tommaso labate

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Tra un «codardo» e l’«amnistia!» arriva anche il «cornutazzo». E Romano chiude il suo d-day tra le braccia di Silvio.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 29 settembre 2011)

Finisce 315 a 294 per lui, anche perché i Radicali disertano il voto. Poi Saverio Romano raggiunge Berlusconi e dà un seguito ai versi che la sua corregionale Marcella Bella cantava in una vecchia hit: «Io e Silvio ci siamo abbracciati».

Tornerai / più importante che mai / E staremo abbracciati / tutto il tempo che vuoi, cantavano a due voci Marcella e Gianni Bella nel 1977. E Romano, subito dopo la votazione che lo mantiene in sella al governo nonostante sia accusato di reati di mafia: «Non vado a festeggiare. C’è da lavorare alle riforme».

Si sente, eccome se si sente, che «Saverio» s’è appena distolto dall’abbraccio col Cavaliere. «Io e Berlusconi ci siamo abbracciati», scandisce. «Abbiamo fatto i conti. 315 voti a favore, più gli assenti giustificati» ed eccola là, la cifra magica, «la maggioranza è di 325». Umberto Bossi lancia l’ennesimo messaggio a quella base leghista che più d’un indicatore dà per «inferocita». «Oggi è andata benissimo», spiega il Senatur lasciando seguire all’ingiustificato moto d’orgoglio (che di padano, almeno ieri, aveva ben poco) il mantra recitato nelle ultime settimane: «Non so se arriviamo al 2013». In fondo, è la stessa analisi che Gianfranco Fini, abbandonando la presidenza dell’Aula dopo l’ennesima fase concitata della seduta, affida ai suoi: «Vedo aria da campagna elettorale». La stessa, identica, di Pier Ferdinando Casini. Che, però, aggiunge a mo’ di postilla: «Stendiamo un velo pietoso su quello che sta succedendo oggi».
Oggi, e cioè ieri, Saverio Romano si presenta in Transatlantico in tempo per l’inizio della discussione. La scena, per qualche decina di minuti, lo vede solitario ai banchi del governo. Davanti a lui i deputati di Fli stendono il Pornostafo apparso sul Fatto quotidiano, una rivisitazione by Vauro del Quarto stato di Pelizza da Volpedo. Con tanto di nota a margine: Patonza da Volpedo. L’ora delle «parole forti» sarebbe scoccata subito dopo le 16, con l’inizio degli interventi.

Si sprecano i «cialtroni», compreso quello che Mimmo Scilipoti destina ai deputati dell’opposizione. Il primo «venduto» se lo becca Silvano Moffa, a cura dei suoi ex colleghi finiani. L’adesivo del «codardo», invece, finisce idealmente dietro la giacchetta di Bobo Maroni. Testualmente, dalla voce di Antonio Di Pietro: «Chiedo amareggiato al ministro Maroni, che si vanta di aver condotto una dura lotta alla mafia e oggi codardo fugge, perché non si presenta in Parlamento». Il titolare del Viminale si materializza a metà seduta e si fionda alla buvette per chiacchierare con Giulio Tremonti, mentre l’ultimo successore di Quintino Sella sorseggia soddisfatto un flute di prosecco con gli immancabili auricolari del telefonino posizionati su entrambe le orecchie. È la stessa persona, «Giulietto», che poco prima, incrociando per caso Gianni Alemanno alla Camera, l’aveva accolto con tanto di saluto romano.

«La parola» che in Aula tutti aspettano, profondissima spia di vergognoso disonore, la pronuncia il pdl Manlio Contento. Romano mafioso? «Macché. Un boss di mafia disse che è un cornutazzo». E tutti pensano all’indice e all’anulare di una mano a caso, all’inequivocabile gesto che il cinematografico Mimì Matallurgico (interpretato da Giancarlo Giannini) di Lina Wertmüller si vide opporre da una manica di mafiosi prima di emigrare al nord «ferito nell’onore».
A quel punto, però, l’autodifesa di Romano era già agli atti. «Quello che un tempo era l’ordine giudiziario ormai ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte», dice. E i giudici? «Il trono deve evitare di schiacciare il leone, però è sotto gli occhi di tutti che il leone oggi ha già una zampa sul trono». Esopo? No, «sir Francis Bacon».

Si viaggia verso il voto a scrutino palese. A un certo punto, gli altoparlanti dei monitor al plasma disseminati tra cortile e Transatlantico sembrano sul punto di esplodere. «Vogliamo l’amnistia!», si sgola la radicale Elisabetta Zamparutti. «Non partecipiamo al voto perché intendiamo esprimere la nostra sfiducia nei confronti di un’intera classe dirigente». E così, di fronte a un Pd mai così presente (manca solo Marianna Madia, che ha partorito da due giorni), i sei radicali si sfilano. Franceschini medita di espellerli dal gruppo. «Questi si cacciano senza se e senza ma», s’infervora Rosy Bindi. «Ricordiamoci che siamo in un partito “democratico” dove le decisioni si prendono democraticamente e non perché uno si alza e sceglie da solo», ribatte Roberto Giachetti, segretario d’Aula del gruppo Pd, che radicale è nato e cresciuto. 315 a 294, con il repubblicano Nucara che tiene fede alla promessa di votare a favore della sfiducia. Romano e il Cavaliere, in quel momento, erano nascosti chissà dove. Abbracciati.

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Written by tommasolabate

29 settembre 2011 at 10:23

Maroni lavora all’«Idv lombarda». E si prepara per la festa del Pd.

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

La data sarà tra il 27 agosto e l’11 settembre. Ma dal suo staff del Viminale si sono già premurati di dare «la conferma» al dipartimento Organizzazione del Pd. Il super ospite della festa nazionale dei Democratici, in programma a Pesaro, sarà proprio lui: Roberto Maroni.
Il primo “effetto collaterale” del putsch di «Bobo» ai danni dell’«Umberto» – che si è materializzato quando i leghisti della Camera hanno garantito il via libera all’arresto del pdl Alfonso Papa – è già agli atti. Il primo partito dell’opposizione (e anche, su questo tutti i sondaggisti sono d’accordo, del Paese) ha recapitato a Maroni l’invito alla sua festa nazionale, che andrà in scena a Pesaro tra poco più di un mese. E Maroni, nel giorno successivo al voto di Montecitorio sull’arresto del magistrato berlusconiano, ha accettato.
Ovviamente, lo scambio di cortesie tra il Pd e «Bobo», in sé e per sé, vuol dire poco. La vera novità, aggiunge uno dei fedelissimi del titolare del Viminale, «riguarda la tempistica». Perché tra un mese, aggiunge la fonte maroniana, «l’opera di repulisti che Bobo ha in mente per sganciare la Lega da Berlusconi sarà già in fase avanzata».
Di che cosa si tratta? Semplice. Maroni continua pubblicamente a sostenere che, votando a favore dell’arresto di Papa, «la Lega s’è comportata in maniera coerente». Di più, «che tutti insieme abbiamo seguito le indicazioni del segretario federale», e cioè di Umberto Bossi. In privato, però, il registro del titolare del Viminale è significativamente diverso. «Dal 20 luglio 2011, tra di noi e nel Paese, nulla sarà più come prima. Dobbiamo renderci conto che o cambiamo strada o crolliamo appresso a Berlusconi». Traduzione: sia sulla mozione di sfiducia presentata dal Pd nei confronti del ministro dell’Agricoltura Saverio Romano che sulla richiesta d’arresto dell’ex tremontiano Marco Milanese, «i deputati del Carroccio, secondo coscienza, si comporteranno come hanno fatto con Papa».
Nella cerchia ristretta del Cavaliere più d’uno ha cominciato a sospettare che «Maroni ha intenzione di fare nel 2011 quello che Di Pietro fece a cominciare dal febbraio del 1992». Con l’unica differenza, che non è di poco conto, «che mentre il primo era un magistrato, il secondo è un politico di professione». Ovviamente, definire il paragone “forzato” è un eufemismo. Ma una cosa è certa: la Lega che ha in mente il titolare del Viminale è un partito, come lui stesso va ripetendo da settimane, «legalitario, nemico della casta». Un partito, insomma, «che dovrà farsi carico di disarcionare il Cavaliere da Palazzo Chigi».

Marco Milanese

L’impresa è impossibile? Oppure, come sostiene lo spin-doctor dell’Udc Roberto Rao, «con il voto su Papa è cominciato il regicidio?». Nel fare il punto coi fedelissimi all’indomani del mercoledì nero di Berlusconi, Pier Luigi Bersani ha usato parole chiare. «Ieri (mercoledì, ndr) sono successe due cose. La prima è che s’è rotto il vincolo di maggioranza tra Pdl e Lega. La seconda è che nel Carroccio è iniziato davvero il dopo-Bossi». Però, ha ammonito il segretario democratico, «stiamo bene attenti a quello che succede. La nostra linea era e rimane quella di chiedere le elezioni anticipate. Visto che sta succedendo quello che avevamo pronosticato, e cioè che la maggioranza si sarebbe sfarinata, non mi pare proprio il caso di uscire noi dai blocchi evocando governicchi e governissimi…».
Oltre i puntini di sospensione del ragionamento bersaniano c’è la consapevolezza che Maroni, in realtà, ha due strade davanti a sé. La prima è quella di presentarsi come interlocutore privilegiato di un’opposizione che – seppur divisa sulle strategie del post – aspetta «l’incidente». La seconda è quella di affiancare chi, dentro il Pdl (Alfano?), potrebbe anticipare a dopo l’estate la riflessione su una possibile successione al Cavaliere. Il ministro dell’Interno dice che «il voto su Papa non avrà ripercussioni sul governo». Tra i bossiani doc del cerchio magico, usciti indeboliti dal mercoledì nero, c’è chi malignamente gli augura «un futuro prossimo alla Fini». D’altronde, al pari della versione 2010 del presidente della Camera, «anche Maroni può scegliere da che parte della barricata stare».
Fuori dai confini della maggioranza, intanto, c’è un Pd che trattiene il fiato. Il salvacondotto offerto da Palazzo Madama al senatore Tedesco

Saverio Romano

apre l’ennesima questione interna. E il fronte di chi aveva puntanto l’indice su Nicola Latorre, che aveva “procato” l’anticipo del voto sull’arresto e non ha preso parte alla votazione («Errore tecnico», dice lui), si allarga a dismisura. Da Enrico Letta a Rosy Bindi, da Arturo Parisi a Walter Veltroni, passando per Ignazio Marino. Fino a Bersani e Franceschini che, pur rimanendo lontani dalla mischia, non avrebbero apprezzato poi tanto «com’è stata gestita la vicenda». Segno che partirà un pressing per convincere Tedesco a lasciare il Senato?

Written by tommasolabate

22 luglio 2011 at 12:36

Rissa di governo a Vinitaly. La rossa Brambilla fa infuriare Romano e poi brinda a Coca-Cola

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 aprile 2011)

Doveva essere la “vera” cerimonia di battesimo di Saverio Romano da ministro dell’Agricoltura. A Verona, nella cornice di Vinitaly, la tradizionale esposizione fieristica del vino che la città scaligera ospita da oltre quarant’anni. Un giretto con l’abito blu tra gli stand, strette di mano coi viticoltori noti e meno noti, più un bel protocollo d’intesa da sottoscrivere col ministero del Turismo. Il comunicato stampa, come in ogni grande occasione che si rispetta, era stato servito alle agenzie sabato mattina, poco prima dell’evento. «Il ministro dell’Agricoltura Saverio Romano e quello del turismo Michela Vittoria Brambilla firmeranno al Vinitaly di Verona un protocollo di intesa per la promozione del turismo enogastronomico», e via dicendo.
Michela BrambillaA rovinare il battesimo di Romano, trasformando la festa in una mezza crisi di governo, ci ha pensato la sua collega di esecutivo, la Brambilla. L’appuntamento per la firma del protocollo davanti ai cronisti è per le 11,45 di sabato. Il titolare dell’Agricoltura si presenta in anticipo e rifiuta di rilasciare dichiarazioni. «Aspettiamo Michela», è il senso del suo gentile rifiuto opposto ai cronisti. E invece non solo «Michela» si presenta in netto ritardo. Ma, in barba al cerimoniale, si mette a rilasciare interviste a tutte le tv che gli capitano a tiro. Romano, stando alla ricostruzione del dorso veneto del Corsera, si arrabbia di brutto. E dietro le quinte scoppia persino una rissa tra gli uffici stampa dei due dicasteri.
E visto che al peggio non c’è mai fine, come si presenta poi la Brambilla all’appuntamento con la conferenza stampa del protocollo d’intesa sui vini? Semplice, sorseggiando una Coca-Cola. Ch’è un po’ come farsi vedere con una bistecca ai ferri al convegno nazionale dei vegetariani. Peccato che sia finito così, l’evento del “responsabile” Romano con l’azzurra Brambilla. Bastava che bevessero «responsabilmente». Hanno finito per litigare.

Written by tommasolabate

12 aprile 2011 at 13:10

Pubblicato su Articoli, Cantagiro

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