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Dal prato di Pontida al modello Beirut. Maroni prepara il congresso contro il “cerchio magico”

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 24 giugno 2011)

La guerra nella Lega tra i maroniani e il «cerchio magico» sembra arrivata all’alba dello scontro finale. Quando gli leggono la dichiarazione che Bossi rilascia nel pomeriggio («Maroni non è contento della conferma di Reguzzoni? Peggio per lui»), il titolare del Viminale si sfoga coi suoi: «Io non ce l’ho con Bossi. Ce l’ho con questi, che stanno trascinando Umberto e la Lega in un burrone. Ora basta».
I margini per ricomporre la frattura, ormai, sono ridotti all’osso. In meno di una settimana, infatti, il Carroccio passa dal prato verde di Pontida a un “modello Beirut” fatto di imboscate e agguati. Domenica la scena e gli striscioni per il tandem Bossi e Maroni, che molti scambiano per un passaggio di testimone. Lunedì il tentato blitz di Rosi Mauro, che chiede a Bossi di commissariare il maroniano Giorgetti alla guida del partito lombardo, a cui il titolare del Viminale risponde minacciando le dimissioni dal partito. Quindi quaratott’ore di puro imbarazzo nell’Aula di Montecitorio in cui il governo – che arriva a dare parere favorevole a un ordine del giorno del Pd – trasforma in carta straccia la boutade sul trasferimento dei ministeri al Nord. Per finire alla riconferma di Marco Reguzzoni alla presidenza del gruppo di Montecitorio, grazie all’ordine con cui un Capo passa sopra a ben 46 firme di altrettanti deputati, dando ragione ad altri 13. Un dramma che si trasforma in farsa, o viceversa, quando nell’assemblea di gruppo del Carroccio i deputati Giovanni Fava e Giacomo Chiappori arrivano praticamente alle mani, costringendo il resto della ciurma a sedare una rissa che stava per trasformare una stanzetta di Montecitorio in un saloon del Far West.
Mercoledì sera, quando fa il punto della giornata coi suoi più stretti collaboratori, Maroni si dice «non soddisfatto» della riconferma di Reguzzoni. «Comunque», ripete, «non sarò certo io a tagliare la faccia a Bossi». Nella sua cerchia, qualcuno scommette: «Bobo, vedrai che domani (ieri, ndr) questi del cerchio magico faranno di tutto per convincere Bossi ad attaccarti».
Scommessa vinta. Ieri pomeriggio, quando i cronisti di alcune agenzie e del Tg3 lo intercettano all’uscita dalla Camera, il Senatur non si sottrae. Maroni non è contento della riconferma del capogruppo? «Peggio per lui», spiega il leader. E ancora: «È la base che tiene sotto controllo la situazione nella Lega, non Maroni». E le liti all’interno del gruppo parlamentare? «Dove ci sono io non ci sono liti».
Quando i lanci d’agenzia con le dichiarazioni dell’Umberto finiscono sotto i suoi occhi, il titolare del Viminale sbotta: «Io non ce l’ho con Bossi. Ce l’ho con questi qua», dice evocando la truppa del “cerchio magico”. Tra i suoi colonnelli sparsi sul territorio, c’è chi è sicuro di poter ricostruire la dinamica delle ultime ore: «Reguzzoni, Bricolo e Rosi Mauro», dicono, «hanno parlato con Manuela Marrone (moglie di Bossi, ndr) e col figlio Renzo». E i familiari, stando alla ricostruzione, avrebbero fatto pressing sull’Umberto perché scagliasse l’ultima pietra sull’ala maroniana.
Il ministro dell’Interno, chiuso nel suo ufficio al Viminale, confessa alla sua cerchia ristretta «che la misura è colma». Parla con Roberto Calderoli e con Giancarlo Giorgetti, con cui concorda sulla necessità di incontrare a stretto giro il Senatur «per convincerlo a ragionare». Altrimenti, è il sottotesto, si va alla conta. Dove per conta, spiega a microfoni spenti un autorevole colonnello maroniano sul territorio, «s’intende un congresso. Noi contro loro. Maroni contro il Trota. E vediamo chi vince».
Nella Lega il congresso federale è un appuntamento che manca da nove anni. L’ultimo è stato ad Assago, nel marzo del 2002. Prima di quella data, tra assise ordinarie e straordinarie, ne erano stati celebrati ben otto in soli dieci anni. L’autorevole fonte maroniana insiste: «Prima andavamo al ritmo di quasi un congresso federale all’anno. Dopodiché ce n’è stato uno in undici anni. Tra l’altro, da quando è venuta fuori la corrente di Reguzzoni, dobbiamo avere anche paura di esprimere liberalmente le nostre idee. Adesso basta, è arrivato anche per noi il momento di riprendere confidenza con la democrazia. Altrimenti…».
Oltre i puntini di sospensione del fedelissimo del ministro dell’Interno, c’è la paura di quel «baratro» che Maroni e Calderoli condividono al punto di aver (quasi) chiuso le ostilità tra loro. Senza dimenticare l’incubo, che il sindaco di Verona Flavio Tosi ha messo nero su bianco in un’intervista rilasciata al Giornale la settimana scorsa, che il possibile tracollo di Berlusconi e del berlusconismo trascini il Carroccio in un burrone dal quale sarà impossibile rialzarsi. Maroni, i maroniani e la base da una parte. Renzo Bossi, Manuela Marrone e il cerchio magico del tridente Reguzzoni-Bricolo-Mauro dall’altra. A meno di colpi di scena, la conta finale partirà a breve. Magari sarà un testa a testa tra «Bobo» e «Trota». Magari il punto di discrimine sarà correre da soli alle prossime elezioni (linea Maroni) o rimanere ancorati al Pdl (cerchio magico). L’unica certezza riguarda la guerra. Arrivata all’alba dell’atto finale.

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Written by tommasolabate

24 giugno 2011 at 12:07

Roberto Maroni, l’outsider.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 giugno 2011)

Che stia lavorando per essere «l’uomo di domani» lo dimostra l’attenzione che sta dedicando – unico tra i politici – al più grande tema di cui si discute nei bar italiani: il calcioscommesse. E pensare che qualche mese fa, come aveva confidato a pochi amici, stava addirittura pensando di mollare la politica. Ladies and gentlemen, Roberto Maroni. L’outsider.
Sembra l’unico esponente del centrodestra ad essere uscito rivitalizzato dalle «mazzate» subite dal blocco Pdl-Lega alle amministrative e ai referendum. Un po’ perché, come spiegano nel suo giro a via Bellerio, «se gli avessero dato ascolto, quantomeno sui quesiti di domenica e lunedì, a quest’ora Bossi e compagnia avrebbero salvato il salvabile». Un po’ perché lui, comunque, per il solo fatto di essersi presentato alle urne – accompagnato dai big della sua corrente (Luca Zaia su tutti) – la faccia l’ha salvata. Eccome.
Bobo Maroni, insomma, è il leghista con le mani più vicine alla “spina” del governo. Nel senso che è vero, forse la sua parte in commedia è la più rischiosa. Ma è altrettanto vero che se c’è un uomo che può salvare l’Alberto da Giussano dall’abbraccio mortale del Cavaliere da Arcore, quell’uomo è lui. Non foss’altro perché – e le stime sulla partecipazione dell’elettorato del Carroccio ai referendum ne sono una prova – al momento è il big del partito più sintonizzato con la base leghista.
Eppure, poco prima che iniziasse la campagna elettorale delle amministrative, il titolare del Viminale aveva altri pensieri. Addirittura, aveva confidato agli amici più stretti parlando del «carrozzone» del governo «Berlusconi-Scilipoti», tra i suoi desiderata aveva fatto capolino l’idea di «mollare la politica». Forse per tornare «a fare l’avvocato», magari «per riprendere in mano l’organo Hammond» insieme al suo vecchio gruppo blues, il Distretto 51.
Oggi, invece, è tutto diverso. L’uno-due subìto dal centrodestra nell’ultimo mese ha dimostrato che i tiri di sciabola o fioretto che il titolare del Viminale aveva via via indirizzato al governo erano più che fondati. I guai giudiziari di Berlusconi? I cordoni della borsa tenuti sigillati da Tremonti? L’ascesa nella Lega del «cerchio magico» di bossiani ortodossi, per cui nutre – insieme anche a Roberto Calderoli – una sana (eufemismo) “antipatia”? «Se solo Bossi m’avesse dato retta… », ripete ai colleghi di partito. Inutile chiedergli di completare la frase, di portarlo allo scontro frontale col Capo. Perché lui, il ministro dell’Interno, puntualmente si ritrae: «Vabbe’, guardiamo al futuro. Lasciamo perdere».

Umberto Bossi

Sulla bussola di governo no, Maroni non lascia più perdere. E gli avvisi di sfratto recapitati negli ultimi giorni a Berlusconi e Tremonti la dicono tutta su quanto vorebbe staccarla, quella spina che ha tra le mani. «O si cambia o si muore», ha detto al Corriere della sera di lunedì. «Mia nonna diceva che uno sberlone fa male, ma a volte ti fa rinsavire. Ma, come diceva ieri Calderoli, non vogliamo che arrivi la sberla del non c’è due senza tre», ha ribadito ieri. E ancora: «C’è la crisi economica. E ci vuole coraggio, oltre alla prudenza. Spero davvero che si metta mano alla categoria del coraggio». Quando gli domandano se dopo i referendum ha parlato con Berlusconi, il ministro dell’Interno risponde: «No, col premier no. Ho parlato col mio amico Daniele Marantelli, però». Lo stesso Marantelli, deputato e deus ex machina del Pd di Varese, che scommette: «Maroni può fare tutto tranne una cosa. Non taglierà mai la faccia a Bossi. Piuttosto torna a fare il musicista…».
Morale della favola? Nel Carroccio che prepara con trepidazione l’appuntamento di domenica a Pontida, sperimentando addirittura la paura della contestazione del «popolo padano», Maroni incarna la «linea dura». Quella della «rottura». Della «svolta». Della liberazione, come dicono i suoi, da «questo berlusconismo».
Perché, in fondo, sono anche gli scherzi della storia. All’epoca del ribaltone del 1994, Maroni era il capofila dei leghisti che non volevano abbandonare il Cavaliere. «O rimaniamo con Berlusconi o si va a votare», sosteneva «Bobo» al quel tempo. Al contrario dell’«Umberto», che aveva siglato nella sua residenza romana, insieme a Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, quel «patto delle sardine» che avrebbe portato alla fine del primo governo di Silvio.
Era l’epoca della «fronda» maroniana dei leghisti pro-Berlusconi. Uno dei suoi fedelissimi di allora, il vicepresidente del Senato Marcello Staglieno, aveva addirittura avanzato l’idea del “regicidio”: «Convochiamo l’assemblea federale per togliere Bossi e fare segretario Maroni». Una provocazione a cui il Senatur aveva risposto con l’asprezza dei bei (si fa per dire) tempi: «Me ne frego di Staglieno, la fronda non esiste. Al momento del voto sulla mozione di sfiducia – aveva scandito l’Umberto simulando il mitra – op! pum!. Tutti voteranno come dico io, da Maroni in giù».
Oggi la storia viaggia sul binario contrario. Bossi pensa che «Berlusconi sia cotto» e Maroni è il capofila degli antiberlusconiani della Lega. Aspettando Pontida si può immaginare di tutto. Compreso che il titolare del Viminale diventi il premier dell’unico governo di mini-transizione su cui Bersani potrebbe schierare i suoi. Il tempo di fare la riforma elettorale, magari approvando un modello che consenta alla Lega di andare da sola al prossimo giro, e via. Può succedere a giugno. Oppure dopo l’estate. Chi conosce «Bobo» giura che lui guarda lontano. Oltre il berlusconismo. Senza dimenticare che la politica si fa coi voti, e che a votare ci fa la gente. Quella che si mette in fila per i referendum. E quella che trattiene il fiato sul calcioscommesse. Pensando la stessa cosa che Maroni, unico tra i politici, ripete in continuazione: «Il mondo del calcio? Si vede che non ha imparato la lezione». Un po’ come Berlusconi.

Written by tommasolabate

15 giugno 2011 at 11:27

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