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Paura e delirio a Montecitorio. Il premier furibondo: «Fanno tutti schifo». E Renato Farina, arrabbiato con Bossi, invoca «il pannolone».
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 ottobre 2011)
Entra in Aula quasi di corsa, alle 17. Quando esce, una manciata di minuti dopo, Silvio Berlusconi borbotta tra i denti: «Che schifo. Fanno tutti schifo». Colposo, preterintezionale o voluto che sia, l’Incidente con la «I» maiuscola travolge l’esecutivo sull’articolo 1 del rendiconto del bilancio. Nell’unico precedente della storia della Repubblica, 13 aprile 1988, il governo Goria s’era dimesso.
Ventiré anni fa, per il governo sostenuto dal pentapartito (il vicepresidente del Consiglio era Giuliano Amato) la bocciatura sul bilancio aveva rappresentato l’imbocco di una strada senza ritorno. In quell’esecutivo, coi galloni di ministro dei Trasporti, c’era anche Lillo Mannino, uno degli assenti che ieri pomeriggio ha fissato il voto al «290 a 290» che ha comportato la bocciatura del provvedimento. Un dettaglio, in fondo, se si pensa che alla votazione non hanno partecipato né Giulio Tremonti, che stava sull’uscio dell’Aula. Né Umberto Bossi, che parlava con una giornalista nel cortile di Montecitorio. Né Claudio Scajola, che poche ore prima aveva incontrato Berlusconi e Alfano avanzando ufficialmente la richiesta «di fare il vicesegretario del Pdl» (per sé), un pacchetto di ricandidature assicurate (per i suoi), più «la discontinuità» (magari con Gianni Letta premier).
Non è la sfortuna animata da quel numeretto (il 17) che coincide con l’orario della votazione. Il governo Berlusconi cade in un autentico trappolone. Marcano visita i veterodemocristiani Giuseppe Cossiga e Piero Testoni. Non ci sono i responsabili Francesco Pionati, Pippo Gianni, Paolo Guzzanti, Americo Porfidia e Mimmo Scilipoti.
Ma sono le assenze dei ministri a mandare su tutte le furie il Cavaliere. Manca Tremonti, che sta a pochi metri dalla pulsantiera. Manca Bossi, nelle stesse condizioni. «Che schifo. Fanno tutti schifo», ripete il premier tra i denti. I fotogrammi successivi alla votazione sono scene di autentico panico. Panico e rabbia. Rabbia e panico. Il giornalista-deputato Renato Farina, che si fionda in Transatlantico dopo aver notato l’assenza del Senatur, agita le braccia. E dice testualmente: «Gliel’ho detto a Rosi Mauro che a Bossi deve mettergli il pannolone». Esattamente così. Non una parola di più, non una di meno. A pochi metri da lui, il Pd si complimenta con il segretario d’Aula Roberto Giachetti, che aveva “nascosto” un paio dei deputati democratici (salvo farli rientrare all’ultimo) per far credere alla maggioranza di avere la votazione in pugno. «Mi aspetto che Berlusconi vada al Quirinale», dice Bersani. «Le dimissioni sono un atto dovuto», aggiunge Franceschini. Veltroni è fuori di sé dalla gioia: «Che vi avevo detto? Eccolo, l’Incidente. Significa che abbiamo fatto bene a insistere sul governo istituzionale».
La caduta è a dir poco rovinosa. E che sia la peggiore dall’inizio della legislatura lo dimostra l’autorevole voce che arriva in serata dal fortino del Pdl. Poche parole, soprattutto una: «dimissioni». Adesso, è il leimotiv che qualche big berlusconiano ammette a denti stretti, «Napolitano potrebbe far sapere al governo che deve lasciare». Perché? Semplice. Dal punto di vista politico, un governo “normale” non può non dimettersi di fronte alla bocciatura del rendiconto, che è un disegno di legge governativo che spiega come sono stati utilizzati i fondi pubblici. Dal punto di vista tecnico, mettere una pezza sarà complicato. Perché il governo, in ogni caso, dovrebbe tornare al Senato per rivotare l’articolo 1 bocciato dalla Montecitorio. «È un fatto senza precedenti», scandisce Gianfranco Fini dallo scranno più alto dell’Aula. Rispetto al quale, gli scenari elaborati dalla maggioranza si moltiplicano come schegge impazzite.
Una parte del Pdl, a cui dà voce Ignazio La Russa, sa che adesso c’è «l’ostacolo del Quirinale da aggirare». Di conseguenza, l’unico modo per porre rimedio è “provocare” un bis del 14 dicembre dell’anno scorso. «Non sottovaluto la gravità tecnica del voto. Ma non possono derivare le dimissioni chieste dall’opposizione», premette il ministro della Difesa. Che però aggiunge: «Credo sia corretto dimostrare subito con un voto di fiducia se il governo c’è o non c’è. Se c’è, allora si dimostrerà che quello delle opposizioni è abbaiare alla luna. Se la fiducia non c’è, le conseguenze politiche sono inevitabili».
È quello che nel poker è l’all in. Tutta la posta sul tavolo. Se si vince, si resta in campo. Altrimenti, partita chiusa. Ma, in questo caso, è impossibile fare i conti senza la fronda di Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo Economico, che aveva incontrato Berlusconi e Alfano prima del voto sul bilancio, presenta al premier e al segretario del Pdl la richiesta di «discontinuità». Però, stando all’autorevole tam tam della prima cerchia di dirigenti berlusconiani, l’ex democristiano tira fuori dal mazzo un’altra carta: «Voglio fare il vicesegretario del partito». L’incontro, a dispetto delle annotazioni di Denis Verdini («È andato bene, la sconfitta alla Camera è stata solo una casualità), non va benissimo. Soprattutto perché i deputati vicini ad Alfano, in serata, ammettono: «Sicuramente riconosceremo a Claudio un ruolo politico anche dentro il partito. Di certo non avrà tutto quello che chiede».
Una lettura, questa, che dà adito alla teoria dell’incidente preterintenzionale. Della serie, «volevano semplicemente dare un segnale, invece ci hanno portato oltre il baratro». Ma nel variopinto bouquet di richieste che «Claudio» avrebbe posto all’attenzione di «Silvio» ci sono anche altre ipotesi. Compreso quello di «un governo diverso, guidato da Gianni Letta, con la maggioranza allargata». Nel frattempo, quando (come anticipato dal Riformista di ieri) lo slittamento sine die della legge bavaglio diventa ufficiale, Berlusconi e il suo stato maggiore si infilano dentro l’ennesimo vertice. Decisivo, come saranno i giorni a venire. All’esperienza di uscire dalla Camera con il bilancio respinto, il governo Goria aveva risposto con le dimissioni. Tredici aprile 1988. Ventitré anni fa. Anzi, qualcosa in più.
Tra un «codardo» e l’«amnistia!» arriva anche il «cornutazzo». E Romano chiude il suo d-day tra le braccia di Silvio.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 29 settembre 2011)
Finisce 315 a 294 per lui, anche perché i Radicali disertano il voto. Poi Saverio Romano raggiunge Berlusconi e dà un seguito ai versi che la sua corregionale Marcella Bella cantava in una vecchia hit: «Io e Silvio ci siamo abbracciati».
Tornerai / più importante che mai / E staremo abbracciati / tutto il tempo che vuoi, cantavano a due voci Marcella e Gianni Bella nel 1977. E Romano, subito dopo la votazione che lo mantiene in sella al governo nonostante sia accusato di reati di mafia: «Non vado a festeggiare. C’è da lavorare alle riforme».
Si sente, eccome se si sente, che «Saverio» s’è appena distolto dall’abbraccio col Cavaliere. «Io e Berlusconi ci siamo abbracciati», scandisce. «Abbiamo fatto i conti. 315 voti a favore, più gli assenti giustificati» ed eccola là, la cifra magica, «la maggioranza è di 325». Umberto Bossi lancia l’ennesimo messaggio a quella base leghista che più d’un indicatore dà per «inferocita». «Oggi è andata benissimo», spiega il Senatur lasciando seguire all’ingiustificato moto d’orgoglio (che di padano, almeno ieri, aveva ben poco) il mantra recitato nelle ultime settimane: «Non so se arriviamo al 2013». In fondo, è la stessa analisi che Gianfranco Fini, abbandonando la presidenza dell’Aula dopo l’ennesima fase concitata della seduta, affida ai suoi: «Vedo aria da campagna elettorale». La stessa, identica, di Pier Ferdinando Casini. Che, però, aggiunge a mo’ di postilla: «Stendiamo un velo pietoso su quello che sta succedendo oggi».
Oggi, e cioè ieri, Saverio Romano si presenta in Transatlantico in tempo per l’inizio della discussione. La scena, per qualche decina di minuti, lo vede solitario ai banchi del governo. Davanti a lui i deputati di Fli stendono il Pornostafo apparso sul Fatto quotidiano, una rivisitazione by Vauro del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Con tanto di nota a margine: Patonza da Volpedo. L’ora delle «parole forti» sarebbe scoccata subito dopo le 16, con l’inizio degli interventi.
Si sprecano i «cialtroni», compreso quello che Mimmo Scilipoti destina ai deputati dell’opposizione. Il primo «venduto» se lo becca Silvano Moffa, a cura dei suoi ex colleghi finiani. L’adesivo del «codardo», invece, finisce idealmente dietro la giacchetta di Bobo Maroni. Testualmente, dalla voce di Antonio Di Pietro: «Chiedo amareggiato al ministro Maroni, che si vanta di aver condotto una dura lotta alla mafia e oggi codardo fugge, perché non si presenta in Parlamento». Il titolare del Viminale si materializza a metà seduta e si fionda alla buvette per chiacchierare con Giulio Tremonti, mentre l’ultimo successore di Quintino Sella sorseggia soddisfatto un flute di prosecco con gli immancabili auricolari del telefonino posizionati su entrambe le orecchie. È la stessa persona, «Giulietto», che poco prima, incrociando per caso Gianni Alemanno alla Camera, l’aveva accolto con tanto di saluto romano.
«La parola» che in Aula tutti aspettano, profondissima spia di vergognoso disonore, la pronuncia il pdl Manlio Contento. Romano mafioso? «Macché. Un boss di mafia disse che è un cornutazzo». E tutti pensano all’indice e all’anulare di una mano a caso, all’inequivocabile gesto che il cinematografico Mimì Matallurgico (interpretato da Giancarlo Giannini) di Lina Wertmüller si vide opporre da una manica di mafiosi prima di emigrare al nord «ferito nell’onore».
A quel punto, però, l’autodifesa di Romano era già agli atti. «Quello che un tempo era l’ordine giudiziario ormai ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte», dice. E i giudici? «Il trono deve evitare di schiacciare il leone, però è sotto gli occhi di tutti che il leone oggi ha già una zampa sul trono». Esopo? No, «sir Francis Bacon».
Si viaggia verso il voto a scrutino palese. A un certo punto, gli altoparlanti dei monitor al plasma disseminati tra cortile e Transatlantico sembrano sul punto di esplodere. «Vogliamo l’amnistia!», si sgola la radicale Elisabetta Zamparutti. «Non partecipiamo al voto perché intendiamo esprimere la nostra sfiducia nei confronti di un’intera classe dirigente». E così, di fronte a un Pd mai così presente (manca solo Marianna Madia, che ha partorito da due giorni), i sei radicali si sfilano. Franceschini medita di espellerli dal gruppo. «Questi si cacciano senza se e senza ma», s’infervora Rosy Bindi. «Ricordiamoci che siamo in un partito “democratico” dove le decisioni si prendono democraticamente e non perché uno si alza e sceglie da solo», ribatte Roberto Giachetti, segretario d’Aula del gruppo Pd, che radicale è nato e cresciuto. 315 a 294, con il repubblicano Nucara che tiene fede alla promessa di votare a favore della sfiducia. Romano e il Cavaliere, in quel momento, erano nascosti chissà dove. Abbracciati.
La Lega “salva” Romano. E il boss Mandalà attacca sul suo blog: «Il Carroccio mercanteggia»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 settembre 2011)
La Lega “salva” Saverio Romano. E Nino Mandalà, il boss di Villabate con cui il ministro – secondo un pentito – avrebbe “collaborato”, attacca il Carroccio. Sul suo blog.
L’argomento è di quelli che tormentano il sonno di molti onorevoli deputati. E la domanda, che segretamente passa di coscienza in coscienza nei corridoi di Montecitorio, è sempre la stessa: perché Papa sì e Milanese no?
Alla vigilia del voto sulla mozione di sfiducia nei confronti di Saverio Romano, il ministro accusato di reati di mafia che sarà salvato (come Milanese) dai voti iper-padani di Bossi e compagnia, il boss di Villabate Nino Mandalà annota sul suo blog (http://ninomandala.blogspot.com/). Papa e Milanese? «Due storie uguali (o forse quella di Milanese è un tantino meno uguale), due morali diverse, che confermano una consuetudine ormai consolidatasi nel nostro Parlamento, la consuetudine all’incoerenza».
Mandalà non è un boss qualsiasi. E il padre del boss che avrebbe confidato al collaboratore di giustizia Stefano Lo Verso di avere «nelle mani» i politici «Saverio Romano e Totò Cuffaro». E che cosa scrive ieri alle ore 12.25 Mandalà della Lega, il partito che consentirà a Romano di rimanere alla guida del ministero dell’Agricoltura come se nulla fosse? Questo scrive sul suo blog, riferendosi (apparentemente?) alla doppia morale usata dal Carroccio su Papa e Milanese: «Ahimé, pare che dobbiamo arrenderci all’evidenza: la Lega ha mercanteggiato la propria coscienza al banco dei pegni della Camera e ha riscattato l’onorevole Milanese reputando che le sue quotazioni valessero più di quelle dell’onorevole Papa ai fini dei risultati da portare a casa!». Non è tutto. Qualche riga più in giù, sempre all’interno dello stesso post, Mandalà manda un altro siluro all’indirizzo di Senatur e compagnia. Sotto forma di domanda retorica: «È credibile una Lega in preda a convulsioni moralistiche a singhiozzo, che obbediscono a calcoli di ragioneria spicciola piuttosto che a obiettive considerazioni di carattere morale, in una vicenda in cui la morale dovrebbe essere l’unica categoria alla quale ispirarsi?».
Coscienza. Riscatto. Credibilità. Morale. Tutte voci del verbo del boss di Villabate. Che ovviamente, a quel Romano che avrebbe avuto (secondo il pentito Lo Verso) «in mano», non fa alcun riferimento. Messaggio in codice? Avviso ai naviganti? Chissà.
Di certo c’è che in uno sfogo che lo fa sembrare uno degli indignados, veicolato a mezzo blog a poche ore dal voto di Montecitorio su Romano, Mandalà castiga anche il presidente del Consiglio. «È credibile un Presidente del Consiglio che, vicende pecorecce a parte di cui può non importarci, (…) ha determinato un tale declino dell’Italia che Obama si può permettere impunemente e ingiustamente di ignorare il ruolo fondamentale avuto dal nostro Paese nella vicenda libica senza che le nostre Istituzioni abbiano un sussulto d’orgoglio?». E ancora, sempre Mandalà: «È credibile un presidente del Consiglio che è ridotto ad annaspare elemosinando la stampella dall’onorevole Scilipoti, pur provenendo dalla più ampia maggioranza mai realizzata nella storia parlamentare italiana?».
Più che un boss mafioso, sembra il tribuno di una plebe qualsiasi, Mandalà. «È credibile un Pd che non è capace di proporre una strategia degna di questo nome in alternativa a quella del governo? (…) È credibile un Di Pietro che evoca scenari apocalittici ipotizzando strumentalmente la prospettiva di un selciato sporco di sangue allo stesso modo in cui con la sua nota disinvoltura seminò Tangentopoli di imputati più o meno innocenti e provocò tante tragedie, il quale, mentre tuona contro il nepotismo e il malaffare, non dimentica che i figli sono ”pezz’e core” e catapulta il suo di figlio in politica?».
È credibile Mandalà? A chi scrive Mandalà? Mistero. A poche ore dal voto su Saverio Romano, intanto, l’unica voce della maggioranza che s’è levata a favore della sfiducia è quella del leader repubblicano Francesco Nucara. «Romano farebbe bene a dimettersi prima, visto il tipo di reato di cui è accusato. Ritengo che in questo caso dovrò votare la sfiducia». A dimettersi, il ministro “responsabile” non ci pensa proprio. Nel suo libro intervista con Barbara Romano, La mafia addosso, ha scritto: «La mafia addosso è come una maglietta fradicia di sudore che non ti appartiene». Passi per la ricerca dell’originalità a tutti i costi. Ma attenzione. Ci saranno state persone colpite improvvisamente dalla banalissima tegola che cade da un tetto. Ma vi è mai capitato di trovarvi inconsapevolmente a indossare una maglietta bagnata dall’altrui sudore? «È credibile», per dirla con Mandalà, un esempio del genere?
I Responsabili azzannano Bossi. Secessione e ampolla? «Tutt’ strunzat’»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 settembre 2011)
L’acqua dell’ampolla retta dalle paterne mani che benedice la filiale Trota. La voce del Senatur che scalda il padano popolo al grido «secessione». L’effigie del glorioso Alberto da Giussano che ondeggia al vento di mille bandiere. E l’onorevole berlusconiano Pepe Mario da Bellosguardo (Salerno) che sibila suadente: «Tutt’ strunzat’».
Una cosa è certa. Se non fosse stato per il campano onorevole Pepe Mario da Bellosguardo, che prima del 14 dicembre dell’anno scorso radunò certosinamente quella pattuglia parlamentare che la Storia avrebbe archiviato alla voce «Responsabili», a quest’ora Bossi e compagnia non solo non avrebbero i ministeri giocattolo di Monza. Ma neanche quelli veri di Roma. Anche per questo, forse, all’esercito che consente al blocco Pdl-Lega di rimanere al governo – fatto di meridionali incalliti, cresciuti a pane e Prima Repubblica – la secessione invocata dal Senatur a Venezia non filerà via liscia come una serata con Terry De Nicolò o Barbara Guerra. No.
Se nel testo che l’Umberto ha messo in scena da venerdì a domenica ci fossero «cose serie» e non «strunzat’», allora – ragiona Mario Pepe – «Bossi avrebbe dovuto mollare il governo d’Italia e la poltrona da ministro già domenica sera». E visto che non l’ha fatto, aggiunge, «vuol dire che quelle parole sulla secessione sono solo chiacchiere. Chiacchiere che ha raccontato al suo popolo per farlo stare buono». Alla chiosa del suo ragionamento Pepe s’avvicina con passo felpato. Lentamente e con incedere elegante, come l’uomo del Vecchio frac dell’omonima canzone di Modugno. «Volete la verità?», chiede retoricamente il deputato campano. «Mi sa che questi della Lega stanno messi male. E sta messo male pure il loro popolo. E poi che r’è?», che cos’è, «’st’ampolla? Tutti riti triti e logori. Questi non fanno paura a nessuno».
E non fanno paura neanche a Luciano Sardelli, cinquantaseienne pediatra di San Vito dei Normanni (Brindisi), eletto a Montecitorio con l’Mpa di Raffaele Lombardo e approdato anch’egli all’ombra di Iniziativa Responsabile, di cui ha indossato anche i galloni di capogruppo. «Ma facciamogli dire quello che vuole, a Bossi. Tanto siamo alle solite. Dice sempre le stesse cose», scandisce Sardelli. Che però, in calce al «nulla di nuovo sotto il sole», aggiunge una sua adamantina verità. «A me un alleato di governo come Bossi va benissimo. Primo, perché nei fatti ci garantisce di governare come si deve. E secondo, perché ha finalmente dimostrato che noi del Sud abbiamo vinto la battaglia, mentre la Lega ha perso». Ma come? L’Umberto urla alla secessione e Sardelli canta vittoria per il Sud? «E certo», risponde il deputato pugliese, autore (per le Edizioni Koiné) del libro – a metà tra il saggio e il romanzo – Una storia poco onorevole. «Politicamente la Lega è fi-ni-ta. Oggi che hanno in tasca il federalismo, non gli è rimasto nulla da dire. E visto che non si possono inventare nulla di nuovo, tornano a questa vecchia storiella della secessione. Di fronte a tutto questo, lo sa che cosa faccio io, Luciano Sardelli, che pure qualche anno fa teorizzavo la nascita di un grande partito del Sud?». Che cosa fa? «Niente, non faccio un bel niente. L’epoca dei partiti territoriali non c’è più». Meglio, conclude il deputato-pediatra, tuffarsi (responsabilmente) a capofitto nell’impresa di «costruire un grande partito popolare, che lotti per una società più giusta». E prima che gli si faccia notare che – rispondendo al suo alleato Bossi – la sua voce sembra quasi quella di «uno di sinistra», Sardelli chiarisce: «Ovviamente mi riferivo a una forza politica che lavora per una società “solidale”, non “pauperistica” come la vorrebbe Vendola». Ispirata alla vita e al pensiero di? Risposta secca: «Don Sturzo!».
Scilipoti Domenico detto Mimmo, messinese di Barcellona Pozzo di Gotto, deputato agopuntore
ormai sistematicamente preceduto dalla sua stessa fama, all’inizio prova a difendere il Senatur. Testualmente: «Non credo che Bossi volesse dire quello che ha detto», sottolinea nell’estremo tentativo di non aprire una falla tra i Responsabili e la Lega. Prova a mediare, Scilipoti. Imbocca una strada diplomatica a metà tra il Kissinger dei tempi del Vietnam e il conduttore Jocelyn quando faceva Giochi senza frontiere su Raiuno. Poi, però, cede: «La secessione dei leghisti? Da italiano impegnato in politica io combatto per tre cose: più Stato, più patria, più famiglia. Voglio ricordare che, nel processo di unificazione di questa Italia, il Meridione ha pagato il contributo più alto. Tre milioni di morti. Che stessero dalla parte giusta o da quella sbagliata, sta di fatto che sono morti», dice tutto d’un fiato Scilipoti. Che aggiunge: «Spero che Bossi chiarisca bene quello che voleva dire». Altrimenti? «Gli risponderemo il 21 ottobre, all’Auditorium dell’Eur, al congresso del mio movimento, “Responsabilità nazionale”».
L’onorevole Francesco Nucara, leader del Pri eletto col Pdl, la Prima repubblica l’ha vista per davvero. «Bersani e Casini aiutino Berlusconi a liberarsi di Bossi, che oggi è il vero male dell’Italia», prova a dire con una battuta il deputato calabrese. Poi si tuffa nella storia: «Il Senatur vuole staccarsi dal Sud? Ma lo sa che dei 300mila baby pensionati che ci sono nel Paese, 111mila vengono dal suo Nord?». Quindi ripara sulla cronaca: «Se ci fosse una mozione di sfiducia nei confronti del ministro Umberto Bossi, il sottoscritto voterebbe a favore». E, infine, azzanna: «Massi’, chiediamo al governo di trasformare Varese in provincia autonoma. Così la smettono, quelli come Bossi, di romperci i coglioni». E dice proprio così. «Coglioni».
“Cretino!”, “bugiardo!”. La farsa finale del Silvio IV, con Scilipoti cerimoniere.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’8 luglio 2011)
Per Fruttero&Lucentini «il cretino è imperturbabile», «la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai di dubitare di sé». Basta togliere le firme di Fruttero&Lucentini, metterci quella di Tremonti et voilà: Renato Brunetta.
Niente dietro le quinte, nessun retroscena. E non c’entrano nemmeno gli aggeggi malefici con cui Nanni Loy confezionava Specchio segreto o Candid Camera. No. Succede durante una conferenza stampa del governo. Ed era tutto davanti a tutti, pronto perché una telecamera – in questo caso di Repubblica tv – lo cogliesse per certificare la «dichiarazione di fine lavori» del Berlusconi IV.
Martedì Brunetta, ministro sì ma senza portafoglio, s’incarica di illustrare la manovra economica per la parte riguardante il pubblico impiego. Qualche sedia più in là Giulio Tremonti, superministro con un portafoglio gonfio di dossier che manco il caveau di Fort Knox, ne celebra le gesta oratorie. Partendo da una sobria analisi del verbo brunettiano – «Questo è il tipico intervento suicida» – e ostentando una capacità di sintesi superiore financo a quella di Fruttero&Lucentini. Quattro parole: «È proprio un cretino». Sottoposte, alla fine, anche al vaglio di qualche presente. Come Maurizio Sacconi («Maurizio, ma hai sentito quello che sta dicendo?», chiede Giulietto), che acconsente («Non lo seguo nemmeno»).
Ieri mattina, quando Repubblica ha appena mandato in rete il video-remake tremontiano del Cretino in sintesi di Fruttero&Lucentini, sembra di vivere in un’altra era. La Procura di Napoli ha appena chiesto l’arresto di Marco Milanese, l’ex braccio destro del ministro dell’Economia. Quest’ultimo, però, viene assolto da Brunetta, che sceglie invece di prendersela con il primo caso mondiale di «violazione della privacy» (sic!) avvenuto nel bel mezzo di una conferenza stampa. Il tutto mentre un altro membro del governo, Guido Crosetto, spiega che un cretino in giro c’è. Ma si chiama Tremonti («Io condivido totalmente le parole espresse dal ministro dell’Economia. Mi differenzio solo ed esclusivamente sul fatto che le avrei rivolte nei suoi confronti»), mica Brunetta.
C’è un aurea regola non scritta secondo cui laddove volano i «cretino!» c’è anche qualche «bugiardo!». E così, quando si presenta nella Sala del Mappamondo della Camera per fare da autorevole spalla alla presentazione del libro di Mimmo Scilipoti (Il re dei peones, Falzea editore), ci pensa Silvio Berlusconi in persona a far entrare sulla scena il secondo protagonista collettivo del giovedì nero del suo governo. Il «bugiardo», appunto. L’inviata di La7 gli chiede lumi sulla vera storia della norma salva Fininvest, la stessa per cui Giulio Tremonti aveva invitato a rivolgersi altrove («Chiedete a Letta»). E il Cavaliere, col candore di un’educanda navigata, replica: «Non l’ho scritta io», «è stata discussa durante il consiglio dei ministri», anzi proprio «Tremonti non ha ritenuto di portarla al voto». Lo sbugiardatore pubblico della (a suo dire) cretinaggine di Brunetta, a sentire il premier, avrebbe mentito sulla paternità del comma che salvava la sua azienda (azienda del premier, ovviamente). E i leghisti, che avevano espresso il loro disappunto pubblico sul comma poi ritirato, lo stesso che il premier dice di voler ripresentare perché «sacrosanto»? Il Cavaliere ne ha anche per loro. «Calderoli mi ha chiesto», spiega il premier, «“perché non me l’hai detto (che c’era la norma, ndr), che l’avrei scritta meglio io e l’avrei pure sostenuta?”».
A controsbugiardare lo sbugiardatore intervengono, in tandem, i leghisti. La salva Fininvest? «Non sapeva niente nessuno», giura Umberto Bossi. E Calderoli, furibondo col premier: «Ribadisco ancora una volta di non aver mai né letto né visto la cosiddetta norma sul Lodo Mondadori e di aver appreso della sua esistenza soltanto dai lanci delle agenzie di stampa». Morale della favola? Non avendo più alcuno da sbugiardare, dopo aver letto del caos scatenato dalle sue stesse parole, il premier capisce che è l’ora di sbugiardare se stesso. Con una nota: «Quanto mi viene attribuito da alcune agenzie di stampa in merito all’operato del ministro Tremonti non corrisponde al mio pensiero né alla verità dei fatti».
Tremonti, Brunetta, Crosetto, Sacconi, Milanese, Berlusconi, ancora Tremonti, Bossi, Calderoli, ancora Berlusconi. Violenti come Le Iene di Tarantino, comici come quelle di Mediaset. Il cuore pulsante della maggioranza vede il sipario che cala al ritmo di due parole: «cretino» e «bugiardo». Con buona pace del povero Scilipoti, che s’era illuso di calamitare su di sé l’attenzione delle masse come all’epoca del 14 dicembre. Per la presentazione del suo libro, nell’ordine: ha disseminato la Sala del Mappamondo della Camera con decine di copie del suo quotidiano la Responsabilità, che nell’ultimo numero ospita un’intervista a tale Jay Maggistro, una a Pippo Franco e un commento dal titolo «Le otturazioni in amalgama sono un pericolo reale»; ha detto di aver fatto 22mila visite nelle favelas in Brasile; ha confessato che esiste una sala lettura di una città carioca che «porta il mio nome». Ma, ahilui, non ha dato del «cretino» a nessuno.