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Stravolgimento o slittamento: il «bavaglio» sta per uscire di scena.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’11 ottobre 2011)
Nella stanza dei bottoni del Pdl stanno pensando all’ennesimo dietrofront sulle intercettazioni. Visto che quando il Riformista va in stampa l’incontro tra Silvio Berlusconi e Angelino Alfano è ancora in corso, è impossibile stabilire se i boatos che arrivano da Montecitorio troveranno conferma. Di certo c’è che da ieri pomeriggio, nelle stanze del gruppo del Pdl, la «legge bavaglio» non è più considerata «irrinunciabile». Che cosa potrebbe succedere domattina, quando nel calendario dell’Aula della Camera è prevista l’approvazione della norma sulle intercettazioni? Un berlusconiano della prima cerchia, al riparo da microfoni e sguardi discreti, ammette che «forse non ci sono le condizioni per andare avanti». Di conseguenza la soluzione, magari benedetta dal Cavaliere, «potrebbe essere quella di “ammorbidire” il provvedimento, provando in extremis ad andare nella direzione del Terzo Polo». Oppure, «di congelarlo, rinviandolo per l’ennesima volta a tempi migliori».
I movimenti di Claudio Scajola, le tensioni all’interno di una maggioranza in cui scricchiola anche la “gamba” dei Responsabili, le perplessità sul provvedimento di pezzi significativi del mondo berlusconiano: nelle ultime quarantott’ore il Cavaliere ha capito che il gioco non vale la candela. Anche perché i pericoli che s’annidano dietro il voto di domani sono troppo alti. E rischiano di travolgere l’intero esecutivo. Lo spin doctor dell’Udc Roberto Rao, che ha seguito da vicino l’iter della “legge bavaglio”, mette in fila tutti i tasselli del puzzle: «Al punto in cui sono arrivati, non hanno tante strade da percorrere. Hanno ancora il tempo per fermare il provvedimento. Oppure possono ingranare la retromarcia per ritornare al testo Bongiorno», che ovviamente non prevedeva il carcere per i giornalisti. E se invece la maggioranza decidesse di andare avanti nella versione «bavaglio» della legge, magari mettendo la fiducia? Il braccio destro di Pier Ferdinando Casini non nasconde un sorrisetto velenoso: «Ovviamente il governo otterrebbe la fiducia. Ma che cosa succederebbe se, nel voto segreto sul provvedimento, la maggioranza andasse sotto? Non credo che in quel caso, un minuto dopo, potrebbero fare finta di niente…».
Non è tutto. La retromarcia sulle intercettazioni potrebbe servire anche a ricucire lo strappo con la truppa di Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che nelle prossime ore incontrerà Angelino Alfano, l’aveva confidato già sabato: «Una legge sulle intercettazioni serve. Ma sono sicuro che il testo di cui stanno parlando i giornali non sarà quello definitivo». In questo caso, il ritorno a una versione soft del provvedimento potrebbe servire agli scajoliani come «scusa» per rientrare – seppur momentaneamente – nei ranghi. A prendere per buona la lettura del ministro Gianfranco Rotondi, che sabato sera in un ristorante di Saint-Vincent commentava con amici e colleghi la partecipazione dell’«amico Claudio» al suo convegno, «la vicenda di Scajola potrebbe anche risolversi facilmente. Basta garantirgli la rielezione dei suoi e farlo tornare ai vertici del partito, magari con la carica di vicesegretario». Se il pronostico del democristiano Rotondi fosse azzeccato, allora la rinuncia al «bavaglio» avrebbe anche un altro significato. Quello, ragiona un berlusconiano che forse pecca di eccessivo ottimismo, di «dare al buon Claudio la chance per motivare il ritorno sui suoi passi».
A prescindere da Scajola, che ha congelato l’offensiva del frondisti (l’ex ministro ha scritto una lettera al premier per spiegare le ragioni dei malpancisti), senza un «cambio di passo» prima di domani il Vietnam parlamentare è assicurato. «Il voto finale sul provvedimento non è scontato», spiega il deputato dei Responsabili Domenico Grassano. «Anche perché nell’accordo con Berlusconi non c’era il ddl intercettazioni e soprattutto non c’erano alcune proposte insensate come l’arresto per i giornalisti». Identico il canovaccio recitato da Luciano Sardelli: «Va trovato un punto di mediazione e di sintesi che allarghi e riarticoli il centrodestra. Il carcere ai giornalisti? Ma non esiste…».
Il countdown è partito. L’Aula di Montecitorio potrebbe trasformarsi per l’ennesima volta in un bunker con ostacoli disseminati per ogni dove. E la voce che arriva dal gruppo del Pdl, la stessa che evoca il colpo di scena prima del voto, tocca sempre la stessa corda: «Forse non ci sono le condizioni per andare avanti. Neanche stavolta…». Il Cavaliere continua a resistere. Anche se il ministro Rotondi, nel fine settimana, ha lanciato la sua amara profezia: «Quando sarà l’ora, di noi non si salverà più nessuno. Cadremo tutti appresso a Berlusconi. Per chi ha fatto il ministro in questo governo, non ci saranno altre possibilità. Nemmeno per Tremonti».
I Responsabili azzannano Bossi. Secessione e ampolla? «Tutt’ strunzat’»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 settembre 2011)
L’acqua dell’ampolla retta dalle paterne mani che benedice la filiale Trota. La voce del Senatur che scalda il padano popolo al grido «secessione». L’effigie del glorioso Alberto da Giussano che ondeggia al vento di mille bandiere. E l’onorevole berlusconiano Pepe Mario da Bellosguardo (Salerno) che sibila suadente: «Tutt’ strunzat’».
Una cosa è certa. Se non fosse stato per il campano onorevole Pepe Mario da Bellosguardo, che prima del 14 dicembre dell’anno scorso radunò certosinamente quella pattuglia parlamentare che la Storia avrebbe archiviato alla voce «Responsabili», a quest’ora Bossi e compagnia non solo non avrebbero i ministeri giocattolo di Monza. Ma neanche quelli veri di Roma. Anche per questo, forse, all’esercito che consente al blocco Pdl-Lega di rimanere al governo – fatto di meridionali incalliti, cresciuti a pane e Prima Repubblica – la secessione invocata dal Senatur a Venezia non filerà via liscia come una serata con Terry De Nicolò o Barbara Guerra. No.
Se nel testo che l’Umberto ha messo in scena da venerdì a domenica ci fossero «cose serie» e non «strunzat’», allora – ragiona Mario Pepe – «Bossi avrebbe dovuto mollare il governo d’Italia e la poltrona da ministro già domenica sera». E visto che non l’ha fatto, aggiunge, «vuol dire che quelle parole sulla secessione sono solo chiacchiere. Chiacchiere che ha raccontato al suo popolo per farlo stare buono». Alla chiosa del suo ragionamento Pepe s’avvicina con passo felpato. Lentamente e con incedere elegante, come l’uomo del Vecchio frac dell’omonima canzone di Modugno. «Volete la verità?», chiede retoricamente il deputato campano. «Mi sa che questi della Lega stanno messi male. E sta messo male pure il loro popolo. E poi che r’è?», che cos’è, «’st’ampolla? Tutti riti triti e logori. Questi non fanno paura a nessuno».
E non fanno paura neanche a Luciano Sardelli, cinquantaseienne pediatra di San Vito dei Normanni (Brindisi), eletto a Montecitorio con l’Mpa di Raffaele Lombardo e approdato anch’egli all’ombra di Iniziativa Responsabile, di cui ha indossato anche i galloni di capogruppo. «Ma facciamogli dire quello che vuole, a Bossi. Tanto siamo alle solite. Dice sempre le stesse cose», scandisce Sardelli. Che però, in calce al «nulla di nuovo sotto il sole», aggiunge una sua adamantina verità. «A me un alleato di governo come Bossi va benissimo. Primo, perché nei fatti ci garantisce di governare come si deve. E secondo, perché ha finalmente dimostrato che noi del Sud abbiamo vinto la battaglia, mentre la Lega ha perso». Ma come? L’Umberto urla alla secessione e Sardelli canta vittoria per il Sud? «E certo», risponde il deputato pugliese, autore (per le Edizioni Koiné) del libro – a metà tra il saggio e il romanzo – Una storia poco onorevole. «Politicamente la Lega è fi-ni-ta. Oggi che hanno in tasca il federalismo, non gli è rimasto nulla da dire. E visto che non si possono inventare nulla di nuovo, tornano a questa vecchia storiella della secessione. Di fronte a tutto questo, lo sa che cosa faccio io, Luciano Sardelli, che pure qualche anno fa teorizzavo la nascita di un grande partito del Sud?». Che cosa fa? «Niente, non faccio un bel niente. L’epoca dei partiti territoriali non c’è più». Meglio, conclude il deputato-pediatra, tuffarsi (responsabilmente) a capofitto nell’impresa di «costruire un grande partito popolare, che lotti per una società più giusta». E prima che gli si faccia notare che – rispondendo al suo alleato Bossi – la sua voce sembra quasi quella di «uno di sinistra», Sardelli chiarisce: «Ovviamente mi riferivo a una forza politica che lavora per una società “solidale”, non “pauperistica” come la vorrebbe Vendola». Ispirata alla vita e al pensiero di? Risposta secca: «Don Sturzo!».
Scilipoti Domenico detto Mimmo, messinese di Barcellona Pozzo di Gotto, deputato agopuntore
ormai sistematicamente preceduto dalla sua stessa fama, all’inizio prova a difendere il Senatur. Testualmente: «Non credo che Bossi volesse dire quello che ha detto», sottolinea nell’estremo tentativo di non aprire una falla tra i Responsabili e la Lega. Prova a mediare, Scilipoti. Imbocca una strada diplomatica a metà tra il Kissinger dei tempi del Vietnam e il conduttore Jocelyn quando faceva Giochi senza frontiere su Raiuno. Poi, però, cede: «La secessione dei leghisti? Da italiano impegnato in politica io combatto per tre cose: più Stato, più patria, più famiglia. Voglio ricordare che, nel processo di unificazione di questa Italia, il Meridione ha pagato il contributo più alto. Tre milioni di morti. Che stessero dalla parte giusta o da quella sbagliata, sta di fatto che sono morti», dice tutto d’un fiato Scilipoti. Che aggiunge: «Spero che Bossi chiarisca bene quello che voleva dire». Altrimenti? «Gli risponderemo il 21 ottobre, all’Auditorium dell’Eur, al congresso del mio movimento, “Responsabilità nazionale”».
L’onorevole Francesco Nucara, leader del Pri eletto col Pdl, la Prima repubblica l’ha vista per davvero. «Bersani e Casini aiutino Berlusconi a liberarsi di Bossi, che oggi è il vero male dell’Italia», prova a dire con una battuta il deputato calabrese. Poi si tuffa nella storia: «Il Senatur vuole staccarsi dal Sud? Ma lo sa che dei 300mila baby pensionati che ci sono nel Paese, 111mila vengono dal suo Nord?». Quindi ripara sulla cronaca: «Se ci fosse una mozione di sfiducia nei confronti del ministro Umberto Bossi, il sottoscritto voterebbe a favore». E, infine, azzanna: «Massi’, chiediamo al governo di trasformare Varese in provincia autonoma. Così la smettono, quelli come Bossi, di romperci i coglioni». E dice proprio così. «Coglioni».