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Bersani, il triplete del Pd e l’ultimatum alla Lega.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 14 giugno 2011)

Alle 7 di sera, quando s’apparta con Pier Ferdinando Casini, Pier Luigi Bersani gli sussurra in un orecchio: «Per adesso non presentiamo una mozione di sfiducia in Parlamento». E sottolinea, «per adesso…».
Coi suoi più stretti collaboratori, insieme a cui è immortalato in un video “dietro le quinte” che sarà trasmesso dalla tv del partito Youdem per celebrare la sbornia referendaria, il segretario era stato ancora più preciso. E, anticipando i contenuti della conferenza stampa tenuta al terzo piano del Nazareno a urne chiuse, aveva sillabato, cedendo involontariamente a quello slang emiliano che piace tanto a Crozza: «Governo tecnico? Ma dico, siam matti? Oggi gli italiani hanno scritto la storia. Per cui Berlusconi salga al Colle e si dimetta. Perché tolta una fase di transizione per fare la riforma elettorale, per noi adesso ci sono solo le elezioni anticipate. Punto e basta».
Il segretario del «triplete» (il copyright è di Matteo Orfini), che un mese fa aveva impresso una brusca accelerazione alla campagna referendaria, adesso sente di avere il coltello dalla parte del manico. «Basta con tutte queste robe politiciste, basta parlare di governi tecnici e governicchi». Infatti, al contrario di un Di Pietro che si tiene alla larga dalla richiesta di «dimissioni» dell’esecutivo («Chiederle è una strumentalizzazione»), il leader del Pd punta dritto sul crollo del Cavaliere. Non a caso, nel giro di qualche settimana, «Pier Luigi» ha rubato a «Tonino» i galloni del “nemico pubblico numero uno” del berlusconismo. Basta leggere la dichiarazione in cui un “falco” della comunicazione del Pdl come Giancarlo Lehner saluta la sua conferenza stampa: «Di fronte a Bersani, persino Di Pietro sembra uno statista».
Far cadere il governo, sì. Ma come? Incontrando Casini a margine della presentazione dell’ultimo libro di Veltroni, per la prima volta Bersani evoca, in vista della “verifica” di governo del 22 giugno, la possibilità di presentarsi in Parlamento con una mozione di sfiducia. «Per adesso non la annunciamo, perché ancora non ci sono i numeri e non vogliamo offrire un assist al Cavaliere. Ma se il vento cambiasse anche a Palazzo…».
Oltre i puntini di sospensione c’è una strategia precisa. E un carico d’aspettative che riguarda la «svolta» che i big del Carroccio potrebbero mettere in scena domenica, a Pontida. «Siamo stanchi di prendere sberle», ha messo nero su bianco Roberto Calderoli dando voce a un malumore che ha definitivamente contagiato anche Bossi. E Bersani, quasi di rimando, ha fatto recapitare a via Bellerio il seguente messaggio: «Basta tentennamenti, non stiamo mica qui a pregarvi. Siete voi che dovete fare il primo passo. Anche perché questo voto ha dimostrato che la teoria dei vasi comunicanti, nel centrodestra, non funziona più. Perde Berlusconi e perdete anche voi». Un ultimatum in piena regola, insomma. Condiviso anche da Pier Ferdinando Casini. «La vera sberla», ha argomentato il leader terzopolista ai microfoni del Tg di Mentana su La7, «l’ha presa la Lega. Che adesso, per salvarsi, deve solo svincolarsi da Berlusconi».
Prendere o lasciare, insomma. Se domenica il Carroccio comincia a smarcarsi dal Cavaliere, il Pd garantisce sull’approvazione di una legge elettorale che consenta a Bossi&Co. di presentarsi da soli alle prossime elezioni (il Bersanellum varato la settimana scorsa risponde a quest’obiettivo). Altrimenti, è la sintesi del gotha democratico, «fatti loro, che crollino pure appresso al premier».
Il referente principale del leader del Pd rimane Roberto Maroni. Che infatti, intervistato dal Corriere di ieri prima che la sconfitta referendaria del governo assumesse i contorni della disfatta, l’ha detto chiaro e tondo: «Il governo svolti o si va a votare. La Lega è indisponibile a formule di transizione».
È lo stesso adagio di Bersani, con cui il titolare del Viminale s’era intrattenuto alla parata del 2 giugno. Solo anche adesso la situazione s’è capovolta. Col triplete in tasca, il leader del Pd (che a inizio luglio sarà a Pontida, alla festa del Pd locale) è in grado di dettare l’ultimatum al Carroccio. Se l’operazione va in porto, i paletti del post-Silvio sarebbero già fissati. Mozione di sfiducia in vista del 22 giugno, nuova maggioranza (Pd, Lega, Idv e pezzi di Pdl) per un governo che abbia in agenda il cambio di legge elettorale e tutti al voto a novembre. «Siamo a una svolta storica. Oggi c’è stato il referendum sul divorzio tra Berlusconi e il Paese», ripete Bersani. Convinto, in cuor suo, di aver centrato in soli due mesi obiettivi neanche lontanamente immaginabili. Un fronte anti-berlusconiano compatto, un Pd in testa alla classifica dei partiti e pure una premiership che nessuno, oggi, sarebbe in grado di contendergli.

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Written by tommasolabate

14 giugno 2011 at 11:08

Referendum e poi Pontida. Anche la Lega è tentata dai quesiti.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 2 giugno 2011)

Una sentenza che rischia di far impallidire persino le sconfitte subite a Milano e Napoli. Perché a mezzogiorno di ieri, quando la Cassazione ammettere il referendum sul nucleare, il Cav. potrebbe aver compiuto il primo passo verso il baratro. Quello «vero».
La fine del berlusconismo. Il possibile inizio della «transizione». Tutto in due giorni, il 12 e 13 giugno. Il presidente del Consiglio, se fossero gli elettori (non il Palazzo né quei non meglio precisati «poteri forti» che chiama spesso in causa) a lasciarlo senza il legittimo impedimento, sarebbe costretto a gettare la maschera vetero-cuccariniana del «più amato dagli italiani». Magari con la collaborazione dell’elettorato leghista. Soprattutto se è vero – come risulta al Riformista – che Umberto Bossi potrebbe invitare «il popolo padano» a recarsi alle urne, anche senza dare indicazioni di voto.
Quella che si gioca sui quesiti, soprattutto dopo che la Cassazione ha vanificato gli sforzi dei berluscones di aggirare la scheda sul nucleare con il decreto omnibus, potrebbe diventare «la madre di tutte le partite». Non a caso, ai piani alti del Partito democratico, dopo la vittoria al primo turno delle amministrative Bersani aveva deciso di imprimere alla campagna referendaria un’accelerazione improvvisa. Il ragionamento svolto dai fedelissimi del segretario era allo stesso modo semplice (da spiegare) e complicato (da realizzare). Colpire il premier ai ballottaggi, affondarlo il 12 e 13 giugno. Tendendogli, insomma, lo stesso tranello in cui cadde Bettino Craxi nel 1991, quando il leader socialista aveva invitato gli italiani a disertare i referendum sulla preferenza unica («Andate al mare») e gli italiani, di contro, l’avevano sconfessato. Con una differenza: per Craxi quel referendum era stato l’inizio della fine, per Berlusconi questo potrebbe essere il game over. O quasi.
Ora che la Cassazione ha riammesso il quesito sul nucleare, i segnali del possibile raggiungimento del quorum – che manca all’appello da sedici anni – sono ovunque. Basta considerare che anche il Pdl, smaltita l’amara sorpresa arrivata ieri dal Palazzaccio («Sono assultamente stupito per la decisione della Cassazione», ha messo a verbale il ministro Romani), ha messo in atto la più incredibile delle retromarce. «A mio avviso sui referendum il Pdl deve dare libertà di posizioni», ha scritto il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto in una nota.
Ma mentre i berluscones sono impegnati nell’impossibile de-potenziamento politico dei quesiti («Diamo libertà di voto perché – spiega Maurizio Lupi – non vogliamo caricare di nessuna portata politica il referendum»), l’opposizione “vede” la «spallata» a portata di mano. «L’Unione di Centro invita i propri simpatizzanti e aderenti a partecipare attivamente alle consultazioni referendarie del 12 e 13 giugno», è l’invito del segretario centrista Lorenzo Cesa. «Avevo già detto l’altro giorno che era giusto andare a votare a prescindere da quanti sono i quesiti», ha scandito il presidente della Camera Gianfranco Fini.
Il Terzo Polo, insomma, è arruolato insieme al resto delle opposizioni. A cominciare da Pier Luigi Bersani, che ha spinto il suo partito a salire sul carro referendario. «La notizia della Cassazione è eccellente. E io vi dico che si arriva al 51 per cento del quorum», è il vaticinio del leader democratico, che più di un mese fa – quasi da solo – aveva pronosticato il successo di Pisapia a Milano.
In campo, ovviamente, c’è anche Antonio Di Pietro, il leader che aveva apparecchiato la partita referendaria già dall’anno scorso. «Nessuna spallata, vogliamo “sberlusconizzare i quesiti», ha scandito il leader italvalorista ieri.
L’ultimo miglio sarà il più complicato. Non a caso, per il 10 giugno, Bersani ha convocato una manifestazione nazionale dedicata al battiquorum. Un appuntamento che potrebbe unificare tutto il centrosinistra, tanto è vero che Di Pietro (che a Ballarò ha aperto alla premiership del leader del Pd) ha invitato gli alleati a unire gli sforzi.
Ma le novità più significative potrebbero presto arrivare da Milano. Al quartier generale leghista di via Bellerio, Bossi e i suoi stanno meditando di invitare i cittadini padani ad andare alle urne. Le prime avvisaglie dello spostamento del Carroccio sull’asse referendario c’erano state due settimane fa, quando il Senatur aveva pubblicamente definito «interessante» il quesito sull’acqua pubblica. Adesso, come si mormora tra i suoi, l’Umberto potrebbe fare un passo in avanti. Anche perché «la sconfitta di Milano gli ha fatto capire che l’elettorato leghista, che non sopporta più il Cavaliere, potrebbe presentarsi alle urne in ogni caso».
Sono quattro schede, di quattro colori diversi. Eppure, da quei pezzi di carta, potrebbe arrivare l’ultima sentenza per il Cavaliere. Quella più dura. «Se passa il quorum», sussurrano nei corridoi dell’ufficio di presidenza del Pdl, «siamo a un passo dalla fine. Anche perché la settimana successiva (il 19 giugno, ndr), a Pontida, Bossi potrebbe decretare la separazione da Silvio». E non sarebbe una separazione consensuale. Anzi.

Written by tommasolabate

2 giugno 2011 at 11:43

“Basta politicismi”. Lo scatto di Bersani nell’ascesa al Monte Quorum.

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di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 giugno 2011)

«Sul referendum ci metto la faccia», ha spiegato ieri Pier Luigi Bersani riunendo la segreteria del partito. Nel day after la vittoria elettorale, il leader del Pd ha deciso che farà anche il testimonial della campagna degli spot sul 12 giugno.
La road map bersaniana era stata messa nero su bianco subito dopo il primo turno delle amministrative. «Colpire il Cavaliere ai ballottaggi, tentare di affondarlo al referendum». E ora che la prima parte del «piano» può dirsi riuscita in pieno, Bersani vuole completare l’opera.
Ai tanti dirigenti di primo piano del Pd che sono scettici sull’operazione di inseguire un quorum che manca da un decennio (tra questi ci sarebbero D’Alema e Veltroni), il segretario risponde in due modi. Primo, «anche pensare di vincere Milano, solo un mese fa, era considerato l’esercizio di un matto». Secondo, «adesso dobbiamo lasciarci alle spalle le mosse politiciste e fare politica a viso aperto, come abbiamo fatto in questa tornata elettorale».
Detto fatto. Ieri, riunendo la segreteria del suo partito, Bersani ha incassato il via libera su una campagna referendaria che lo vedrà impegnato in prima persona. Addirittura come testimonial di tre video (su nucleare, legittimo impedimento e acqua) che sono pronti per la messa in onda. «Diciamo no al piano nucleare del governo», spiega il segretario nello spot dedicato all’atomo, quando sullo sfondo scorrono le immagini della Fukushima devastata dall’esplosione dei reattori della centrale. «La legge è uguale per tutti. Vogliamo una giustizia riformata, che funzioni», scandisce invece nel video in cui invita i cittadini a votare «sì» al quesito sul legittimo impedimento.
C’è un’altra obiezione: l’eventuale decisione della Cassazione di considerare il quesito sul nucleare “assorbito” dal decreto omnibus riconvertito in fretta e furia dalla maggioranza («Ma è tutto da vedere») renderà ancor più difficile la già complicata ascesa al “monte quorum”. Obiezione che gli spin doctor del leader democratico rovesciano, facendo notare che «lo spudorato trucchetto dei berluscones potrebbe incentivare l’indignazione degli italiani e portarli ai seggi», che si apriranno il 12 e 13 giugno. Anche a questo serviranno i cinque milioni di lettere – firmate, manco a dirlo, da Bersani – che il Pd sta per inviare ad altrettante famiglie dei capoluoghi italiani. Senza dimenticare che tutti i protagonisti delle recenti vittorie alle amministrative – da Pisapia a de Magistris, da Merola a Fassino, da Zedda a Cosolini – saranno impegnati ventre a terra nell’operazione.
Nella strategia del Pd, però, c’è anche un terzo punto. Ed è quello che, in deroga ai paletti sul “politicismo”, riguarda la «tela» col Carroccio. Nell’agenda di Bersani, a dispetto delle smentite della sua cerchia ristretta, c’è già un appuntamento con Roberto Maroni, che il segretario dei democratici e il titolare del Viminale avevano fissato (tramite amici comuni) nel bel mezzo della campagna elettorale. E il colloquio, si mormora a Palazzo, potrebbe avvenire già prima della fine di questa settimana, magari approfittando del ponte del 2 giugno.
Su quello che succede tra le quattro mura del quartier generale leghista, Bersani mostra di essere ben informato. «Non metto il cronometro, ma dopo quello che è successo al Nord non credo che la Lega riuscirà a rimontare portandosi a casa un ministero o un vicepremier», ha spiegato ieri a Repubblica tv evocando il piano (caldeggiato dai bossiani del “cerchio magico”) di siglare una tregua col premier “accontentandosi” della promozione di Tremonti a numero due del governo. Anche perché quell’operazione non ha il via libera di Bossi né quello di «Giulietto» né tantomeno il placet del titolare del Viminale, ormai impegnato nella fortificazione della sua corrente anti-berlusconiana. Di conseguenza, è la chiosa del leader pd, «se non domani o domani l’altro, prima o poi la Lega si autonomizzerà».
Bersani spera che il processo di “autonomizzazione” del Carroccio dia i suoi primi frutti il 19 giugno a Pontida. E le dichiarazioni di Bossi («Il governo va avanti, ma non so se è tranquillo») sembrano avvalorare la tesi. Senza dimenticare che, ormai, anche le “grandi firme” della Lega seguono il leitmotiv dei militanti inferociti che telefonano a Radio Padania. «La maggioranza è sotto l’attacco degli italiani», dice Maroni. «A Milano ha perso Berlusconi. Ora rifletta sul suo passo indietro», sottolinea il sindaco di Verona Flavio Tosi.
All’incontro con Maroni, Bersani non andrà a mani vuote. E l’offerta del Pd di spendersi per una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni (un Mattarellum col 50% di maggioritario e l’altro 50 di proporzionale) potrebbe essere formalizzata a breve.

Written by tommasolabate

1 giugno 2011 at 09:38

La “dittatura” a Deauville, l’accordone a Montecitorio. E il premier prepara il bunker.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 maggio 2011)

Stavolta non si tratta di un’intervista a un tiggì della Rai o di Mediaset. Né di un’ospitata da Vespa o di una telefonata furibonda all’Infedele o a Ballarò. Né di uno sfogo privato fatto trapelare dai suoi. Stavolta, l’affermazione secondo cui in Italia «abbiamo quasi una dittatura dei giudici di sinistra», Silvio Berlusconi l’ha detta a Barack Obama.

Potrebbe essere il clamoroso sussurro che anticipa di pochi giorni l’inizio della fine dell’«Impero». Due minuti di colloquio ripresi dalle telecamere a circuito chiuso del G8 di Deauville, che tra l’altro provocano un ritardo nell’inizio dei lavori del summit.
Silvio Berlusconi si avvicina al presidente degli Stati Uniti, di cui aveva salutato l’elezione riassumendo il senso delle sue reazioni in un aggettivo, «abbronzato». Quindi, con l’aiuto dell’interprete, il presidente del Consiglio (che conosce bene il francese, ma non l’inglese) dice a Barack Obama che «abbiamo presentato una riforma della giustizia che per noi è fondamentale». Però, aggiunge testualmente, «in Italia abbiamo quasi una dittatura dei giudici “di sinistra”». E ancora: «Io ho subito ventuno processi».
Il presidente degli Stati Uniti d’America sembra cogliere la gravità delle parole del presidente del Consiglio italiano. Le immagini testimoniano di un Obama che, nell’ascoltare il suo interlocutore, scuote impercettibilmente la testa. Però, tolto l’«how are you?» iniziale, non replica. Neanche con un sussurro. Nemmeno quando Berlusconi, stando al servizio del Tg1 delle 20, gli racconta «della nuova maggioranza» su cui si regge l’esecutivo (in pillole, è come spiegare all’inquilino della Casa Bianca dell’esistenza di Mimmo Scilipoti nello scacchiere politico nostrano).
Ma è davvero il clamoroso sussurro che anticipa di pochi giorni l’«inizio della fine»? In vista di una possibile presa di distanze da parte del Quirinale e del Csm, alle parole del Cavaliere reagiscono l’Associazione nazionale magistrati e tutta l’opposizione. «Berlusconi sta perdendo il senso delle dimensioni», mette a verbale Pier Ferdinando Casini. «Il governo deve andare a casa. Il premier chiederà a Obama un intervento della Nato contro i pm?», scandisce Bersani. Ma il vero segnale l’allarme, che dimostra l’effetto boomerang dell’ultima trovata del presidente del Consiglio, sta nel silenzio dei berluscones. Nessun fuoco di copertura, nessuna difesa d’ufficio organizzata, nessuna controffensiva. Prima dell’inizio dei telegiornali di prima serata, tolte due dichiarazioni di Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello, dalle parti del Pdl non si sente che silenzio. È il segno che stavolta, anche per i falchi, la misura potrebbe essere colma. Senza dimenticare che, come spiegano da via Bellerio, il video ripreso dalle telecamere del G8 ha imbarazzato talmente tanto i vertici del Carroccio da non poter escludere «una presa di posizione di Bossi».
Ma i segnali d’allarme, per il Cavaliere, vanno ben al di là dell’effetto (in Italia) delle sue parole Oltralpe. Primo, perché il Pdl che s’avvicina all’appuntamento coi ballottaggi sembra un esercito che marcia diviso per colpire altrettanto. Mentre gli ex di Alleanza Nazionale lavorano alla costruzione della loro «cosa», tra gli ex forzisti volano gli stracci. A Roberto Formigoni, che aveva anticipato la sua decisione di correre per la leadership, ha risposto Fabrizio Cicchitto, dai microfoni del Tg3. «Escludo passi indietro di Berlusconi», ha spiegato il capogruppo del Pdl a Montecitorio. Di conseguenza, ha aggiunto riservando un colpo di sciabola al governatore della Lombardia, «non so a quali primarie si riferisca».
Ma è soprattutto la triangolazione Lega-Terzo Polo-Pd a preoccupare le truppe berlusconiane asserragliate a Palazzo Grazioli. Casini, che oggi chiuderà insieme a Massimo D’Alema la campagna elettorale del ballottaggio di Macerata, ha ammesso ai microfoni di Mattino Cinque (intervistato da Maurizio Belpietro) che sono in atto colloqui tra il Carroccio e il resto delle opposizioni per cambiare la legge elettorale. Una boutade? Tutt’altro. Anche perché, stando a quanto risulta al Riformista, all’ufficio legislativo della Camera dei deputati è arrivato, nelle ultime quarantott’ore, la richiesta di un parere tecnico su una nuova versione del Mattarellum. In cui la quota proporzionale, che nella vecchia legge elettorale era fissata al 25% degli eletti, verrebbe estesa al 50. Metà dei parlamentari sarebbero eletti con i collegi uninominali; l’altra metà con il proporzionale. Fermo restando che l’elezione dei Senatori avverrebbe, come vuole la Costituzione, su base regionale.
Una bozza del genere accontenterebbe tutti: dal Pd ai finiani, dai casiniani alla Lega. Che, in questo caso, potrebbe ragionevolmente immaginare di presentarsi da sola in tutto il Nord eleggendo quantomeno lo stesso numero di parlamentari di questa legislatura.
Impossibile risalire all’origine di questa richiesta che ha raggiunto l’ufficio legislativo della Camera. Ma una cosa è certa: si tratta dei primi vagiti di un post che potrebbe iniziare da lunedì. Con buona pace di un premier che, mettendo in conto le sconfitte di Milano e Napoli, ha già deciso di asserragliarsi in una sorta di bunker. Ripetendo quello che ieri ha anticipato a Obama: «Abbiamo una nuova maggioranza…».

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27 Maggio 2011 at 10:29

Referendum e voto a novembre. La strategia Pd per tentare il kappaò.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 19 maggio 2011)

Colpire Silvio Berlusconi al ballottaggio di Milano. Affondarlo al referendum sul legittimo impedimento del 12 giugno. La strategia di Pier Luigi Bersani di tendere al Cavaliere lo stesso tranello in cui Bettino Craxi cadde nel 1991 – anticipata ieri dal Riformista – ha incassato ieri il via libera del partito. Durante la riunione coi segretari regionali del Pd, il leader ha ribadito la necessità di alzare il livello dello scontro sui quesiti. Anche perché, è il senso del ragionamento di “Pier Luigi”, l’eventuale sconfitta di Berlusconi sarebbe senza appello.

Ovviamente la partita è complicatissima. Perché manca il traino del referendum sul nucleare (su cui però deve ancora esprimersi la Cassazione). E soprattutto perché il quorum è un obiettivo che manca ormai da un decennio. Eppure Bersani ci crede. «Dobbiamo provarci», ha spiegato ieri nella riunione coi segretari regionali. «È necessario incrociare la campagna dei ballottaggi con quella dei referendum», ha insistito prima che la sua linea venisse ratificata all’unanimità. C’è addirittura un piano di mobilitazione ad hoc, elaborato dalla war room del Nazareno proprio dopo la «svolta» impressa dal segretario sui quesiti: manifesti, gazebo, manifestazioni locali, concerti, spot radiofonici. Tutto per spingere oltre la soglia del 50 per cento più uno la percentuale dei votanti al referendum.

Sull’accelerazione nella strategia referendaria il centrosinistra si trova compatto. Anche perché, come ha spiegato ieri Antonio Di Pietro, «questa scelta rappresenta anche un’apertura alle istanze del Movimento di Beppe Grillo». D’altronde lo ha detto anche il candidato sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «È fondamentale – ha incalzato Pisapia – che i cittadini decidano su temi così importanti. L’esito del referendum di giugno è decisivo». L’eventuale vittoria del centrosinistra a Milano e Napoli potrebbe trainare il quorum. «Una vittoria di Pisapia nel capoluogo lombardo, in termini di affluenza, “vale” almeno quanto l’impossibile riammissione del quesito sul nucleare», ragionava ieri il deputato dalemiano Antonio Luongo conversando con alcuni colleghi su una panchina del cortile di Montecitorio. Sembra una mission impossible. Però è chiaro che, se riuscisse, sarebbe il colpo del ko definitivo per il Cavaliere. «Nell’ultimo anno il premier ha “retto” nascondendosi dietro la certezza che il paese reale, al contrario del Palazzo, sta con lui», ragionano ai piani alti del Pd. «Una sconfitta al referendum, persino un quorum mancato di pochissimo, gli toglierebbero la sua arma principale», aggiungono.

Ma dopo? Che cosa succederebbe se il «piano Bersani» riuscisse? Gli ambasciatori che stanno tenendo il filo dei colloqui tra Pd e Carroccio stanno già mettendo nero su bianco i termini del «dopo-Silvio». Calcolando che il premier, per tenere la Lega nella maggioranza, arriverebbe al passo indietro (in favore di Tremonti), a quel punto ai democrat non rimarrebbe che una strada. Le elezioni anticipate a novembre. Con uno schema che, a quel punto, il Senatùr non potrebbe rifiutare. Quale? Al Nord, il Pd si candiderebbe in alleanza solo con Vendola (e Di Pietro?), senza il Terzo Polo. Lasciando insomma che il Carroccio, che a quel punto si presenterebbe da solo, riesca a riportare a Montecitorio quantomeno la stessa pattuglia di parlamentari che ha oggi. Al Centro e al Sud, invece, Bersani potrebbe testare un’alleanza più larga, quel «centrosinistra allargato» di cui parla da tempo. È un po’ lo stesso schema del Berlusconi del ’94 (Polo della libertà al Nord, Polo del Buon governo al Sud). Solo che, stavolta, quelle geometrie variabili che portarono il Cavaliere al potere, potrebbero segnarne la fine.

Written by tommasolabate

19 Maggio 2011 at 12:32

“Sembra che facciano la gara contro di me”. Il premier incassa l’ultima doccia gelata della Lega

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

Letizia Moratti col premier

Ha passato una giornata intera a rilasciare interviste, il Cavaliere. Alla partenopea Radio Kiss Kiss ha annunciato l’intenzione di stoppare gli abbattimenti delle case abusive. Al Gr1 ha giurato che non punta al Colle. Al Tg5, invece, ha raccontato che l’asticella per considerare le elezioni «un successo» è «strappare una grande città» alla sinistra. Il tutto (anche) per nascondere l’ennesima doccia gelata che ieri è arrivata dal Carroccio.

Nella ristrettissima cerchia delCavaliere hanno il problema di «evitare una rissa interna» a poche ore dall’apertura dei seggi. D’altronde, è quella stessa «rissa» che il premier ha cercato di scongiurare in mille modi, arrivando persino a negare il sostegno telefonico al candidato sindaco delPdl di Gallarate (che, tra l’altro, fa Bossi di cognome) «solo per evitare di urtare la suscettibilità di Umberto, che passa là giornate intere per lanciare la volata alla sua Giovanna Bianchi Clerici».
Ma la misura, per chi conosce bene gli sbalzi d’umore del presidente del Consiglio, è praticamente colma. Soprattutto da quando, ieri, Roberto Calderoli s’è preso la briga di annunciare il rinvio di una settimana del raduno leghista di Pontida, spostato al 19 giugno per consentire a Umberto Bossi di fare «un annuncio epocale».
La «svolta» che ha in mente il Senatur, per il quale sarà necessario un passaggio in Cassazione, riguarda una proposta di legge di iniziativa popolare per il decentramento di alcuni ministeri. «Pensate a quanto il responsabile Saverio Romano sarebbe contento di fare le valigie e spostarsi con tutto il suo dicastero qui a Milano», scherza un autorevole esponente del Carroccio.
La voglia di scherzare, dalle parti del premier, non c’è più. E non tanto perché il decentramento dei ministeri sarebbe una prospettiva talmente lontana da rendere inimmaginabile un parallelo con l’attuale compagine di governo. Quanto perché «Silvio» ha ormai capito che l’alleanza con la Lega – e con essa la maggioranza parlamentare che sostiene il governo – è ormai appesa a un filo. Senza la vittoria di Milano, l’esecutivo è a rischio. E, come nella war room berlusconiana hanno ormai capito, un eventuale successo di Lettieri a Napoli – paradossalmente – finirebbe solo per complicare le cose. «Ve l’immaginate il premier vincente grazie ai voti di Cosentino e sconfitto a casa sua? Pensate a questa scena e provate a capire come potrebbe prenderla l’elettorato della Lega», riflette l’autorevole fonte del Carroccio di cui sopra.
A quarantott’ore dall’apertura dei seggi, i margini di manovra sono ridotti al minimo. Berlusconiha alzato l’asticella

Matteo Salvini

 dello scontro milanese dando man forte alle accuse della Moratti a Pisapia? Il leghista Matteo Salvini, esponente di spicco del Carroccio meneghino (tra l’altro “papabile” per la poltrona di vicesindaco) s’è presentato ai microfoni di Un giorno da pecora per “infilzarla”: «Su Pisapia la Moratti è stata bugiarda». Berlusconi annuncia lo stop alla demolizione delle case abusive a Napoli? «Il premier dovrà parlarne con la Lega. Personalmente, indipendentemente da dove siano collocati gli immobili, sono contrario a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive», ha replicato a stretto giro Roberto Calderoli.
Sono due segnali di quanto nel retropalco ci sia rimasto ben poco. Ormai è tutto sotto gli occhi della platea: Berlusconi e la Lega marciano su due binari separati. «A volte sembra quasi che la campagna elettorale la stiano facendo contro di me», ha confidato mercoledì il Cavaliere riferendosi ai continui “smarcamenti” del Carroccio rispetto alla “linea”del centrodestra. La giornata di ieri gli ha dato ragione. Al punto che, nel giro dei berluscones milanesi, si sta addirittura arrivando a sospettare un boicottaggio elettorale ai danni della Moratti. «E se i militanti della Lega non andassero alle urne?», riflette a voce alta un big del Pdl lombardo.

Umberto Bossi

È il segno che, da lunedì, si va in mare aperto. Pubblicamente il presidente del Consiglio continua a ripetere, come ha fatto ieri intervenendo telefonicamente a un’iniziativadel candidato torinese Michele Coppola, che «abbiamo alla Camera una nuova maggioranza coesa, che ci permetterà di fare quello che non abbiamo potuto fare finora per lo statalismo di Fini e Casini». Ma lontano da microfoni e taccuini, il premier ha un’altra verità: «Se non vinciamo Milano, questi faranno cadere il governo a Pontida». D’altronde, l’intervento con cui Bossi ha concluso la giornata politica di ieri dà forza ai più oscuri presagi dei berluscones. «Bisogna parlare di programmi e non di quello che ruba la macchine», ha scandito il Senatur a Gallarate, stroncandola Moratti. E aggiungendo, come se non fosse stato sufficientemente chiaro in precedenza,  che«se non servono a guadagnare voti, meglio non farle certe mossi. Se si comincia a tirar fuori cose personali non si finisce più».

Written by tommasolabate

13 Maggio 2011 at 11:25

Quel “patto dei congiurati” sul federalismo fiscale.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 10 maggio 2011)

Tremonti Casini BersaniOrmai la partita è tutta in chiaro. Basta ascoltare le parole che Gianfranco Fini ha detto ieri a Milano, lasciando intendere che in caso di ballottaggio i voti di Fli non saranno di certo convogliati verso Letizia Moratti: «Penso che saranno proprio i milanesi», ha scandito il presidente della Camera, «a essere decisivi per la definizione del futuro rapporto tra Pdl e Lega».
Al di là di qualsiasi forzatura, la frase che la seconda carica dello Stato ha pronunciato nel capoluogo lombardo durante la presentazione del suo libro L’Italia che vorrei è la rappresentazione plastica dei desiderata di tutta l’opposizione. Se Letizia Moratti non si riconferma nella sua seggiola a Palazzo Marino, l’entrata in crisi della maggioranza sarebbe cosa fatta. In fondo, l’ha ripetuto anche ieri Pier Luigi Bersani, alla testa di un Pd che adesso ha concentrato la sua comunicazione pre-elettorale sulla distanza tra il “popolo leghista” e il Cavaliere. «I leghisti sono un po’ a disagio. Siamo al governo del ribaltone, siamo il teatrino della politica, siamo il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti», ha scandito il segretario del Pd a margine di un comizio a Pavia. E ancora, sempre dalla viva voce del leader dei Democratici: «Sono tre mesi che dico che a Milano si vince. Mi prendevano per un matto tre mesi fa, ma io lo ribadisco».

Che la battaglia di Milano sia diventata lo spartiacque di tutta la legislatura lo dimostra anche la mole di Maroni Finicontatti sotterranei che, a meno di due settimane dalle amministrative, il gotha leghista (compreso il “non tesserato” Giulio Tremonti) sta intrattenendo con i vertici dell’opposizione. Da Fini a Bersani, passando per Casini o Enrico Letta, non c’è alto dirigente della minoranza che, al di là dei toni “da campagna elettorale”, non stia cercando di tessere col Carroccio quella tela che s’era di fatto interrotta il 14 dicembre scorso.

Nelle agende di ciascuno di coloro che Berlusconi ha già privatamente bollato come «congiurati» c’è anche una giornata segnalata con la penna rossa: il 21 maggio prossimo, praticamente a metà strada tra il primo turno delle amministrative e i ballottaggi. Entro quella data, infatti, il Parlamento dovrà prorogare di sei mesi la legge delega sul federalismo fiscale. Significa, spiegano anche nella cerchia ristretta del Carroccio elaborando un’efficace traduzione dal “politichese”, «che si riapriranno le danze sul federalismo». Dai giri di valzer nella “bicameralina” alle votazioni in Aula. A cominciare da quelle sui decreti mancanti (i primi saranno su «premi e sanzioni» per le amministrazioni locali e sulle funzioni di Roma capitale) per proseguire sulle norme che verranno riscritte. E su questo, come spiega la fonte leghista, «noi trattiamo con tutti e su tutto. D’altronde, la proroga annunciata da Roberto Calderoli due mesi fa venne scelta per andare incontro alle richieste del Pd e del Terzo Polo». Il deputato-economista Francesco Boccia, uno degli esponenti democratici che segue più da vicino il dossier sul federalismo fiscale, lo spiega senza troppi giri di parole: «Il federalismo fiscale potrebbe essere l’unico fatto “politico” tout-court di questa legislatura». Ed è ovvio, aggiunge il deputato vicino a Enrico Letta, che «su questo terreno potrebbero registrarsi significativi cambiamenti all’interno del quadro politico».

Ovviamente, il voto sul rinnovo della legge delega non prevede alcuna sorpresa dell’ultim’ora. Non foss’altro perché praticamente tutte le forze politiche sono d’accordo (quantomeno) sulla tabella di marcia. Ma la vera «svolta», la stessa che nei colloqui tra la Lega e l’opposizione è tutt’altro che sottotraccia, riguarda le prospettive nel caso in cui Milano passasse al centrosinistra. Col federalismo fiscale di nuovo al centro dell’agenda politica, ci sarebbe «un’ora X» in cui un’altra maggioranza avrebbe modo di testarsi. «E i voti sulla riforma più cara al Carroccio», è l’analisi svolta anche dal Terzo Polo, «sarebbero senz’altro un’occasione migliore dell’eventuale voto di fiducia sulla nuova maggioranza», ventilato da Fini all’indomani della nota del Quirinale sull’infornata di nuovi sottosegretari.
Ovviamente, se riuscisse a passare senza graffi attraverso le forche caudine del voto, Berlusconi si rafforzerebbe. E l’opposizione, a cominciare dal Pd, rischierebbe di finire inghiottita dalle dispute sul futuro del centrosinistra, a cominciare da quella sulla leaderhip («Su questo io ci sono, ma dobbiamo sentire anche gli altri», ha detto ieri Bersani intervistato da Porta a porta»). Ma se la tornata delle amministrative non sorridesse al Pdl, a quel punto la legislatura sarebbe a una svolta. E i voti finali sul federalismo potrebbero sancire il «patto dei congiurati» che segnerebbe anche la storia del berlusconismo.

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10 Maggio 2011 at 08:19

Tremonti successore? Il bluff di Silvio per rompere la pax leghista.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 maggio 2011)

Berlusconi Bossi TremontiIl bacio della morte (politica, naturalmente) sulle guance di «Giulio». E un modo per tentare di rompere il recente armistizio sottoscritto tra le «fazioni» in guerra all’interno del Carroccio.
Due obiettivi con un solo colpo. È quello che Silvio Berlusconi “spara” di fronte alle telecamere di Porta a porta quando ieri pomeriggio, a poche ore dall’approvazione della mozione della maggioranza sulla Libia, indica per la prima volta come “delfino” il suo più acerrimo nemico interno: Giulio Tremonti. «Se per il centrodestra sarà necessario che io mi ricandidi alla guida del governo, non mi tirerò indietro», è la premessa. Ma «se invece verranno fuori altre personalità, e ne abbiamo diverse, Tremonti in primis, io sarei felice di lasciare ad altri la conduzione del governo».
Ovviamente si tratta di un bluff. Non foss’altro perché, quando lo indica in pole position nella linea di successione a se stesso, il presidente del Consiglio è in preda all’ennesima crisi di nervi causata, a suo dire, dall’ultimo successore di Quintino Sella. «Ma lo sapete», aveva raccontato in mattinata, che «Giulio ancora non s’è degnato neanche di farmi vedere la bozza del decreto sullo sviluppo che sarà approvata domani (oggi, ndr) dal consiglio dei ministri?».
Nella sua cerchia ristretta giurano che la mossa di “benedire” il rivale per la successione sia stata elaborata tempo fa per «sovraesporlo». Fosse solo questo, l’obiettivo sarebbe stato raggiunto in nemmeno mezz’ora. Basti pensare che le prime due reazioni alle parole di Berlusconi sull’incoronazione del superministro dell’Economia sono quelle dei suoi rivali diretti. Roberto Maroni mette a verbale che «Tremonti è un ottimo ministro e sarebbe un ottimo presidente del Consiglio». Angelino Alfano, che il Cavaliere aveva indicato come erede (in privato) salvo poi smentire (in pubblico), dice che «l’idea di Tremonti premier, se l’ha detta Berlusconi, è condivisibile».
Eppure, dietro la mossa di Berlusconi, c’è di più. Il Cavaliere sa che la stragrande maggioranza dei suoi tormenti delle ultime settimane – Libia compresa – derivano da un patto di non belligeranza sottoscritto dal gotha della Lega. E che la tregua imposta da Bossi nelle stanze di via Bellerio, che ha congelato le rivalità tra la fazione «Calderoli-Tremonti» e quella guidata da Roberto Maroni, era servita a ricompattare gli alti dirigenti del partito contro il premier.
Da qui la contromossa, che Berlusconi serve a freddo, poche ore dopo che l’Aula di Montecitorio ha fischiato la fine (momentanea) delle ostilità sulla Libia. Indicare «Giulio» alla succesione per riattizzare lo scontro interno alla Lega su chi deve stare in prima fila nel caso in cui le amministrative sanciscano la crisi della maggioranza. E spezzare quella trama bipartisan che tanto il ministro dell’Economia quanto il titolare dell’Interno stanno alimentando.
D’altronde, che Tremonti abbia contatti continui e costanti con i leader dell’opposizione (Fini compreso) non è un mistero per nessuno, men che meno per il premier. Quanto alla tela bipartisan di Maroni, basta citare che ieri il ministro dell’Interno ha ricevuto una delegazione del Pd (guidata da Walter Veltroni e Andrea Orlando) che gli aveva chiesto udienza dopo la valanga di arresti nel Pdl campano. Una mossa, questa, che ha innervosito i berluscones partenopei al punto tale che è dovuto intervenire il premier in persona per placarne i bollenti spiriti.
«Tremonti aizza la Lega», aveva titolato il Giornale? «E noi aizziamo Tremonti nella Lega», è la strategia del Cavaliere. È un gioco a carte scoperte. Come ha capito anche Bossi. «Berlusconi durerà a lungo. Tremonti? Io sono amico suo. Ma Silvio dice queste cose per allontanare il momento (dell’addio alla leadership) il più possibile», spiega il Senatur in serata. In tasca, però, il premier ha un’altra carta. Sapendo che l’eventuale esito negativo delle comunali di Milano potrebbe riaprire la crisi nella maggioranza, «Silvio» ha cominciato a sondare qualche malpancista del Carroccio. Non a caso, la corrente delle camicie verdi che puntano a confermare senza se e senza ma l’alleanza col Pdl è già nata. E ne fa parte, oltre ad alcuni bossiani del cerchio magico, anche Marco Reguzzoni. Proprio lui, l’uomo che aveva annunciato la «tregua» sulla Libia prima che l’accordo fosse raggiunto. L’uomo che adesso i vertici di via Bellerio vorrebbero spostare al governo (coi galloni di viceministro o sottosegretario) per lasciare la poltrona di capogruppo a un esponente più “affidabile”. Come il maroniano Stucchi, ad esempio.

Written by tommasolabate

5 Maggio 2011 at 09:33

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La Lega anti-raid sparge veleno su Mario Draghi.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

Sembra l’anticamera di una crisi di governo. Alle 19.34, quando Bossi dice all’Ansa che «dopo le dichiarazioni di Berlusconi Gheddafi ci riempirà di clandestini», la maggioranza – almeno sulla politica estera – di fatto non esiste più.

Pare la sconfessione dei teorici del «gioco delle parti», di quelli secondo cui al Cavaliere serviva che il Carroccio “coprisse” per il centrodestra anche il fronte anti-bombe. E sembra anche la piena smentita indirizzata a chi, come Ignazio La Russa, si presenta ai microfoni del Tg3 per negare l’ennesima «lite» che sta per scoppiare dentro la maggioranza.

Fin qui le ipotesi. L’unica certezza è che le poche parole che il Senatur affida all’Ansa nel tardo pomeriggio di ieri seppelliscono l’ottimismo di maniera con cui il presidente del Consiglio aveva risposto alle domande sulla tenuta della coalizione a ventiquattr’ore dall’annuncio dei bombardamenti italiani sulla Libia. «Con Bossi è tutto a posto», aveva replicato il premier passeggiando per le vie della Capitale poche ore dopo il vertice italo-francese. «Comprendo le perplessità leghiste», aveva aggiunto, ma «non è stata una decisione facile. Ieri sera ho parlato con Calderoli, Maroni e Bossi. E anche oggi ci risentiremo».

Fatica sprecata. Perché il leader della Lega, ancor prima di ricevere la seconda telefonata del premier sulla crisi libica, seppellisce la strategia bellica del governo. Con un uno-due devastante. «Dopo le dichiarazioni di Berlusconi, Gheddafi ci riempirà di clandestini». E uno. «Le guerre non si fanno e comunque non si annunciano così. Berlusconi ci dirà pure che Gheddafi ci riempie di clandestini, ma io dico che non sono d’accordo sui bombardamenti. Se gli americani vogliono bombardare, che lo facciano loro». E due. Tutto dalla viva voce del ministro delle Riforme.

E pensare che, fino all’intervento a gamba tesa del Senatur, sembra di stare di fronte al remake del film già visto all’inizio della crisi libica. C’è la decisione («Sono costretto», ha confidato il premier ai suoi) di intervenire attivamente nella missione, che Berlusconi mette nero su bianco smentendo se stesso. C’è la “copertura” dell’opposizione, da cui si smarca soltanto l’Italia dei valori. E anche l’intervento del Quirinale, con Giorgio Napolitano che spiega come «l’ulteriore impegno dell’Italia in Libia costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta a marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio supremo di difesa e confortata da ampio consenso in Parlamento».
Ma in serata, dopo le parole di Bossi, nella cerchia ristretta del presidente del Consiglio l’allarme sale oltre il livello di guardia. Tanto è vero che gli sherpa di Palazzo Grazioli e di via Bellerio s’affrettano a far filtrare la notizia di un faccia a faccia tra «Silvio» e «Umberto» che avrà luogo prima del consiglio dei ministri di giovedì. Tra i più stretti consiglieri del premier c’è la certezza che «la situazione verrà ricomposta».

Ma il nervosismo sulle parole dell’alleato è alle stelle. Tanto che, nell’inner circle berlusconiano, c’è chi teme che il fuoco di fila leghista assomigli a «un avviso di sfratto».
A questo punto della storia è necessario fare un passo indietro al giorno di Pasqua. Quando il Cavaliere, nella telefonata di auguri a Bossi, comincia a mettere il leader del Carroccio di fronte alla possibile svolta. «Umberto, neanche io vorrei bombardare», è il senso delle parole del premier. Ma, è il sottotesto, «siamo costretti a farlo. Con Gheddafi ancora in piedi, ci ritroveremo l’Italia sommersa dai clandestini». Sono parole che, al leader della Lega, non piacciono affatto. Anche perché, nel sancta sanctorum del Carroccio, qualcuno dei fedelissimi segnala al «capo» che la mossa rischia di sembrare «l’ennesimo asservimento alla strategia di Sarko». In fondo, è lo stesso meccanismo che porta i leghisti spargere veleno sull’ipotesi che dietro la «svolta sui raid ci sia anche il benestare che l’Eliseo darà a Mario Draghi per la corsa del numero uno di Bankitalia alla guida della Bce».

Veleni o non veleni, sui bombardamenti il Carroccio risponde come un sol uomo. Tolto il taciturno Roberto Maroni, che però da tempo manifesta perplessità sulla piega che sta prendendo l’affaire Libia, la Lega – come spiega Roberto Calderoli – «è contraria alla guerra e lo dirà in consiglio dei ministri». Una posizione che provoca la reazione stizzita di La Russa: «Calderoli? Ha informazioni incomplete».

L’unica certezza è che anche in questa partita Giulio Tremonti si muove dietro le quinte. Il ministro dell’Economia, che in un colloquio con Massimo Giannini di Repubblica ha smentito «i complotti» ma confermato la strategia rigorista, è il vero argine al decreto per il finanziamento della missione libica, che per adesso “regge” esclusivamente sul bilancio della Difesa. E si torna al via, come uno sfortunato lancio di dadi del Monopoli. A una maggioranza di «separati in casa» che, Gheddafi o non Gheddafi, si gioca la sopravvivenza alle elezioni di Milano.

Written by tommasolabate

27 aprile 2011 at 10:38

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