampio consenso in Parlamento». Ma in serata, dopo le parole di Bossi, nella cerchia ristretta del presidente del Consiglio l’allarme sale oltre il livello di guardia. Tanto è vero che gli sherpa di Palazzo Grazioli e di via Bellerio s’affrettano a far filtrare la notizia di un faccia a faccia tra «Silvio» e «Umberto» che avrà luogo prima del consiglio dei ministri di giovedì. Tra i più stretti consiglieri del premier c’è la certezza che «la situazione verrà ricomposta».
Ma il nervosismo sulle parole dell’alleato è alle stelle. Tanto che, nell’inner circle berlusconiano, c’è chi teme che il fuoco di fila leghista assomigli a «un avviso di sfratto». A questo punto della storia è necessario fare un passo indietro al giorno di Pasqua. Quando il Cavaliere, nella telefonata di auguri a Bossi, comincia a mettere il leader del Carroccio di fronte alla possibile svolta. «Umberto, neanche io vorrei bombardare», è il senso delle parole del premier. Ma, è il sottotesto, «siamo costretti a farlo. Con Gheddafi ancora in piedi, ci ritroveremo l’Italia sommersa dai clandestini». Sono parole che, al leader della Lega, non piacciono affatto. Anche perché, nel sancta sanctorum del Carroccio, qualcuno dei fedelissimi segnala al «capo» che la mossa rischia di sembrare «l’ennesimo asservimento alla strategia di Sarko». In fondo, è lo stesso meccanismo che porta i leghisti spargere veleno sull’ipotesi che dietro la «svolta sui raid ci sia anche il benestare che l’Eliseo darà a Mario Draghi per la corsa del numero uno di Bankitalia alla guida della Bce».
Veleni o non veleni, sui bombardamenti il Carroccio risponde come un sol uomo. Tolto il taciturno Roberto Maroni, che però da tempo manifesta perplessità sulla piega che sta prendendo l’affaire Libia, la Lega – come spiega Roberto Calderoli – «è contraria alla guerra e lo dirà in consiglio dei ministri». Una posizione che provoca la reazione stizzita di La Russa: «Calderoli? Ha informazioni incomplete».
L’unica certezza è che anche in questa partita Giulio Tremonti si muove dietro le quinte. Il ministro dell’Economia, che in un colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha smentito «i complotti» ma confermato la strategia rigorista, è il vero argine al decreto per il finanziamento della missione libica, che per adesso “regge” esclusivamente sul bilancio della Difesa. E si torna al via, come uno sfortunato lancio di dadi del Monopoli. A una maggioranza di «separati in casa» che, Gheddafi o non Gheddafi, si gioca la sopravvivenza alle elezioni di Milano.