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Il carneade Milo vota. Sfuma il delitto perfetto di Montezemolo e Casini.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 ottobre 2011)
Silvio Berlusconi incassa la fiducia. 316 sì, 301 no. Ma questa è la storia di un delitto (quasi) perfetto, stile Omicidio sull’Orient Express di Agatha Christie. Che sfuma quando un parlamentare semisconosciuto che si chiama Antonio Milo fa il suo ingresso nell’Aula di Montecitorio.
Montezemolo, Casini, Franceschini. Si muovono ciascuno per conto proprio, come i tanti killer del noto giallo della Christie. Ma hanno un obiettivo comune: quello di far cadere il governo Berlusconi. Il primo perché vuole finalmente entrare dalla porta principale, e stavolta a sorpresa, nel gioco della politica. Il secondo e il terzo perché sperano che sia l’opposizione a dettare i tempi dello scioglimento anticipato della legislatura (l’Udc) o ad aprire l’ultimo spiraglio per un governo d’emergenza (il Pd).
La partita del presidente della Ferrari è diversa da quella dell’opposizione. Da giorni si diceva che fosse a contatto con «due partecipanti alle cene di Scajola» (Fabrizio d’Esposito lo aveva scritto sul Fatto quotidiano). E ieri è arrivata la prova. Poco prima che iniziasse il voto sulla fiducia, il sottosegretario Aurelio Misiti l’ha confidato a qualche collega della maggioranza: «Questa notte Montezemolo ha contattato Giustina Destro e Fabio Gava, convincendoli a voltare le spalle al Cavaliere». Non è tutto. «L’ex presidente di Confindustria ha preso contatti con altri parlamentari. Di sicuro con Catia Polidori, che a quando mi risulta gli ha detto “no, grazie”». Sono le 11.30 di ieri mattina. Un’ora dopo, Destro e Gava avrebbero disertato il voto di fiducia, mandando in ansia le truppe di Berlusconi. Al contrario della Polidori e (guarda caso) dello stesso Misiti, che nel pomeriggio sarebbero stati promossi da sottosegretari a viceministri.
All’una di notte, quindi, undici ore prima che l’Aula di Montecitorio si esprima sulla fiducia al governo, Berlusconi ha già perso Destro e Gava. Ma ci sono altre tre pedine che stanno per saltare il fosso: Luciano Sardelli, Antonio Milo e Michele Pisacane. Gli stessi che consentono l’ingresso nel “giallo” di Casini e Franceschini.
È Sardelli, come si dice in gergo, a «fare l’operazione». L’ex capogruppo dei Responsabili ha già preso contatti da giorni con i suoi ex colleghi dell’Udc, ai quali affida le proprie speranze di riportare nell’opposizione sia Milo che Pisacane. Nella notte tra giovedì e venerdì, quando l’operazione comincia a sembrare «fattibile», Casini sente i vertici del Pd. E visto che comunque l’opposizione non riuscirebbe mai a raggiungere il numero dei parlamentari della maggioranza, ecco che il campo di gioco diventa un altro. «Non si tratta di battere Berlusconi. Ma di fargli mancare il numero legale», spiegano alcuni deputati. Perché hanno una certezza, tutti quelli che si muovono sullo scacchiere anti-Silvio: «Se l’assenza del numero legale spinge il premier a richiedere la fiducia a inizio della prossima settimana, abbiamo tutto il week-end per convincere Scajola a staccare la spina».
Il piano, effettivamente, è ben congegnato. Nottetempo, Casini avverte Franceschini. Che a sua volta, ieri mattina, invita tutti i suoi a rimanere fuori dall’Aula. Gli addetti al pallottoliere dell’opposizione lo dicono e lo ripetono, come a voler alimentare le speranze sulla riuscita del blitz: «Se Gava, Destro, Sardelli, Milo e Pisacane non entrano in Aula, allora è fatta. Niente numero legale, niente fiducia».
All’inizio della prima chiama, c’è un’unica ansia che li tormenta. La delegazione dei Radicali, che già ieri l’altro aveva “disobbedito” (virgolette d’obbligo) all’ordine di scuderia di disertare il discorso di Berlusconi, è riunita per decidere il da farsi. Nel partito ci sono due linee: Bonino vorrebbe seguire le orme del resto dell’opposizione, Pannella invece crede che «Emma» sia troppo appiattita sul Pd. Dei sei deputati radicali, una è in Africa (Elisabetta Zamparutti). Gli altri sono divisi tra chi vorrebbe partecipare al voto di fiducia (Bernardini, Coscioni, Turco) e chi spinge per l’Aventino tattico (Beltrandi e Mecacci). Tutti loro, ovviamente, sapevano che il voto era previsto per mezzogiorno. Eppure convocano la loro riunione in ritardo, come a voler monitorare quello che sarebbe successo tra il Transatlantico e l’emiciclo.
A mezzogiorno e un quarto, i berlusconiani tremano. La loro maggioranza, dopo l’uscita
del tridente Versace-Destro-Gava, è ferma a 314. Sardelli ha appena respinto l’ultimo pressing del Cavaliere in persona. Mancano Milo e Pisacane. I monitor del Transatlatico e del cortile sembrano quelli di Wall street. Capanelli di gente accalcata, fogli di carta che volano, speranze, delusioni, paure. Poi Milo risponde alla «chiama» e vota la fiducia. Franceschini scuote la testa, Bersani rimane impietrito. L’operazione sfuma, perché il «numero 315» virtuale ha appena scongiurato il blitz. Poi la scena sarà tutta dei Radicali, che fanno il loro ingresso in Aula tra gli insulti dei deputati del Pd (particolamente scatenate Giovanna Melandri e Rosa Villecco Calipari). «Quando gli str.. sono str.., galleggiano senz’acqua», s’infuria Rosy Bindi. «Macché, con l’ingresso di Milo i numeri li avevano già», ribatte l’ex radicale Roberto Giachetti, segretario d’Aula del Pd. Quindi, sui titoli di coda, si presenta nell’emiciclo anche Pisacane. Era inutile che stesse tra i congiurati, visto che la congiura era appena fallita. Niente Omicidio sull’Orient Express. Solo urla. Quelle tra Francesco Pionati e il suo ex collega dell’Udc Angelo Cera. «Angelo, ora gli devi trovare un posto in lista a Sardelli, che sennò a quello non resta che andare a zappare». «Ma stai zitto, France’. Tu con quello ci mangiavi fino a poco tempo fa». 316 a 301. E la ruota impazzita ricomincia a girare.
Tra pitoni e Nobel mancati. Who’s who del rimpasto
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 maggio 2011)
Antonio Gentile, parlamentare calabrese del Pdl, è l’uomo che nel settembre 2002 propose Silvio Berlusconi per il Nobel per la pace. Per «il forte ruolo svolto a favore dell’ingresso della Russia nella Nato; per la cancellazione dei crediti che l’Italia vantava verso alcuni Paesi poveri; per aver interpretato la sua funzione istituzionale come un percorso limpido e coerente di mediazione dei conflitti internazionali; perché ha restituito all’Italia una vocazione diplomatica dispersa», disse all’epoca Gentile esaltando il Cavaliere.
Bruno Cesario, ex rutelliano campano passato coi Responsabili, ha fatto di più. Nel 2008, camminando per una via di San Giorgio a Cremano (provincia di Napoli), s’accorse che un pitone di tre metri e mezzo aveva appena assaltato un’automobile, provocando la fuga del conducente. E intervenne, coraggiosamente, frapponendosi tra il mastodontico rettile e l’autovettura e agevolando quindi l’intervento delle forze dell’ordine.
E visto che Gentile e Cesario sono andati entrambi a fare i sottosegretari al ministero dell’Economia,
si può ragionevolmente sostenere che i “pezzi pregiati” del rimpasto se li è accaparrati Giulio Tremonti.
Nove nomine, arrivate ieri a chiudere quel cerchio che s’era aperto il 14 dicembre con quel voto di fiducia che aveva consentito al Cavaliere di passare indenne attraverso le forche caudine di Montecitorio. Ma «ne faremo altre dieci», aggiunge il presidente del Consiglio per placare l’ira funesta di chi è rimasto lontano dall’agognato posto al sole.
Alla lotteria del rimpasto vengono premiati – oltre a Gentile e Cesario – gli ex finiani Roberto Rosso (Agricoltura), Luca Bellotti (sosia dell’allenatore Luciano Spalletti e centravanti della nazionale Parlamentari, al Welfare) e Catia Polidori (Sviluppo economico). Aurelio Misiti, eletto nelle liste dell’Italia dei valori, va alle Infrastrutture, l’ex pd Riccardo Villari ai Beni culturali, mentre la liberaldemocratica Daniela Melchiorre s’accasa – come la Polidori – al ministero guidato da Paolo Romani. Completa il quadro l’ex centrista (transitato da Fli) Giampiero Catone, da ieri sottosegretario all’Ambiente. Il più lesto a rivendicare che «ho parlato direttamente con Berlusconi delle mie competenze, spiegandogli che avrebbe potuto usarle nei tempi e nei modi per lui più opportuni». Un modo come un altro per precisare che «in questa storia ho fatto riferimento al premier, e solo a lui».
Caso chiuso? Tutt’altro. Nella war room dei Responsabili d’ogni credo i malumori si sprecano. Pino Galati, esponente di punta dei Cristiano popolari guidati da Mario Baccini, nonché marito della leghista Carolina Lussana (i testimoni di nozze furono Bossi&Casini), ha dato voce alla sua rabbia. «Prendiamo atto che gli impegni assunti dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non sono stati mantenuti», ha messo nero su bianco in una nota vergata a quattro mani (le altre due sono quelle di Baccini). Ma il vero ispiratore del comunicato al vetriolo – e qui arrivano i primi guai per il premier – sarebbe Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che ha Galati sotto la sua ala protettiva, ieri è uscito dall’inchiesta relativa agli appalti sui Grandi eventi. «Mi sono sempre proclamato totalmente estraneo a questa vicenda: la chiusura dell’inchiesta lo conferma in modo ufficiale e definitivo», ha scandito. Che cosa c’entra col rimpasto? Semplice. Con un peso (giudiziario) in meno sul groppone, l’ex ministro ligure tornerà alla carica sul partito. «E il segnale che ha ricevuto da Berlusconi con la “bocciatura” di Galati non è certo un bell’inizio», commentano nella sua cerchia ristretta.
Difficile circoscrivere l’area del disagio “responsabile”. Nel gruppetto di Noi Sud, dove la guerra fratricida per una poltrona tra Elio Belcastro e Antonio Milo s’è conclusa 0-0 (bocciati entrambi), c’è il sospetto che “il padre nobile” Enzo Scotti adesso punti al ministero delle Politiche comunitarie. E furibondo è anche Francesco Pionati, che al Riformista dice: «Tanto questi durano poco». Massimo Calearo, invece, andrà a fare il consigliere del premier per il commercio estero. Al contrario dell’ex finiana Maria Grazia Siliquini, che dopo il giro sulle montagne russe, si ritrova a fare la regina delle occasioni sprecate. Niente posto alle Poste (ha rifiutato), niente posto al governo. Con grande gioia dei suoi ex colleghi finiani, che nel giorno dell’ultimo botta e risposta tra «Silvio» e «Gianfranco» («Il premier è ossessionato da me, merita compassione», dice il presidente della Camera) trovano finalmente qualcosa di cui sparlare.