Archive for the ‘Ritratti’ Category
Tra pitoni e Nobel mancati. Who’s who del rimpasto
di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 maggio 2011)
Antonio Gentile, parlamentare calabrese del Pdl, è l’uomo che nel settembre 2002 propose Silvio Berlusconi per il Nobel per la pace. Per «il forte ruolo svolto a favore dell’ingresso della Russia nella Nato; per la cancellazione dei crediti che l’Italia vantava verso alcuni Paesi poveri; per aver interpretato la sua funzione istituzionale come un percorso limpido e coerente di mediazione dei conflitti internazionali; perché ha restituito all’Italia una vocazione diplomatica dispersa», disse all’epoca Gentile esaltando il Cavaliere.
Bruno Cesario, ex rutelliano campano passato coi Responsabili, ha fatto di più. Nel 2008, camminando per una via di San Giorgio a Cremano (provincia di Napoli), s’accorse che un pitone di tre metri e mezzo aveva appena assaltato un’automobile, provocando la fuga del conducente. E intervenne, coraggiosamente, frapponendosi tra il mastodontico rettile e l’autovettura e agevolando quindi l’intervento delle forze dell’ordine.
E visto che Gentile e Cesario sono andati entrambi a fare i sottosegretari al ministero dell’Economia,
si può ragionevolmente sostenere che i “pezzi pregiati” del rimpasto se li è accaparrati Giulio Tremonti.
Nove nomine, arrivate ieri a chiudere quel cerchio che s’era aperto il 14 dicembre con quel voto di fiducia che aveva consentito al Cavaliere di passare indenne attraverso le forche caudine di Montecitorio. Ma «ne faremo altre dieci», aggiunge il presidente del Consiglio per placare l’ira funesta di chi è rimasto lontano dall’agognato posto al sole.
Alla lotteria del rimpasto vengono premiati – oltre a Gentile e Cesario – gli ex finiani Roberto Rosso (Agricoltura), Luca Bellotti (sosia dell’allenatore Luciano Spalletti e centravanti della nazionale Parlamentari, al Welfare) e Catia Polidori (Sviluppo economico). Aurelio Misiti, eletto nelle liste dell’Italia dei valori, va alle Infrastrutture, l’ex pd Riccardo Villari ai Beni culturali, mentre la liberaldemocratica Daniela Melchiorre s’accasa – come la Polidori – al ministero guidato da Paolo Romani. Completa il quadro l’ex centrista (transitato da Fli) Giampiero Catone, da ieri sottosegretario all’Ambiente. Il più lesto a rivendicare che «ho parlato direttamente con Berlusconi delle mie competenze, spiegandogli che avrebbe potuto usarle nei tempi e nei modi per lui più opportuni». Un modo come un altro per precisare che «in questa storia ho fatto riferimento al premier, e solo a lui».
Caso chiuso? Tutt’altro. Nella war room dei Responsabili d’ogni credo i malumori si sprecano. Pino Galati, esponente di punta dei Cristiano popolari guidati da Mario Baccini, nonché marito della leghista Carolina Lussana (i testimoni di nozze furono Bossi&Casini), ha dato voce alla sua rabbia. «Prendiamo atto che gli impegni assunti dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non sono stati mantenuti», ha messo nero su bianco in una nota vergata a quattro mani (le altre due sono quelle di Baccini). Ma il vero ispiratore del comunicato al vetriolo – e qui arrivano i primi guai per il premier – sarebbe Claudio Scajola. L’ex ministro dello Sviluppo economico, che ha Galati sotto la sua ala protettiva, ieri è uscito dall’inchiesta relativa agli appalti sui Grandi eventi. «Mi sono sempre proclamato totalmente estraneo a questa vicenda: la chiusura dell’inchiesta lo conferma in modo ufficiale e definitivo», ha scandito. Che cosa c’entra col rimpasto? Semplice. Con un peso (giudiziario) in meno sul groppone, l’ex ministro ligure tornerà alla carica sul partito. «E il segnale che ha ricevuto da Berlusconi con la “bocciatura” di Galati non è certo un bell’inizio», commentano nella sua cerchia ristretta.
Difficile circoscrivere l’area del disagio “responsabile”. Nel gruppetto di Noi Sud, dove la guerra fratricida per una poltrona tra Elio Belcastro e Antonio Milo s’è conclusa 0-0 (bocciati entrambi), c’è il sospetto che “il padre nobile” Enzo Scotti adesso punti al ministero delle Politiche comunitarie. E furibondo è anche Francesco Pionati, che al Riformista dice: «Tanto questi durano poco». Massimo Calearo, invece, andrà a fare il consigliere del premier per il commercio estero. Al contrario dell’ex finiana Maria Grazia Siliquini, che dopo il giro sulle montagne russe, si ritrova a fare la regina delle occasioni sprecate. Niente posto alle Poste (ha rifiutato), niente posto al governo. Con grande gioia dei suoi ex colleghi finiani, che nel giorno dell’ultimo botta e risposta tra «Silvio» e «Gianfranco» («Il premier è ossessionato da me, merita compassione», dice il presidente della Camera) trovano finalmente qualcosa di cui sparlare.
Alle radici (calabresi) Leon Panetta, nuovo numero uno del Pentagono.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 gennaio 2009)
Siderno, provincia di Reggio Calabria. «Dirò solo che Siderno è posta in un sito molto ameno, che i suoi territori sono ubertosi. Il paese è fornito di belli e decenti edifizi. Il commercio vi è florido. Gli abitanti ascendono al numero di circa quattromila cinquecento, nella maggior parte addetti alla coltura ed alla pastorizia. Fin dai tempi del P. Fiore, Siderno aveva fama di paese incivilito, poiché l’illustratore della Calabria la chiama terra civilissima. Debbo dunque supporre che al presente la civiltà siavi in progresso». (Niccola Falcone, in Biblioteca storica topografica delle Calabrie, 1846).
Gerace, provincia di Reggio Calabria. «Piena di palazzi bellamente situati, posta su uno stretto margine di roccia. (…) Meravigliati da tanti panorami che si presentano da ogni lato; ogni roccia, santuario o palazzo a Gerace sembravano essere sistemati e colorati apposta per gli artisti…». (Edward Lear, in Diario di un viaggio a piedi, 1847).
Panetta Carmelo e il fratello Domenico, da Gerace, furono costretti ad abbandonarli, i panorami, le rocce, i santuari e i palazzi che avevano lasciato di sasso persino lo scrittore londinese Edward Lear. Forse lì non era cosa, sicuro di quelli non si campava. Panetta Carmelo aveva preso in moglie Prochilo Carmela, che come tutte le Carmele era detta «Carmelina» e quindi «Melina», da Siderno. Anche Domenico era maritato.
Partirono lo stesso, però. Prima per il mare sidernese. Poi per l’America, che però non era l’America degli altri, dei tanti, dei più. Non era l’America di New York, anche se la quarantena con vista sul fiume Hudson, a Ellis Island, rimaneva una tappa forzata.Per i Panetta bros. fu come una piccola conquista del West, visto che quella fu la direzione che decisero di prendere.
La fame. Il lavoro. La nostalgia. Come da copione. Domenico non ce la fece, gli mancava troppo la moglie, dissero. Carmelo no. Carmelo la portò con sé, la moglie. Tra l’altro Monterey, duecento chilometri a sud di San Francisco, non era troppo più grande dell’incivilita Siderno e lì c’era pure il mare. Lavorava nelle piantagioni di arachidi, la famiglia Panetta trapiantata in California. Anche se per quelli rimasti in Calabria, molto più semplicemente, «facevano noccioline americane». Il piccolo Leon vide la luce addì 28 giugno 1938. Avrebbe fatto strada, tanta. Senza rinunciare al dialetto dei padri. E sognando sempre le vacanze di Calabria. Panetta Leon, negli anni Cinquanta, era fanciullo sveglio ma dispettoso. Così lo ricordano i cugini, che se lo ritrovavano d’estate nella sempre più incivilita Siderno. Nel frattempo lo zio Carmelo, che faceva noccioline americane, era salito di grado, diventando per i nipotini «lo zio ricco d’America», non foss’altro perché era solito regalare biglietti da un dollaro. Oggi che è passato mezzo secolo, oggi che Leon è stato nominato da Barack Obama alla guida della Cia, la Riviera – settimanale locale che ha la redazione a Siderno – gli ha dedicato una paginata. Col più scontato degli occhielli, «Grandi calabresi», e il più ovvio dei titoli: «Mio cugino Leon».
Panetta Leon, nei campi di noccioline americane, avrebbe costruito la sua tempra da «duro». Scuole cattoliche, a Monterey. E la passione per la politica, coltivata sin dal liceo. Poco italiano, come molti di cui ha condiviso la sorte di figlio di immigrati. American english fuori e dialetto calabrese a casa. Per l’università si sposta a Santa Clara, scienze politiche prima, giusprudenza poi. Le userà entrambe, le lauree. Nel 1964 entra nell’esercito come sottotenente; due anni dopo è già decorato, ha i galloni di tenente e si congeda. Per tornare a seguire la sua stella polare.
La politica. Panetta Leon si affianca ai repubblicani. Nel 1966 comincia come consulente legislativo del senatore californiano Thomas Kuchel. Nel ’69 viene scelto da un cavallo di razza, Robert H. Finh, «ministro del welfare» dell’amministrazione Nixon. La promozione, guadagnata sul campo, arriva con la nomina a direttore dell’ufficio Diritti civili della Casa Bianca. Ma con essa si materializzano i primi nemici. Per il suo impegno a favore di politiche che qui diremmo «di sinistra», Panetta entra nel mirino dei falchi nixoniani. Il pressing per silurarlo è asfissiante. Leon prima resiste, poi lascia. Torna a Monterey per fare l’avvocato. La spensieratezza delle vacanze sidernesi è ormai lontana. Panetta Leon entra nel Partito democratico che è il 1971, o giù di lì. La marcia di avvicinamento alla Casa Bianca durerà più di vent’anni. Fino al 17 luglio del 1994, giorno in cui il William Jefferson Clinton detto «Bill», quarantaduesimo presidente della Stati Uniti d’America, lo nomina capo di gabinetto della Casa Bianca. Come era stato per i diritti civili, anche Clinton diventa per Panetta una causa da servire. E quando scoppia il caso Lewinsky, il numero uno dello staff clintoniano torna in trincea. Il «nemico», in questo caso, è il procuratore speciale Kenneth Starr che carica sul presidente ben undici capi di accusa: cinque per reati di spergiuro, cinque per ostruzione della giustizia e uno per infrazione dei suoi doveri costituzionali.
Panetta Leon, tempra da calabrese, si presenta alla Cnn. E di fronte alle domande di Larry King, sotto gli occhi del paese intero, scandisce: «La diffusione del rapporto Starr, con tutti quei dettagli osceni, non mi era sembrata necessaria». Di più, «diffondere quella roba non è corretto né dal punto di vista legale né da quello morale». Ancora di più, «io credo che il Congresso dovrebbe sempre e comunque mettere in primo piano gli interessi della nazione. Questa volta non l’ha fatto». Nel rapporto Starr, anche Panetta è citato più volte. «La Lewinsky nel tuo ufficio, la Lewinsky davanti alla porta del tuo ufficio… Come hai reagito?», lo incalza Larry King. E Panetta: «La mia prima reazione è stata di salirmene in camera a mettere la testa sotto il cuscino. Quando si leggono queste cose, Larry, è terribile, vergognoso, indifendibile. È stato un colpo scoprire che il presidente andava facendo queste cose, prendendo questi rischi, mentre eravamo tutti impegnatissimi in questioni fondamentali. Stavamo trattando l’accordo coi repubblicani sul bilancio, preparando la campagna elettorale. E intanto succedeva tutto questo…». Leon sente che la sua fiducia è stata tradita. Ma la causa, «Clinton», viene prima di tutto il resto. «Bill è rimasto solo ma non si arrenderà», avrebbe scommesso un anno dopo Panetta. Scommessa vinta. Siderno è lontana. Il suo ricordo no.
Panetta Leon non dimentica il dialetto, né la gente delle sue origini (tra l’altro, narra la leggenda, a una delegazione di cittadini sidernesi capitò di essere ricevuta in pompa magna alla Casa Bianca). Lascia Washington, fonda con la moglie il Leon&Sylvia Panetta Institute for public policy e continua a tessere la sua trama. Da Bill a Hillary, clintoniano tra i clintoniani. Nel 2006 entra nella commissione Baker, il gruppo di studio nato per togliere gli Usa dal pantano iracheno. Quindi due anni e mezzo di oblio. Nell’ombra. Fino alla nomina a capo della Cia. «Grandi calabresi». «Mio cugino Leon».
Post scriptum. Nella hall of fame dell’incivilita Siderno c’è un altro Panetta. Francesco, atleta. Negli anni Ottanta veniva considerato uno dei massimi interpreti mondiali dei tremila siepi. In una calda notte del settembre ’88, la cittadinanza di Siderno puntò la sveglia alle 4 del mattino per assistere alla gara del suo Panetta alle Olimpiadi di Seul. Francesco, che viveva da tempo a Milano, fece la lepre. Duemila metri praticamente in testa. Poi il crollo. Nono. Lontano dal podio. Francesco, che era stato oro ai mondiali del 1987, corre davanti e arriva in fondo. Al contrario dell’omonimo Leon, che sta nell’ombra e finisce avanti. Ma l’importanza di chiamarsi «Panetta» e di esser riusciti a dar lustro alla terra d’origine è solo un caso. «Francesco» e «Leon» non sono parenti. Neanche alla lontana.
Dan Peterson, carezza di ferro in giacca di cammello.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 9 gennaio 2011)
«Sergent Slaughter è sulla schiena di Hulk Hogan!». Pausa. «Oooohhh! Le (incomprensibile, ndr) di Hulk Hogan sono già danneggiati». Urla. «Hulk Hogan è ko, e Hulk Hogan aspetta, s’è fatto un riposo, poteva controbattere in qualsiasi istante. Oooohhh!». I flash delle macchine fotografiche impazziscono. «Hulk Hogan si vede che sta sanguinando, Hulk Hogan… Non vi fate impressionare dal sangue eh? Ecco la fine, eccoci qua. Hulk Hogan non credo che possa sopravvivere a questo. Hulk Hogan scuote la testa e alza, impazzito il pubblico, alza Sergent Slaughter in aria. Grande mossa di Hulk Hogan ma vale poco».
È una domenica mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi del 1991. La televisione qualsiasi è sintonizzata su Italia 1, il bimbo qualsiasi si dimena sul divano qualsiasi, il papà qualsiasi sta facendo la barba, la mamma qualsiasi intima al bimbo qualsiasi di cambiare immediatamente canale ché quello non è un programma «per bambini». Ci pensa la voce che arriva dalla tv a rasserenare la domenica mattina qualsiasi della famiglia qualsiasi. «Bambini, non ripetete queste cose a casa, eh?». Ma non è una voce qualsiasi. È «un marchio di fabbrica», un italiano sapientemente mescolato con lo slang americano. Sullo schermo spunta una bandiera dell’Iraq, lo «sfregio» che i produttori degli Eroi del wrestling – nel bel mezzo della guerra del Golfo tra Usa e Saddam – hanno immaginato tra le mani del fanatico Sergent Slaughter. Tutto il resto sarebbe noia, come l’ultimo round tra l’italoyankee Rocky Balboa e il sovietico Ivan Drago di Rocky IV. Se non fosse per Dan Peterson. Che usa il microfono come von Karajan usava la bacchetta. E quasi “dirige” la riscossa di Hulk Hogan: «Hulk Hogan reagisce. Strappa bandiera dell’Iraq. No, no, no, amico mio. La grande reazione, la carica. Hulk Hogan dice: “Mi hai fatto tagli sulla testa ma io non ti credo”. Calcio in faccia. Uno, due , treeeee! Hulk Hogan vince. Ed è nuovamente coperto di sangue ma campione assoluto. Mai stato uno come Hulk Hogan. Non ci sono parole: immortale, mitico, fenomenale supercampione».
DUE LAUREE, UN SOLDO. Prima di diventare una leggenda per italiani qualsiasi che s’appassionavano agli sport americani avuti in dono dal Biscione berlusoniano, Dan Lowell Peterson era stato un allenatore di pallacanestro. Il cognome lo deve a un antenato norvegese che all’anagrafe faceva «Pedersen», arrivato chissà come nel Wisconsin per fare il taglialegna. Un secolo e mezzo prima che, nel 1936, il pronipote Dan nascesse, in un piccolo paesino dell’Illinois. Mamma fa la designer di moda e la maestra elementare, papà è un poliziotto, il nonno aveva tirato di boxe. Gioca bene a baseball ma sceglie la via del basket. Anche se lo sport preferito, strano ma vero, sono i libri. Quelli che gli consentono di mettere in bacheca due lauree: una in letteratura e arte, l’altra in psicologia. Per campare nell’America dei primi anni Sessanta, il venticinquenne Dan suona la chitarra al Club Jubilee di Chicago. Lo pagano 25 dollari a sera. Nel frattempo, arrotonda sulle panchine delle squadre di college. Fino a quando, approdato a Delaware, diventa un’istituzione del basket a stelle e strisce che rappresenta l’anticamera (lunga) dell’Nba. Salvo poi decidere, nel 1971, di fare un biglietto di sola andata. Per Santiago del Cile.
I SOSPETTI SULLA CIA. Quando nel 1973 sbarca in Italia, alla Virtus Bologna, sono tutti convinti di trovarsi di fronte a una spia della Cia. Il coach statunitense che allena la nazionale di basket di Allende salvo poi emigrare un secondo prima che Pinochet prenda il potere. A più d’uno i conti non tornano. Dan non si cura di loro ma guarda e passa. A Bologna vince la Coppa Italia (1974) e uno scudetto (1976). Poi va all’Olimpia Milano, che l’ha richiamato pochi giorni fa. Quattro scudetti (1982, 1985, 1986, 1987) , due coppe Italia (1986, 1987), una Korac (1985) e infine la Coppa dei Campioni (1987). C’è un frame che fotografa l’ingresso di Peterson nella leggenda. 1982, finale scudetto contro Pesaro, Milano è sotto di cinque punti. Il coach chiama a sé il Mike D’Antoni e gli fa: «Vuoi che proviamo la difesa a 1-3-1?». «Quanto tempo abbiamo?», chiede Mike. «Tre minuti», Dan. «No, ce la facciamo con la difesa a uomo», sentenzia la “colonna” delle scarpette rosse. Il coach, carezza di ferro in giacca di cammello, lo ascolta. Mike lo ripaga con il canestro decisivo. E il tricolore prende la via della bacheca dell’Olimpia.
«VIENI AL MILAN?». Fosse rimasto un “semplice” (virgolette d’obbligo) allenatore di pallacanestro, probabilmente oggi Dan Peterson sarebbe a scaldare qualche panchina ai giardinetti. O, nella migliore delle ipotesi, bazzicherebbe i tavolini di qualche bar, deliziando i compari di tressette con qualche «sapete quella volta che D’Antoni…», oppure con un più semplice «vi racconto di quando Bob McAdoo…». Nel 1987, quando gli scade il contratto con l’Olimpia, il telefono di Dan squilla. Dall’altra parte del filo c’è Silvio Berlusconi. L’offerta è chiara. Che più chiara non si può. «Perché non vieni al Milan?». Peterson, ovviamente, trasecola. «Io faccio pallacanestro». Ma il Cavaliere, che ha il problema di gestire una squadra appena comprata ed ha esonerato Nils Liedholm, insiste. Niente da fare, Peterson declina dando involotariamente il «la» all’inizio dell’era Sacchi. Ancora oggi, a distanza di vent’anni e passa, ogni volta che incrocia Galliani, l’«amico Adriano» ritorna su quella scelta: «Dan, quella squadra avrebbe vinto anche con te in panchina».
ALLA CORTE DI RE SILVIO. Peterson decide comunque di entrare in una squadra berlusconiana. Ma non è il Milan. La Fininvest, per cui già commenta le partite del basket americano, gli offre il bastone del comando del palinsesto sportivo. Dan accetta. E così, il 3 settembre del 1987, eccolo nella mastodontica conferenza stampa in cui il Biscione lancia il guanto della sfida allo strapotere televisivo della Rai. Al suo fianco ci sono numerosi testimonial d’eccezione: dal pugile Damiani al cestista McAdoo, passando per gli eroi del wrestling Iron Sheik e “Hacksaw” Jim Dugan. Berlusconi annuncia: «Con le nostre 650 ore di sport, combatteremo le dirette di viale Mazzini». È la svolta a «stelle e strisce» che tanta fortuna porterà al Cavaliere. Grazie ai due americani di Cologno Monzese: Mike Bongiorno ai quiz, Dan Peterson allo sport. E «mamma butta la pasta».
LA PASTA E IL GANCIO. Dalla seconda metà degli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta, Peterson è un pezzo dell’Italia da bere. È un amaro Ramazzotti dietro le mille luci di Milano, è una birra Tuborg che si rovescia al passare di due cosce lunghe, è una Coca cola bevuta in coro attorno a mille candele natalizie, una Ypsilon 10 che piace alla gente che piace, una Scavolini amata dagli italiani e un vespista che mangia le mele, un fornetto DeLonghi che «si pulisce da solo» e un dado Knorr che a furia di usarlo ci si «innamora in cucina». E’ tutto questo e anche di più, Peterson. Uno dei «numeri uno» del circo dei sogni, il pezzo inconsapevole di una «baracca» che si fonda sull’incremento del debito pubblico, il «fe-no-me-nale» testimonial del Lipton ice-tea. Il suo slang tiene l’«Italia qualsiasi» attaccata a una (finta) scazzottata di wrestling o a una (verissima) replica della sfida tra i Lakers di Los Angeles e i Celtics di Boston. Sincero fino al midollo, Peterson. «Anche nel mio gergo», dirà in un’intervista alla Gazzetta dello Sport nel giorno del suo settantesimo compleanno, «mi sono ispirato ai grandi commentatori americani. Il mio “mamma butta la basta”, che scandivo quando una partita era già decisa, l’ho preso da “mamma metti il caffè sulla stufa” di un mitico telecronista dei White Sox. Il “gancio cielo”, invece, l’ha inventato un mio amico del liceo che faceva le telecronache dei Milwaukee Bucks ai tempi di Jabbar». Dove c’è Peterson non c’è spazio per la «normalità». Non è un caso, infatti, che il suo ritorno sulla scena come coach dell’Olimpia sia stato salutato da tutti con un’ovazione. Allacciate le cinture. Si sogna ancora un po’. «Bambini, non ripetete queste cose a casa, eh?»
Peter Falk, tenente Colombo. «C’è un’ultima cosa…»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 giugno 2009)
Il tenente Colombo è all’ennesimo faccia a faccia con l’assassino del signor Stuffle, proprietario di una palestra. Ma stavolta è l’ultimo faccia a faccia. L’ultimo dialogo. L’ora della verità. L’assassino, uno dei soci del centro ginnico, resiste: «Fantasia! Immaginazione! Cenere e fumo di sigaro! Lei non ha la prova. Non c’è niente da fare. Non ce l’ha, la prova». E Colombo: «Non mi è stato facile ottenerla ma ho anche quella. Ho anche la prova. Eccola qui, la sua dichiarazione giurata a proposito della conversazione telefonica che lei ha dichiarato di aver fatto col signor Stuffle…».
(Peter Falk e Robert Conrad nella scena finale di Dalle sei alle nove, Il Tenente Colombo, serie IV, episodio I, 1974).
A volere giudicare la faccenda con le categorie di «giusto» e «sbagliato», è tutto profondamente sbagliato. Addirittura atroce. In fondo, è come dare al libro Cuore lo stesso finale di Notte prima degli esami, lasciando che sia Nicolas Vaporidis a interpretare il ruolo di Enrico Bottini. O come guardare il Tg1 economia e scoprire che Zio Paperone è finito ineluttabilmente sul lastrico per bancarotta fraudolenta.
Peter Falk, il Tenente Colombo, non ce la fa più da solo. Non ad intendere, né a volere e manco a vivere. Cinque giorni fa, un giudice della Corte superiore di Los Angeles ha deciso di metterlo sotto tutela della figlia. Oggi ha 81 anni e il morbo d’Alzheimer che lo sta divorando insieme alla demenza senile. Tempo fa, dopo anni di oblio, l’attore è riapparso agli occhi del mondo immortalato mentre, spaesato, vagava senza meta per le vie della città degli Angeli. Prima di ammalarsi, Falk aveva lasciato scritto che fosse la sua ultima moglie, Shera Danese, a occuparsi di lui. Il tribunale californiano, invece, ha accolto l’ingiunzione della figlia adottiva dell’attore, Catherine, contro la consorte del padre: «Mi impedisce di vederlo». Falk incapace di intendere e di volere. La “signora Colombo” sconfitta, addirittura in tribunale. Falk sotto tutela. È la vendetta contro il personaggio che si è consumata sul corpo del suo interprete. Come capitò a “Superman” Reeves.
I bulimici consumatori dei sessantanove episodi del Tenente Colombo – undici serie e otto film speciali, puntata pilota inclusa, primo ciak nel 1968, l’ultimo nel 2003 – se lo sentono dire spesso, soprattutto quando si trovano a parlare di Falk col cinefilo/a di turno, che magari ha pure “fresca” l’ultima ripassata del Morandini. Se lo sentono ripetere spesso che «ah, per me Falk è soprattutto Il cielo sopra Berlino», il film di Wim Wenders in cui l’attore newyorkese interpreta sé stesso, poi scopre di essere stato un angelo che poi finisce per dimettersi dal ruolo di «angelo», rinunciando all’immortalità per rimanere – molto semplicemente (si fa per dire) – a questo mondo. Eppure Falk aveva e avrebbe fatto altro: il boss in Angeli con la pistola, la comparsa in alcune delle pillole per la tivvù del vecchio Hitchcock, per non parlare della commedia giallo-nera Invito a cena con delitto, piattaforma cinematografica del gioco da tavola Cluedo. Ma Falk – che pure è stato uno dei pochissimi attori americani a girare un film in Unione sovietica, «non perché fossi comunista, semplicemente perché ero curioso» – è Colombo. Soprattutto Colombo. Solo Colombo.
Di mamma russa e papà mezzo ungherese mezzo polacco, negli anni Sessanta fa avanti e indietro tra Hollywood e New York, la sua città, dove frequenta Ben Gazzara (che avrebbe interpretato Raffaele Cutolo nel Camorrista di Tornatore) e Sal Mineo. I panni di Colombo gli si materializzano addosso nel 1968, anche perché – così vuole la leggenda – il predestinato Big Crosby aveva rifiutato la parte. La prima serie “ufficiale” inizia che Falk ha già in tasca il contratto per girare Mariti di Cassavetes. Per l’episodio dell’esordio – Un giallo da manuale – dietro la macchina da presa s’accomoda Steven Spielberg. L’impermeabile sarà sempre lo stesso per quasi quarant’anni, come la camicia, i pantaloni, le scarpe e l’automobile, una Peugeot 403 del 59 targata 044 APD. Quindi arriva il sigaro. «Non ricordo – ha raccontato Falk – di chi fu l’idea di portare il tabacco nella serie. Probabilmente fu una mia idea. Io adoro fumare e i sigari, per un detective, fanno più macho rispetto alle sigarette». E poi – ma il protagonista era in disaccordo con la produzione – pure un cane. Macho, Colombo, non lo è nemmeno nell’unghia del mignolo destro. Ha una moglie, che cita in continuazione, a cui chiede consigli, che però non appare mai. Anzi, per essere più precisi, nell’episodio Che fine ha fatto la signora Colombo? (serie IX, episodio IV), il Tenente inscena addirittura la morte dell’adorata consorte, simula il funerale, con tanto di cappellano finto: il tutto per incastrare l’omicida.
La serie è firmata dal mitologico duo Richard Levinson&William Link, gli Age&Scarpelli delle serie tv americane tinte di giallo. Con una macroscopica differenza, che contraddistingue Colombo: l’assassino, infatti, arriva all’inizio. Ancor prima del protagonista, di cui tra l’altro non si sente mai pronunciare il nome di battesimo (nell’episodio intitolato La pistola di madreperla, serie I, c’è un’inquadradura sul documento di
identità del tenente da cui si evince che si chiamava «Frank»). Lo sfizio – e che sfizio – sta nell’assistere al modo in cui Falk-Colombo combina i tasselli di un puzzle di cui tutti i telespettatori conoscono sia il protagonista (l’assassino) sia l’immagine riprodotta (l’assassinio) anche se la stessa non appare nitida come lo è quando il Tenente la rielabora, alla fine, prima che i titoli di coda dell’episodio facciano calare il sipario sulle manette (che, tra l’altro, non appaiono mai).
È il «modo», che sorprende. Sempre. Scrive Giancarlo Grossini nel Dizionario del cinema giallo, che «il tipico del tenente Colombo sta non solo nell’abilità di sciogliere i più ingarbugliati enigmi (…) quanto nella sua particolare maniera di presentarsi». E ancora: «Colombo pare rivolgersi allo spettatore più che agli attori che gli stanno sempre intorno. Osserva e attende pazientemente – come lento è il suo modo di muoversi e di gesticolare – che gli elementi del giallo si uniscano a dare tutti insieme, finalmente, l’esatta soluzione».
Colombo uguale Falk. Il detective che cala dalle nuvole, quello che l’omicida considera il topo con cui giocare, ma che è genio. Un genio arruffato. «Non ho mai perso troppo tempo al make-up», disse l’attore. «Se devi interpretare Colombo basta guardarsi allo specchio un secondo, da un lato e dall’altro. Io sono sempre pronto in un minuto. Il trucco del cane, mezz’ora, durava molto di più». Colombo, dunque. Che saluta l’omicida ma poi ritorna sui suoi passi, sorprendendo l’antagonista quando ha già abbassato la guardia. Sempre con lo stesso grido di battaglia: «Oh, c’è un ultima cosa…». Sempre con l’indice della mano destra alzato.
Il Tenente Colombo è sotto tutela. La “signora Colombo” è stata sconfitta dalla figlia adottiva dell’attore. Shera Danese Falk – come disse l’attore in un’intervista di dieci anni fa – «è una donna vivace e piena di vita, che ama vestirsi bene e andare a ballare. Al contrario di me, che odio le feste». Delinquente scaltro, l’Alzheimer. Colpì anche Ronald Reagan, che prima di spegnersi passava il tempo spazzando le foglie dal bordo piscina del suo ranch e minacciando di tanto in tanto di premere il finto «pulsante rosso». Chissà, magari anche Falk, che oggi non riconosce più nessuno, potrà avere momenti in cui gira per casa col dito alzato esclamando, come faceva il Tenente, «lo dirò a mia moglie». Un pensiero consolatorio per i suoi fan affranti. Soprattutto per quelli più giovani, che lo hanno visto non su Rai due, ma su Retequattro, domenica pomeriggio tardi. Gli stessi che hanno preso in antipatia Emilio Fede proprio perché interrompeva a metà l’episodio, infilandosi nell’etere con quaranta minuti del suo tiggì.
Giovanni Galeone, il 4-3-3 e la sinistra perduta.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 gennaio 2011)
È tornato Zeman, è tornato Dan Peterson. Lui no, non tornerà. È l’ultimo dei 54 minuti di chiacchierata col Riformista, l’unico momento in cui la voce del Profeta tradisce una punta d’amarezza. «No, non mi siederò mai più su una panchina. Un po’ per la condizione fisica, che comunque è un problema che si risolverebbe chiamando un “secondo” giovane e in forma. Ma soprattutto perché non riesco ad avere più un rapporto con i calciatori. Me ne sono reso conto quattro anni fa, ad Udine. Non li sopporto più, i calciatori. Ormai hanno un potere contrattuale spaventoso, che porta molti di loro a non avere rispetto per la divisione dei ruoli. Scegli di non far giocare uno e quello mica te lo dice in faccia. No, si lamenta col suo procuratore, che poi chiama il direttore sportivo, che il giorno dopo chiama te».
Peccato, non è più calcio per Giovanni Galeone. Il Profeta che tra dieci giorni compirà settant’anni. Dal «suo» 4-3-3 a «quella notte a Vienna con Silvio Berlusconi», dalle partitelle a pallone col «genio» Pasolini all’intuizione su Ibrahimovic, dal «maestro» Liedholm alla «puttanata» sui libri di Prévert portati in panchina. E il Pescara dei miracoli. E il calciatore più forte mai allenato, Blaž Sliškovic, «uno che nel calcio di oggi, con un procuratore dietro le spalle, si giocherebbe il pallone d’oro».
Galeone sfoglia un album dei ricordi lungo sette decenni. E ora che manca poco all’appuntamento con le settanta candeline, scaccia ancora una volta la parola «rimpianto» dal suo vocabolario: «La verità è che non sono mai stato invidioso. Giusto un po’ d’invidia nei confronti degli intelligenti e dei colti. Per il resto, me ne sono fregato dei soldi, della fama e dei successi altrui. Quando ho potuto, ho brindato con lo champagne. Altrimenti mi son sempre andati bene anche il prosecco o la spuma Cirutti».
Impossibile cavarsela dicendo che «in fondo è solo un allenatore di calcio». D’altronde, il suo bouquet di aforismi lo rende più simile al Barney dell’omonima Versione di Richler che a un Guidolin qualsiasi. Ha mandato pubblicamente «affanculo» Berlusconi negli anni 2000, disse che non avrebbe fatto marcare a uomo nemmeno Maradona («Perché mi creerebbe un buco a centrocampo») nel 1989, impose ai suoi atleti solo «allegria e libertà d’azione, come se giocassero sul pavimento di casa» nel 1986 e soprattutto ha sempre ricordato che la zona e il 4-3-3 li fatti prima lui, «e poi Zeman».
La sua storia di giovane emigrato napoletano si fa favola nel 1986. Quando gli scarpini da calciatore sono al chiodo da un pezzo. «La mia fortuna», racconta al Riformista, «era stata allenare le giovanili dell’Udinese. Altra epoca. Trovavi ragazzini che venivano agli allenamenti e ti dicevano: “Mister, ma sa che ieri ho visto il Bruges, giocavano con 5 difensori, 2 centrocampisti e 3 punte?”. Sperimentavamo, provavamo». A furia di provare e riprovare viene fuori il 4-3-3, con cui il Profeta fa girare la Spal dall’83 all’86. «Gustinetti, Bresciani e Trombetta avanti. Dietro di loro tre mezz’ali vere». Nel 1986 è l’ora di Pescara. «Giocavamo a zona solo noi e il Parma di Arrigo Sacchi. Solo che la mia era una squadra costruita per non retrocedere. Arrivammo primi». Il battesimo in serie A, l’anno dopo, è a San Siro contro l’Inter. «Vincemmo per 2 a 0. Ricordo ancora che la sera finii a discutere con Sivori alla Domenica sportiva. Il grande Omar sosteneva che chi giocava a zona era destinato a retrocedere. Io risposi che di 40 squadre che retrocedevano ogni anno, almeno 39 giocavano a uomo. Ti credo, a zona giocavamo solo noi…». Oggi tutto il calcio è la rivoluzione di Galeone. «L’unico da cui un po’ ho copiato è stato il grande maestro Nils Liedholm. No, Zeman no. Lui è arrivato dopo di me».
IL PAPA’ DELLA RIVOLUZIONE. Il Pescara di Galeone è leggenda ancora oggi. «Non c’erano grandi soldi, per cui fummo costretti a sacrificare i due “gioielli” che erano stati protagonisti in serie B. Rebonato e Bosco», racconta il Profeta. In società fa il suo ingresso l’imprenditore Pietro Scibilia, che con la sua «Gis» sponsorizzava le pedalate di Francesco Moser. «Cominciammo a girare nei migliori hotel. Le divise, elegantissime, le produceva una nota azienda abruzzese, da cui si serviva anche l’Avvocato Agnelli. Romeo Anconetani, presidente del Pisa, diventava matto quando le vedeva. Una volta mi disse: “Ma dove cazzo le prendete queste sciccherie qua?”». La squadra diventa uno squadrone. Undici uomini, di cui due star: il pluri-blasonato brasiliano Junior e soprattutto il bosniaco Sliškovic. «Leo Junior era già stato in Italia, al Torino. Ma con Gigi Radice s’era trovato malissimo. Lo convinse il suo grande amico Zico», ricorda il mister, «a venire a Pescara. “Vai da Galeone ché è tutta un’altra musica”. gli disse. Lo vedo ancora, Junior. Ragazzo generosissimo. È venuto dal Brasile per giocare una partita di vecchie glorie per i terremotati dell’Aquila».
I PIEDI DI SLISKOVIC. Quando gli si chiede chi è stato il giocatore più forte mai allenato, Galeone risponde senza esitazioni. «Sliškovic. Mai vista una mezz’ala con quel tocco di palla. A Marsiglia l’avevano scaricato per lanciare Abedì Pelè. Quando venne da noi, dopo un’amichevole estiva, Liedholm mi disse: “Giovanni, ma dove l’hai preso questo qua?” Giocasse nel calcio di oggi, con un Moggi qualsiasi alle spalle sarebbe da pallone d’oro». A Pescara segna 8 gol in 23 partite. Poi l’oblio. «“Baka” non raccolse quel che meritava. Anche per colpa della guerra. Lui era un bosniaco, la nazionale jugoslava venne cancellata e per lui cominciò il declino. Peccato, davvero un peccato. Soprattutto perché era ed è un ragazzo serio, una persona splendida. Se lo sento ancora? Certo, chiama sempre per farmi gli auguri durante le feste».
LA PUTTANATA DI PREVERT. Accanto al Galeone «maestro del calcio champagne», emerge il Galeone intellettuale. Il mister «di sinistra», l’acuto divoratore dei libri di Camus e Sartre. Il «Profeta», insomma, che porta Prévert in panchina. «Ma quella era una puttanata», sorride oggi a tanti anni di distanza. «In panchina portavo le Marlboro, mica Prévert. Successe tutto perché dissi a un giornalista che leggevo gli autori francesi. E quello tirò fuori questa storiella». E poi, «il mio calcio era soprattutto allegria. Al contrario di Prévert, che era uno scrittore triste». Gli ideali di sinistra no, quelli erano e sono autentici. Galeone nasce da una famiglia benestante e liberale. «Papà era un ingegnere, non mi è mai mancato nulla. Però da casa sono andato via subito, senza mai chiedere nulla. Nel Dopoguerra ho visto la fame, quella vera, negli occhi della gente. E una sinistra che, nonostante momenti drammatici come i fatti d’Ungheria, è sempre stata unita. Adesso non è più così. Oggi la sinistra, di fatto, è quasi inutile. Infatti Berlusconi è ancora là da quindici anni». Speranze? «I comunisti di una volta erano un’altra cosa. Avesse avuto un Berlinguer da sconfiggere, Berlusconi non avrebbe vinto manco un’elezione. Oggi però i comunisti non ci sono più. O meglio, esistono solo nelle fantasie del presidente del Consiglio». Quel che vede, a Galeone, non piace. Neanche in politica. «A sinistra litigano, fanno un’opposizione “contro”. Però non hanno una proposta politica seria da fare al Paese. Prendiamo Vendola, che pure sembra uno serio e intelligente… Ma che cosa ha da proporre? Spero che le cose cambino». In fondo, sono riflessioni di chi ha visto da vicino anche Pier Paolo Pasolini. «Fine anni ’60. A Grado lui stava girando Medea con la Callas. Noi – io, Capello, Reja, Sormani – passavamo le estati là, anche per fare le sabbiature. Giocavamo a pallone, e Pier Paolo era fortissimo. Ma la cosa che mi rimase più impressa successe nello spogliatoio. Quando Raf Vallone, che pure era una star internazionale, ascoltava le parole di questo grande intellettuale a bocca aperta».
TRA BERLUSCONI E MORATTI. All’alba dei settant’anni, Galeone vive tra Udine e Pescara. Per lui, che ha innaffiato di calcio champagne le piazze di provincia (Pescara e Perugia su tutte) e ha lanciato per primo l’allarme doping («Fui il primo a parlare di Epo»), non c’è mai stata una “grande”. «Moratti mi chiamò due volte. La prima, nel 1995, disse però che mi stimava troppo per affidarmi una squadra che lui stesso non riteneva all’altezza». Con Berlusconi fu diverso. «A Vienna, nel 1990, la sera della finale vinta dai rossoneri contro il Benfica, mi ritrovo a passeggiare con Sacchi verso il loro albergo. In hotel, erano le 3 di notte, troviamo Berlusconi che parlava con altri giocatori, tra cui Massaro. Quando il Cavaliere mi vede chiede ad Arrigo: “Non ti dispiace se parlo un po’ col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Alla fine Berlusconi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l’ho mai fatto».
Un decennio più tardi, quando si trattò di difendere il ct Zoff dal j’accuse berlusconiano dopo la finale dell’Europeo persa contro la Francia di Zidane, il Profeta disse pubblicamente: «Avesse detto quelle cose a me, l’avrei mandato affanculo». Oggi al Milan c’è un suo allievo, Allegri. «Volete sapere com’era Max da calciatore? Primo, intelligente. Secondo, credo che non abbia mai messo piede in una discoteca. Terzo, non l’ho mai visto con una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima. Adesso lo sento almeno una volta a settimana. Mi dice che al Milan è molto contento, che là si lavora benissimo». Però è un peccato che, nell’anno del signore 2011, questo non sia più un calcio per Galeone. «Questo pallone s’è ripreso lentamente dopo essere stato mortificato per 10 anni dal 4-4-2 dei falsi imitatori di Sacchi. Per un decennio il calcio è stato prendersi a calci a centrocampo, nulla di più. Il più forte oggi? Ibrahimovic, sui cui avevo puntato nel 2001. Una sera telefono al mio secondo a Pescara, Marco Giampaolo. E gli dico: “Accendi la tv e vedi che cosa sa fare il centravanti dell’Ajax, quello alto. Poi fammi sapere”. Oggi però il pallone è scaduto. In serie A arriva gente che vent’anni fa non l’avrebbe vista manco col binocolo. Allora in difesa c’era gente come Maldini e Baresi. Negli ultimi tempi, invece, Chiellini e Materazzi sono stati considerati tra i difensori più forti d’Italia. Non so se mi spiego…». Irriverente e spumeggiante come il Barney dell’omonima Versione di Richler. Un «Profeta» anche in patria. Galeone Giovanni da Napoli, tra dieci giorni settantenne. Rimarrà ancora l’idolo dei cultori del calcio gourmet. Ma non allenerà più. Potendo, berrà ancora champagne. Altrimenti s’accontenterà di prosecco o della spuma Cirutti. Senza rimpianti e senza invidia. Mai. Auguri.
Quando Nanni Moretti venne processato dai reduci di Ecce Bombo.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 novembre 2005)
Il «Belli» è un piccolo teatro nel cuore di Trastevere. Qui, domenica sera (30 ottobre 2005), un centinaio di cultori del Nanni Moretti che va da Io sono un autarchico a La messa è finita hanno assistito a una specie di miracolo. Sul piccolo palcoscenico è andata in scena la rimpatriata di alcuni dei protagonisti di Ecce Bombo, «non condotta» (come da locandina) dall’artista di strada Andrea Rivera.
C’era Paolo Zaccagnini, che da un anno ha lasciato la scrivania del Messaggero, e che nella celebre opera morettiana interpretava Vito, corpulento e barbuto impiegato parastatale con la mania del rock e delle radio libere. C’era Piero Galletti, oggi programmista in Rai, che aveva vestito i panni di Goffredo, svogliato studente universitario, il più giovane dei quattro figli della piccola e media borghesia, residuati bellici di un Sessantotto che non avevano neanche vissuto, in perenne seduta di autocoscienza. Giorgio Viterbo oggi si guadagna da vivere lavorando nel campo dell’informatica. In Ecce Bombo era l’inviato di Telecalifornia, la fantomatica emittente tv alla perenne ricerca di quei ggiovani con due g senza piazze né P38. Ggiovani come all’epoca lo era Mauro Fabbretti, uno dei due studenti che Moretti preparava all’esame di maturità. Dei due, convinti che i presidenti della Repubblica «dalla nascita ai giorni nostri» fossero stati «De Nicola… Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi», Fabbretti era il più grassottello, quello che si presentò all’attonito presidente di commissione (interpretato da Age di Age&Scarpelli) con il «poeta contemporaneo Alvaro Rissa».
Non si vedevano tutti insieme dall’8 marzo del 1978, otto giorni prima dell’agguato di via Fani, quando allo spazio Etoile di piazza San Lorenzo in Lucina (dove oggi, come dice Zaccagnini con una punta di amarezza, «promuovono l’acqua minerale») c’era stata la presentazione del film. Nanni Moretti, ieri, non s’è fatto vedere. Nessuno di loro, a dire la verità, lo vede più. Tutti avrebbero avuto qualcosa da chiedergli, trent’anni dopo. Con l’imputato in contumacia, domande senza risposte si trasformano in altrettanti aneddoti, in un “dietro le quinte” degno del contenuto extra di un dvd.
Sono le domande e i ricordi di chi voleva fare cinema ed è rimasto il personaggio interpretato in Ecce Bombo, ma con trent’anni in più. Nanni? «Come Cofferati», commentano tra di loro. «Non è stato mai di sinistra». «Un trotzkista». Durante le riprese, raccontano, un gruppo di prostitute occupava la strada in cui dovevano girare una scena. Gli attori proposero di fare una colletta per allontanarle. Tutti d’accordo tranne Nanni, che «invece chiamò la polizia. Che bisogno c’era? Magari poteva fargli fare un bel girotondo…». Il film «costò pochissimo – è Galletti che parla – Noi attori venivamo pagati 33mila lire a posa». E fu un successo di pubblico e critica. Lo incassò soltanto Moretti, che non li invitò neanche alla presentazione della pellicola a Cannes. L’unico che non si arrese fu Zaccagnini, che pur di vedere “i divi” partì lo stesso. «Nanni andò in aereo, io e un gruppo di amici in macchina».
Sulla strada del ritorno, arrivati a Roma, tanto erano presi dalla discussione sui protagonisti di Hollywood incontrati alla Croisette che fecero quattro volte il raccordo anulare senza imboccare l’uscita. Volevano, fortissimamente volevano, «fare il cinema». Zaccagnini, che dedicò a Moretti «più di trecento giorni di ferie arretrate», ripensa agli inizi del morettismo. «Eravamo un gruppo di amici. Potevamo fare una factory». Un regista, un gruppo di attori, l’America, il rock. Nanni in effetti la factory la fece, ma per i fatti suoi. Senza neanche Fabbretti, che lavorò col regista fino a La messa è finita. In quel film il sodalizio si ruppe quando durante una pausa Fabbretti alzò un po’ il gomito. Non riusciva a recitare e Moretti, in post-produzione, coprì le sue battute con una musichetta. «Nanni non mi chiamò più. Era fatto così, non beveva non mangiava, non scopava… Era impregnato di femminismo. Diceva sempre “voi uomini siete dei nazisti”. Quando lo incontro per strada nemmeno mi saluta. Anni prima, dopo Ecce Bombo, ero stato avvicinato da Alvaro Vitali che aveva appena firmato un contratto per Medusa. Mi disse “perché non ti proponi anche tu? Con quella faccia potrebbero prenderti”. Lo dissi a Nanni e lui mi rispose che se avessi firmato, non avrei più lavorato con lui. E poi è finita com’è finita… Mi ha tarpato le ali». È un po’ come se Ninetto Davoli fosse incazzato con Pasolini. Pausa. Entra in scena Vincenzo Vitobello. È forse lui il vero miracolo della serata. Gli amanti di Ecce Bombo lo ricordano come «l’amico dell’etiope» che telefonava alla radio per sfogare gli effetti «della dissociazione» e che ragionava sul rapporto tra la politica atlantista della Dc e l’ampiezza delle gallerie dell’autostrada, dove i carri armati «non c’entrano» (l’idea dell’etiope, ricorda Zaccagnini, la portò Nanni Moretti che l’aveva sentita davvero alla radio). Vitobello parla poco, interrompe il suo silenzio solo per recitare la battuta che trent’anni fa gli aveva dato il suo warholiano quarto d’ora di notorietà («Adesso la mattina quando esco faccio finta, vado a prendere un caffé e faccio finta, fumo una sigaretta e faccio finta, dico due parole in una certa maniera e
faccio finta…»). Oggi fa il bibliotecario alla Sapienza. Recita a teatro nel tempo libero, dicono sia molto bravo.
Sarebbe stato bello vedere Nanni-Michele Apicella confrontarsi con i suoi attori. Nessuno pensa che non sia venuto solo perché «così lo si nota di più». Tutti glissano la domanda sul j’accuse di piazza Navona. Forse, ma è solo un’impressione, per evitare di rispondere «chi sta parlando? Alberto Sordi?». E magari aggiungere: «Te lo meriti Alberto Sordi».
Da Claudia Cardinale a Gianfranco Fini: chiedi chi è Pasquale Laurito.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 agosto 2008)
Porto Ercole. Se non si rischiasse di fargli un torto, ora che se ne sta al sole della Feniglia come fa tutte le estati dal 1951 a questa parte («La prima volta venni con Flaiano e quella schifezza di Cala Calera non c’era ancora»), e se non si temesse di fargli andare di traverso i maltagliati pinoli e gamberi di “Braccio”, allora si potrebbe osare. Banalmente. Si potrebbe dire, dopo averlo sentito raccontarsi per ore, che forse, lui, altro non è che l’Ulisse cattocomunista (senza trattino) della politica italiana. Per molti più leggenda che semplice realtà. Perché Pasquale Laurito, anni ottantadue, sembra essere stato ovunque ci fosse da stare, in Italia, negli ultimi sessant’anni e passa. Anche quando non era fisicamente presente. Con la sua Velina rossa ha scritto dei primi contatti tra il Vaticano e l’Unione sovietica di Gorbaciov, ha svelato il segretissimo incontro tra Berlinguer e Craxi alle Frattocchie, ha anticipato di tre giorni il risultato esatto della battaglia del ’94 tra D’Alema e Veltroni per la segreteria del Pds. Ma questo è modernariato. Laurito non è soltanto l’unico essere vivente ad aver calcato il palcoscenico di Montecitorio dall’Assemblea costituente alla sedicesima legislatura. Non è soltanto l’unico ad aver visto all’opera, e da molto vicino, sia Alcide De Gasperi che Marianna Madia. Non è soltanto l’antesignano dei pescecani da Transatlantico. No. Pasquale Laurito è stato anche attore e gallerista d’arte. Protagonista delle notti di via Veneto, dei pomeriggi della piazzetta di Capri e dei giorni di Botteghe oscure. Laurito sette vite. Pasqualino settesistenze. Se non avesse girato così tanto, forse, non sarebbe stato il primo ad annunciare la nascita della televisione italiana. Ancora oggi, quando pensa a quel giorno dei primi anni Cinquanta, si lascia andare all’emozione. «Ah, che scoop…». In quel tempo, Laurito lavorava a Paese sera, l’edizione pomeridiana del Paese. E lo scontro parlamentare sull’imminente nascita della tv l’aveva vissuto in presa diretta. «La Dc voleva la televisione mentre il Pci era contrario. Anche La Malfa, pur di andare contro i democristiani, sosteneva la battaglia dei comunisti». Lo scoop gli capitò quasi per caso, passando a piedi alle cinque di mattina dalle parti di Monte Mario. «Mi accorsi che c’era un cantiere e mi avvicinai agli operai che stavano lavorando. “Ma che state costruendo?”, chiesi con l’aria ingenua del passante un po’ curioso. Uno di loro mi rispose che proprio lì sarebbero sorte le torri della televisione. Feci finta di niente e mi allontanai. Arrivato di corsa al giornale, chiamai il fotografo e insieme a lui tornai laggiù, in motocicletta». «Nasce la televisione», titolò Paese sera. E Pasqualino se la ride ancora oggi, ricordando l’impatto di quell’articolo sul dibattito parlamentare. «Urlavano tutti, alla Camera, sventolando all’indirizzo dei democristiani la prima pagina del giornale».
LA PENNA ROSSA DEL MIGLIORE. Tutto era cominciato a Lungro. Tremila anime e una minoranza albanese a settecento metri dal livello del mare, in provincia di Cosenza. È nato laggiù, Pasquale Laurito, figlio di un medico socialista e di una donna devota. «Mia madre mi fece battezzare di nascosto», ricorda oggi ostentando con orgoglio il suo essere, insieme, cattolico e comunista. «La gran parte delle sezioni comuniste nella provincia di Cosenza le ho inaugurate io. La prima tessera del Pci la presi da cattolico, nel 1945. E ancora oggi vado a messa tutte le domeniche. Sono un vero cattocomunista». Arrivato a Roma, dice, «cominciai a fare il cronista politico a Democrazia del lavoro. Per 90 lire al mese raccontavo le sedute della Costituente dalle tribune di Montecitorio, visto che all’epoca i giornalisti non potevano entrare in Transatlantico». In quel periodo, Pasqualino incontra le due persone che gli hanno «cambiato la vita»: Palmiro Togliatti e Federico Caffè. «Togliatti – racconta Laurito – lo conobbi una sera del ’45 a via Quattro novembre, all’Unità. Presi dalla taschino la mia tessera del Pci e gli chiesi di firmarla». Delle prime volte col Migliore, Pasqualino ricorda la grande stima che il segretario nutriva nei confronti di certi democristiani («Palmiro aveva grande considerazione di La Loggia, fine economista»), le sue camminate in Transatlantico («Nilde stava sempre quattro passi indietro») e l’ideale penna rossa con cui correggeva il giornale di Gramsci. «Era molto attento all’Unità, soprattutto a come venivano scritti i pezzi di cronaca. Vede, quasi tutti i giornalisti della redazione dell’epoca erano reduci dal confino, gente che era stata a lungo tenuta lontana dai propri affetti. Per questo, nel dare notizia di una morte, facevano spesso dei lunghissimi preamboli sui genitori distrutti dal dolore, le mogli disperate, i figli che piangevano. E la notizia finiva, inesorabilmente, in coda. Tutto questo faceva andare in bestia Togliatti. Che iniziando a leggere quegli articoli, non di rado, esclamava: “Perché piangono ’sti genitori? Perché si disperano ’sti figli? Possibile che dobbiamo leggere tutto l’articolo per capire che c’è stata una morte, per sapere chi e come?”. Finiva che molto spesso li faceva riscrivere, quei pezzi». Nel raccontare i suoi primi anni da cronista, Laurito salta spesso da Caffè a Togliatti e da Togliatti a Caffè. «Federico l’ho conosciuto quand’era collaboratore di Meuccio Ruini. Un economista unico, un riformista straordinario, di fronte a cui fior di comunisti si levavano il cappello», sottolinea Laurito anche quando, lasciando volontariamente terreno alla sua ben nota vis polemica, invita «tutti i cialtroni che oggi si dicono riformisti a rileggere quello che scriveva Caffè». L’economista che sapeva di non poter prescindere da Marx. Il riformista che si schierò contro il decreto con cui Craxi tagliò di quattro punti la scala mobile. Pasqualino ripensa ancora oggi ai decenni passati a chiacchierare con Caffè. E di fronte agli interrogativi sulla misteriosa fine dell’economista, inghiottito dal nulla in un giorno di primavera del 1987, Laurito offre le sue certezze. «Si fidi di me, che l’ho conosciuto e frequentato per quarant’anni: Caffè non si è suicidato». Poi guarda il mare dell’Argentario e indica il Sud. «La Calabria… Caffè è finito laggiù, a rinchiudersi dentro la Certosa di Serra San Bruno. Tra i monaci, in quel posto dove entra soltanto chi non vuole uscire più».
DA CHAGALL ALLA CARDINALE. «Mio padre non voleva che facessi il giornalista», dice Paqualino Laurito con l’espressione di chi vuol negare al genitore persino un barlume di ragione postuma. «E comunque di giornalismo non si campava», spiega tirando nuovamente fuori la vecchia storia delle 90 lire al mese che gli passava, agli esordi, Democrazia del lavoro. Furono proprio le ristrettezze da taccuino ad avvicinare Laurito sia alle opere d’arte che al mondo del cinema. «Tutti dicevano che in fatto di quadri – racconta sventolandosi l’indice sulla punta del naso – avevo un gran fiuto. E così nel ’48 mi misi in testa di aprire una galleria d’arte a via Alibert, la stradina che incrocia sia via Margutta che via del Babuino. Riuscii ad avere qualche Chagall e un paio di Mirò, che però non potevo vendere. L’esposizione di quelle opere doveva durare quindici giorni; invece, tanto fu l’afflusso di gente che la tenemmo in piedi per un mese e mezzo. Su quei quadri non avremmo guadagnato una lira, era chiaro. Ma immaginammo che l’esposizione di Chagall e Mirò avrebbe dato la visibilità giusta alla galleria». Il fiuto per i quadri diventa per Laurito un passpartout per i paradisi romani. «Pertini l’ho conosciuto così, consigliandogli le opere d’arte da comprare…». Sempre nel ’48 Pasqualino fa il suo ingresso nel mondo della celluloide, con i galloni di «generico». Appare in Anni difficili di Luigi Zampa. Quindi veste i panni dell’usciere in Un giorno in pretura di Steno. «Andavo a mangiare da Otello, in via della Croce, un posto frequentato da molti cinematografari dell’epoca». Tra questi Mauro Bolognini, che nel 1960 porta Laurito sul set del Bell’Antonio. «Facevo la parte dell’avvocato mandato dal Vaticano in Sicilia per indagare sull’impotenza di Mastroianni e sul suo matrimonio con la Cardinale, visto che il padre di lei si era rivolto alla Sacra Rota per l’annullamento delle nozze». Di quell’esperienza, a Pasqualino, rimangono tre cose. L’antipatia nei confronti di Claudia Cardinale, «pedante e piena di sé», com’ebbe a dire ricordare tempo fa in un’intervista al Corriere della sera. Il compenso a sei cifre, «non avevo mai guadagnato tanto». E le parole di suo padre: «Mi disse: “Finora hai giocato. Adesso però lascia stare il cinema”». All’epoca, Pasqualino lavorava a Paese sera. La sua giornata tipo? «Entravo al giornale prima dell’alba e uscivo verso le tre. Nel pomeriggio, andavo sul set oppure mi dedicavo alle opere d’arte fino alla sera». Poi, arrivava l’ora della dolce vita. «Il Club 84 di via Emilia – racconta Laurito pescando a caso nell’album dei ricordi – era un posto piccolo e affollato. Quando quelli dell’orchestra si accorgevano che ero arrivato, subito partivano le note di L’amore è una cosa meravigliosa». Dormire, a quei tempi, non era affar suo.
LA VELINA ROSSA. Un pomeriggio del giugno del 1978, Laurito, che nel frattempo è passato all’Ansa, si trova a Botteghe Oscure. Da lì a poco avrebbe avuto inizio una riunione della segreteria del Pci. Il racconto di Pasqualino parte da una telefonata: «Chiamai la redazione dell’Ansa e mi feci passare il direttore, Sergio Lepri. Gli dissi, semplicemente: “Guarda che il Partito comunista sta per chiedere ufficialmente le dimissioni del presidente della Repubblica”». Dopo la morte di Moro, le polemiche sul presunto coinvolgimento di Giovanni Leone nello scandalo Lockheed erano riprese, e più forti di prima. «Ma Lepri – prosegue il racconto di Laurito – non credette a quello che gli stavo dicendo. E iniziò a urlare al telefono frasi del tipo: “Ma che ti inventi? Ma cosa dici? La riunione non è nemmeno iniziata e tu dici che i comunisti chiederanno le dimissioni di Leone? E perché non fanno un comunicato stampa?”». Di fronte al possibile scoop, Pasqualino insiste. «Non mi arresi. Non foss’altro perché al mio fianco c’era Tatò (segretario di Berlinguer, ndr) che sentiva la telefonata. E feci un ultimo tentativo: “Senti, Lepri, diamo la notizia con una formula tipo a quanto si apprende da fonti qualificate, il Pci… e guadagniamo cinque ore rispetto agli altri”. Ma lui niente, non ne volle a che sapere: “L’Ansa non fa giornalismo in questo modo”, mi rispose prima di attaccare il telefono». La notizia finisce in una velina che salta di mano in mano, prima di essere lanciata dalle altre agenzie. E l’Ansa passa dallo scoop al buco. In quel giorno di giugno, circolò la prima versione «clandestina» di quella che sarebbe poi diventata la nota politica di Pasquale Laurito: la Velina rossa. In quel tempo, racconta Pasqualino, «l’unica Velina che circolava era quella di Vittorio Orefice, che però sulla sinistra non aveva neanche l’ombra di una notizia. Tra gli abbonati lui aveva anche le istituzioni e qualche azienda. Io ho invece scelto di mandare la mia nota politica solo alle redazioni, per essere più libero. E per rispetto l’ho sempre sospesa durante i congressi del Pci». Ufficialmente la Velina rossa nasce all’inizio degli anni Ottanta. «Venni a sapere – racconta Laurito – che Craxi aveva convocato una riunione notturna dei maggiorenti socialisti per chiedere la testa del suo capogruppo alla Camera, Silvano Labriola, il cui nome era emerso nella lista degli iscritti alla P2. Scrissi tutto sulla Velina. Finì con Bettino che s’incazzò come una belva e smentì la notizia. E con Labriola che, non avendo capito la trama alle sue spalle, si mise a urlare contro di me in Transatlantico. “Brutto stronzo – mi disse Silvano – siamo amici e tu cerchi di farmi fuori?”. Dovettero passare degli anni prima che Labriola, dopo aver appreso che la riunione segreta c’era stata davvero, venisse da me a scusarsi e ad ammettere che la Velina rossa gli aveva salvato il posto».
MASSIMO&WALTER. La nota politica di Pasquale Laurito resiste all’incedere, spesso tutt’altro che elegante, del tempo. Anche se col passare degli anni, è cambiata la ragione sociale che le attribuisce chiunque la riprenda: da nota «vicina a Botteghe oscure» ad agenzia «notoriamente vicina a Massimo D’Alema». Una cosa è certa: se c’è un socio anziano del club dalemista, quello è Pasqualino. «Massimo ha una cultura, un’intelligenza politica…», ripete Laurito, la cui passione per l’ex premier lo porta spesso e volentieri, quando parla di lui, a non arrivare mai al verbo. Quando il lider maximo fu candidato al Quirinale, più d’uno sentì Pasqualino lasciarsi andare a un felicissimo «ora posso pure morire contento». Salvo poi ricredersi quando la nomination dalemiana per il Colle più alto si arenò. Sull’affaire, Laurito offre un distillato di Velina. Rosso, s’intende. «Ciampi – giura Pasqualino – non aveva alcuna voglia di fare il bis. Dovendo far arrivare il messaggio a palazzo Chigi, su al Colle scelsero come ambasciatore Mastella. Convocarono Clemente al Quirinale e gli dissero chiaramente: “Il presidente vede bene una candidatura giovane…”. Era un’apertura a D’Alema. Ma Romano Prodi, che invece puntava su Amato, rispedì quelle parole al mittente. Il povero Clemente venne da me per dirmi della furibonda reazione prodiana al messaggio del Colle. E toccò a me dire a D’Alema che Mastella doveva parlargli urgentemente…». Va da sé che al dalemista Laurito non piaccia Veltroni. «La Velina rossa – ricorda con orgoglio – indovinò al millesimo, e con tre giorni di anticipo, l’esito del consiglio nazionale che decise la sfida tra D’Alema e Veltroni per la segreteria del Pds. Era l’estate del ’94. Quando arrivò il voto finale, che dimostrò l’esattezza della mia previsione, ero su una barca a vela, in mezzo al mare». Il Pd targato Veltroni, a Pasqualino, non piace per nulla. «Ma che partito è – s’inalbera – un partito in cui non è possibile neanche discutere? Il vecchio Pci era un’altra cosa. Magari le decisioni le prendevano solo i vertici ma quantomeno si parlava, ci si confrontava, si litigava». Qualche tempo fa, incrociandolo, Veltroni si è lasciato scappare un «chissà se, un giorno, anche Laurito diventerà più buono». Ma Pasqualino niente. «Laurito – dice lui stesso – non diventerà buono neanche da morto, capito?». Gli stessi toni furenti che ha opposto «a un personaggio molto autorevole, che mi ha suggerito di cambiare l’aggettivo della mia Velina da rossa a democratica». Niente da fare. Laurito è uno di quelli che non molla, neanche di un millimetro.
QUEL «NO» A PERTINI. A ottant’anni e passa, per tre stagioni su quattro, continua presentarsi a Montecitorio la mattina presto. Alle 9 è già in Transatlantico da un pezzo, con la mazzetta dei giornali sotto il braccio. Non di rado capita che persino Gianfranco Fini, che della Camera oggi è il presidente, lo cerchi per parlare con lui al riparo da sguardi indiscreti. La sua Velina è pronta nel pomeriggio. Due cartelle al massimo, rigorosamente vergate a mano (Laurito delle tastiere è nemico assai), che qualche collega (un tempo era Rina Gagliardi, oggi l’onere e l’onore sono di Alessio Falconio di Radio radicale) si prende la briga di digitare. «Che vuol fare? Non riesco a vivere senza fare il giornalista», spiega Pasqualino. Che ricorda: «Quand’era presidente della Camera – siamo nel ’78 – Sandro Pertini pretendeva di pranzare con me quasi ogni giorno. Era ossessionato dall’idea di diventare capo dello Stato e aveva paura che il Pci, alla fine, gli avrebbe preferito un democristiano. Temeva soprattutto Alessandro Natta, evocando fantomatiche gelosie tra liguri. “Laurito, dammi una mano, diglielo tu…”, diceva sempre». Quando Pertini viene eletto presidente della Repubblica, «come gli avevo pronosticato, mi chiese di seguirlo al Colle. “Adesso non puoi lasciarmi da solo”, ripeteva ad ogni mio rifiuto. Mandò persino la moglie, Carla Voltolina, a parlare con me. Non ne volli a che sapere anche perché, se mi fossi rinchiuso al Quirinale, sarei morto da un pezzo». Il Transatlantico di Montecitorio, Pasqualino, ce l’ha nell’anima. E ora che se ne sta a Porto Ercole, sembra quasi che non veda l’ora che Montecitorio riapra i battenti. L’altro giorno l’hanno chiamato dalla sua Lungro. «Vogliono darmi la cittadinanza onoraria. Ma dico io, come si fa a ricevere la cittadinanza onoraria dal luogo in cui si è nati? Bah…». Farà comunque un salto presto, Pasqualino, nella sua Lungro. «E, come ogni volta che ci vado, passerò un sacco di tempo al cimitero. L’unico posto in cui posso rivedere gli operai della salina, quelli che affollavano le prime sezioni del Pci, laggiù». Storie di sessant’anni fa, che la memoria di Pasqualino settesistenze conserva come se fossero successe ieri l’altro.
Eluana Englaro/Quella Bmw parcheggiata sotto casa.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 febbraio 2009)
La mattina del 18 gennaio 1992, sabato, Eluana Englaro è sola in casa, a Lecco. I genitori, Saturna e Beppino, si trovano in provincia di Bolzano. A Sesto, Val Pusteria. Sono in settimana bianca. L’Alto Adige, i coniugi Englaro, l’hanno raggiunto con una piccola utilitaria. La loro macchina grande, una Bmw, è rimasta parcheggiata sotto la loro abitazione. A Lecco.
La verità su Ustica. La mattina del 18 gennaio 1992, nel momento in cui Eluana apre gli occhi, il Giornale radio del primo canale Rai trasmette uno speciale sul Dc9 dell’Itavia abbattuto sui cieli di Ustica dodici anni prima. Il servizio contiene rivelazioni scottanti sul procedimento giudiziario nei confronti dei generali dell’Aeronautica. Due in particolare, Corrado Melillo e Zeno Tascio. L’inchiesta del Gr1 toglie il velo anche sulle accuse dei pm nei confronti di Lamberto Bartolucci e Franco Ferri, che all’epoca dei fatti erano al vertice dell’Aeronautica militare. Il «golpe dei generali» è smascherato dalla radio. E gli uomini dell’Ucigos si preparano al blitz nella redazione diretta da Livio Zanetti. Che quel giorno, però, è fuori città.
Il governo contro il Colle. Nel momento in cui Eluana si prepara per uscire di casa, a Roma il ministro della Difesa Virginio Rognoni smentisce l’ipotesi, avanzata il giorno prima dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga, di fornire assistenza militare alla Slovenia. «L’eventuale intervento diretto nelle vicende jugoslave – spiega il ministro – non rientra nelle opzioni a disposizione di ogni singolo paese». Anche la Farnesina prende le distanze dal capo dello Stato. Fonti vicine al ministro Gianni De Michelis chiariscono che «non c’è alcuna possibilità che l’Italia possa mettersi da sola a fornire armi».
L’impeachment. Achille Occhetto è a Cagliari, all’assemblea di fondazione dell’Unione della sinistra sarda. In vista delle elezioni del 5 aprile, il segretario del Pds lancia la sfida ai socialisti e chiama a raccolta «le forze del cambiamento» contro la Dc. Il suo partito, intanto, va avanti nella richiesta di mettere in stato d’accusa il presidente della Repubblica per le note «esternazioni» di qualche tempo prima. Nello stesso istante Gianfranco Fini prepara il discorso per la manifestazione del suo partito al Teatro Lirico di Roma. Il Movimento sociale italiano è schierato invece con Francesco Cossiga. Lo vuole alle guida di una «nuova Repubblica», di un «Fronte degli Italiani». Lo propone per un bis al Colle più alto. «Il magistero politico di Cossiga – annota Fini nel suo intervento – è stato utile all’Italia e lo sarà ancora di più nel futuro». È il portavoce del segretario missino, Francesco Storace, ad anticipare una parte del discorso alle agenzie. E a preannunciare che, all’indirizzo di Fini, è stata recapitata una lettera in cui il capo dello Stato ringrazia «il Movimento sociale» per il sostegno alla sua causa.
L’assemblea di Napolitano. Nel frattempo, a Roma, l’area dei riformisti del Pds, guidata da Giorgio Napolitano, riunisce l’assemblea nazionale per discutere degli scenari post-voto. Si presentano un po’ tutti. Dal socialista Martelli al repubblicano La Malfa, passando per il diccì Piccoli e i sindacalisti Lama, Carniti, Trentin e Del Turco. Occhetto invia il fedelissimo Massimo De Angelis, al quale tocca prender nota dell’ipotesi delineata da Napolitano («Un governo sganciato dalle designazioni partitiche») e della prospettiva indicata dall’area migliorista: «Una sinistra unitaria, socialista e riformista, che non rinunci alle sue esperienze». Quale esito avranno le elezioni del 5 aprile? L’espresso in edicola il 18 gennaio 1992 offre ai suoi lettori un sondaggio della Doxa. Più della metà degli intervistati prevede una flessione della Dc rispetto al 34,3% dell’87, il crollo del Pds al 17% e esprime la certezza che la Lega Lombarda di Umberto Bossi supererà la soglia dell’8%. Stabili, secondo la rilevazione demoscopica, sia il Psi di Craxi che il Pri di La Malfa.
La folla per Moana. Mentre a Lecco Eluana si prepara per la giornata, a Milano una folla oceanica interrompe la raccolta di firme per la presentazione delle liste del Partito pensionati. Al banchetto di corso Vittorio Emanuele II, infatti, è stata annunciata la presenza della capolista Moana Pozzi. Centinaia di passanti si accalcano per vedere da vicino la pornostar che, temendo per la sua incolumità, si ripara in un teatro nei paraggi. I promotori decidono di sospendere la raccolta delle sottoscrizioni rinviandola al pomeriggio. Nel frattempo, la città di Brescia si interroga sulla nascita di una giunta comunale «a tempo», che porti quantomeno alla discussione del bilancio 1993 prevista in autunno. Nella maggioranza dovrebbero entrare Dc, Psi, Pri, Pds, la Rete e i Verdi. All’opposizione, invece, rimarrebbero la Lega, Rifondazione comunista, Msi, casalinghe e pensionati. Il Pli e l’indipendente Maria Fida Moro, eletta nelle liste di Rc, sono titubanti. Anche Torino vive ore d’ansia. A venti giorni dalle dimissioni di Valerio Zanone ci sono quattro partiti che rivendicano la poltrona del primo cittadino. Dc, Pri e Pli corrrono con un proprio candidato. Il Psi, con il responsabile enti locali Giusi La Ganga, dice di considerare ancora valido «l’accordo firmato nel 1990 per un sindaco laico».
Farouk prigioniero. Eluana è a pranzo quando, dalla Sardegna, il capo della Criminalpol Luigi Rossi dichiara che la prigionia del piccolo Farouk Kassam, sequestrato dall’Anonima sarda, sarà «lunga». «A occhio e croce – conferma il capo della Polizia Vincenzo Parisi – non si possono prevedere sviluppi e tempi rapidi». Gli inquirenti smentiscono che il riscatto possa essere pagato all’estero, magari con la mediazione dell’Aga Khan. La primula rossa Matteo Boe finisce in cima all’elenco dei ricercati.
Sofri, Salvatores, la Bellucci. A sera, Indro Montanelli e Adriano Sofri, insieme a Mario Cervi e Giuliano Ferrara, intervengono alla registrazione di Babele, il programma di Corrado Augias sulla terza rete. «Io non credo che non ci siano prove. Comunque auguro a Sofri la revisione del processo per l’omicidio Calabresi. In ogni caso, una sentenza sfavorevole condannerebbe un uomo che non c’è più», dice Indro. «È vero, sono molto cambiato. Mi dispiace perché sono più affezionato al Sofri di allora che al Sofri di oggi», risponde Adriano. Intanto a Palm Springs, California, il Festival cinamatografico internazionale premia Mediterraneo di Gabriele Salvatores come «miglior film europeo». L’ex modella Monica Bellucci, chiamata da Francis Coppola per il suo Dracula, viene incoronata regina della kermesse. Martin Scorsese si trova a Roma, per ritirare il riconoscimento «Maestri del cinema», mentre a Torino Günter Grass si aggiudica il premio internazionale del «Grinzane Cavour» regolando in volata Jorge Amado, Elias Canetti, Eugéne Ionesco e Milan Kundera.
Milan-Foggia. A Milano Fabio Capello prepara i rossoneri per la sfida dell’indomani contro il Foggia a tre punte di Zdenek Zeman. Ad Ascoli il calcio è passato in secondo piano, complice una squadra ultima in classifica e una bomba carta esplosa qualche giorno prima sotto l’abitazione del tecnico Giancarlo De Sisti detto Picchio. «Con tutti gli schiaffoni che abbiamo preso, anche una mummia si sarebbe risvegliata», sorride l’allenatore della Sampdoria Vujadin Boskov, reduce da una crisi lasciata alle spalle con tre vittorie di fila. Non si placano, invece, le polemiche sulla morte di Miran Schrott, il giocatore della serie B di hockey deceduto dopo essere stato colpito dal bastone di un avversario. Forse, dicono a Courmayeur, un defibrillatore avrebbe potuto salvarlo. Ma il defribillatore più vicino, purtroppo, stava ad Aosta. Agli Australian open di tennis avanzano gli uomini Curier, Stich, Krickstein, Krajicek, Rosset e le donne Capriati, Maleeva, Monami, Sabatini, Fernandez e Garrison.
La Bmw sotto casa. A sera, da Londra, arriva la notizia che una bambina di cinque anni ha ottenuto da un Tribunale il risarcimento record di due milioni e mezzo di sterline, che in lire fanno cinque miliardi. A causa di un errore dei medici, la piccola Alexandra Mulligan ha subìto dalla nascita danni cerebrali che la costringono su una sedia a rotelle. La bimba “reagisce” solo quando ascolta Nessun dorma cantata da Luciano Pavarotti. Fuori è buio. Eluana Englaro, da Lecco, spegne la tv e si prepara per la serata. È sabato sera. A dire il vero è stanca. Non le va di uscire. Ma gli amici insistono. Al Kalcherin di Garlate c’è una festa. La Bmw di papà Beppino è parcheggiata sotto casa.
Silvio e le belle del Biscione. Quell’harem chiamato Canale 5
di Tommaso Labate (dal Riformista del 1 giugno 2009)
– «I nostri programmi sono terminati. Domani sera, a partire dalle 20 e 30, vi proporremo un’agghiacciante maratona della paura: Tre passi nel delirio. Sono tre film dell’orrore e questi i titoli: Creepshow, L’ascensore e Ballata macabra. I primi due sono in prima assoluta per la televisione. Mi raccomando, non perdeteli. Non mi resta che ringraziarvi per averci seguito e darvi appuntamento a domani. Buonanotte».
(Gabriella Golia, un giorno qualsiasi del 1986, augura la buonanotte ai telespettatori di Italia 1).– «Da grande voglio fare la showgirl. Ho studiato danza, ho iniziato a sei anni. Mi interessa anche la politica… Preferisco candidarmi alla Camera, al Parlamento. Ci penserà Papi Silvio».
(Noemi Letizia, primavera del 2009, si presenta agli italiani).
Nella preistoria di Re Silvio, la velina di Neanderthal – che «velina» in senso stretto non era, come non lo è Noemi – annunciava, conduceva, presentava, «buongiorno» e «buonanotte», mostrava e non mostrava, immancabilmente voleva recitare, in ogni caso ballava, sempre e comunque, «come la Carrà».
La velina di Neanderthal si chiamava Gabriella detta Gabriellina, o Giannina, ovvero Antonella, Kay, Katia, Cinzia, Fiorella, Eleonora, Patrizia, Emanuela. Oppure «la Cavagna», dal cognome dell’Angela di ieri che un po’ rimanda a quello della Mara di oggi.
Della velina neanderthalis, nata e cresciuta alla corte di Re Silvio, non rimangono che ricordi ogni giorno più sbiaditi. Niente seggi, né a Strasburgo né a Montecitorio.
A qualcuna è toccato in sorte il limbo delle televendite, altre sono scomparse nel nulla, una sola – Giannina Facio maritata Scott (nel senso del regista Ridley) – bazzica Hollywood come fosse il bar sotto casa. Tutte, o quasi, sono mamme di famiglia. Mami.
Nessuna, però, sta più a Corte. Come se il Cavaliere, sotto sotto, fosse un Chronos che le “figlie” (quelle con le virgolette) finisce per mangiarsele. Tra il passato remoto e il presente c’è un solo punto in comune. Né segretarie, né collaboratori: quando s’illumina d’immenso Re Silvio non sceglie intermediari. È sempre lui in persona ad alzare il telefono. Oggi con Noemi. Ieri con Gabriella.
«PRONTO? SONO BERLUSCONI»
Un giorno del 1975, Gabriella Golia, milanese, classe ’59, sale sul treno per raggiungere la provincia di Piacenza e torna a casa con la fascia di Miss teenager. Dentro di sé coltiva il sogno di fare la ballerina alla Scala ma capisce che, tanto per cominciare, è meglio fare qualche pubblicità. «Finché mi nota il regista di Antenna nord e mi chiama per un provino», ha raccontato a Libero in un’intervista di due anni fa.
La telefonata più importante arriverà poco tempo dopo, quando Gabriellina fa già l’annunciatrice di professione. Il dottor Silvio Berlusconi, proprietario di Tele Milano, le chiede un appuntamento e le propone un contratto: «Stai un anno ferma e poi…». Lei oppone il gran rifiuto: «E poi – fa come per giustificarsi – avete già Eleonora Brigliadori».
Il futuro premier incassa, porta a casa, ma studia la controffensiva. Quindi, dopo aver aperto Canale 5, ingloba Antenna nord. E quando l’annunciatrice se lo ritrova, in una cena con molti invitati, Berlusconi chiede il silenzio e spiega: «Visto che la Golia non aveva accettato di venire a lavorare da me, allora ho comprato tutta la rete in cui lavorava». È l’inizio di un sodalizio durato quasi vent’anni.
Un quasi ventennio in cui l’occhio azzurro di Gabriellina regnerà sull’inizio e la fine delle trasmissioni, oltre che sui set delle sit-com Emilio e Vicini di casa, e sui palcoscenici di Vota la voce, Azzurro e Tutto di tutto. Nel ’97, quando è incinta di Tommaso, la Golia viene allontanata. Le propongono un contratto a termine, tanto – le dicono a Cologno Monzese – «le annunciatrici le aboliremo». Sugli occhi più famosi della tv commerciale, quelli di Gabriellina fattasi «mami», cala il velo della tristezza.
LE TETTE DI DESTRA
Angela Cavagna, genovese, nata nel ’66, entra nella scuderia del Cavaliere nella seconda metà degli anni Ottanta. Come antipasto, la piazzano in Transistor al fianco dei Trettrè, il trio comico che aveva conosciuto la gloria in Drive in. Quindi, Antonio Ricci la veste da infermiera e porta la sua quinta abbondante (o era una sesta?) davanti alle telecamere di Striscia la notizia.
In pochissimo tempo, la soubrette genovese diventa l’alfa e l’omega delle «truppe mammellate» (il copyright è di Dagospia) di Fininvest. La notorietà di Angela cresce al tal punto che l’improvvisa discesa provocherà non pochi dolori. Quando nel 1996 arriva a prendersi anche il ruolo di «Genuflessa» nel film Chiavi in mano, la stella ormai è caduta.
Si professa «tetta di destra», ma non basta. Quindi, un po’ per vocazione un po’ per dispetto, si presenta alla redazione della Padania, paga 20 euro e si iscrive alla Lega nord. «Per molto tempo la televisione mi ha emarginata per le mie idee politiche», confesserà l’ex “infermiera” più avanti. Fino all’anno scorso teneva un blog, per aggiornare i (pochi) fan delle (poche) ospitate televisive e dei (pochissimi) inviti a Corte. La convocano per il ventesimo compleanno di Striscia. E lei approfitta dell’occasione lanciando dal palcoscenico «i volantini del mio ristorante». Ma questa è già storia moderna.
IL NO DELLA BRIGLIADORI
Ma è solo tornando alla preistoria che si rintracciano le divine che hanno colpito davvero, al cuore, il Cavaliere. Leggenda vuole che tra le preferite ci fosse Eleonora Brigliadori, ex telefonista di Portobello, chiamata a Corte nel 1980 coi galloni di «volto ufficiale di Canale 5». Stando a una voce che a trent’anni di distanza rimbalza ancora tra le mura dell’Impero, pare l’Eleonora abbia resistito a più d’un corteggiamento prima di fare le valigie e tornare in Rai, tra le braccia di Pippo Baudo e in compagnia di Heather Parisi (Fantastico 5).
Non c’è solo la Brigliadori. Anche Cinzia Lenzi, miss Italia 1980, abbandonerà Fininvest nel ’90, dopo un qualche anno da miss Retequattro: «Ho preferito – dirà – dedicarmi solo alla mia famiglia». Mami anche lei, come la Golia. Al suo posto, brillerà la stella di Emanuela Folliero.
FABRIZIA «10 E LODE»
Di fronte al fascino di Berlusconi si sciolse, dapprima solo in un lungo bacio davanti al Duomo, Fabrizia Carminati, altra velina di Neanderthal. La bionda pioniera di Canale 5, spalla di Bongiorno, farà outing sul rapporto col Cavaliere soltanto nel 2007, intervistata da Libero. La storia di Fabrizia e Silvio inizia a Milano 2, durante la registrazione di un quiz di Mike, inizio anni Ottanta. Ammica lui, ammicca lei, ma è lui – separato da Carla dall’Oglio e momentaneamente single – a fare il primo passo.
La invita a cena ad Arcore, ma non succede niente. La porta in giro per Milano, e scatta il primo bacio davanti al Duomo. Quindi la passione. «Dieci e lode», ha confessato Carminati due anni fa, ma niente happy end. Lei è innamorata di Mimmo, il suo fidanzato e non lo vuole lasciare; sempre lei accompagnerà Berlusconi al Teatro Manzoni, suggerendogli di presentarsi con un mazzo di fiori nel camerino dell’attrice del Magnifico cornuto, una certa Veronica Lario.
Nel 2004, dopo essere sparita dagli schermi Fininvest, l’ex velina di Mike si è candidata alle Europee e ha varcato, a distanza di un ventennio, il cancello di Arcore. Rivedendola, Berlusconi le ha sussurrato in un orecchio: «Sei sempre una bella figa». Una scena, questa, praticamente identica al finale del vanziniano Sapore di Mare, quando Jerry Calà rivede Marina Suma dopo una vita. Ma senza Celeste nostalgia di Cocciante in sottofondo.
IL BUCO NERO DI COLOGNO
Gabriella, Angela, Eleonora, Fabrizia e le altre. Veline di Neanderthal, nate alla corte di Re Silvio e finite, quasi tutte, a fare soprattutto le mogli e le mamme. Dimenticate ma non dimenticabili. Inghiottite, chissà perché, dal misterioso buco nero di Cologno Monzese. Lo stesso che, per altri motivi, s’è divorato pure la passionaccia di Enrico Mentana e l’allegria di Mike Buongiorno. Ma questa è attualità. Non preistoria.
Corrado Orrico. Il Maestro di Volpara e la sua gabbia.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 18 luglio 2010)
«La struttura della Gabbia riproduce quella di un campo di calcio, di dimensioni ridotte e variabili, ma in cui la presenza di barriere (originariamente una gabbia, appunto) impedisce l’uscita del pallone dal campo di gioco. Queste barriere, oltre a poter variare per dimensioni e materiali, possono interessare solo i bordi del campo oppure creare anche una sorta di soffitto che copra lo stesso». (Dalla voce «Gabbia (calcio)» di Wikipedia).
«In the 1990s, Juventus (with Gigi Maifredi) and Inter (with Corrado Orrico) both tried to revoluzionize their teams with supposedly spectacular systems of play. Both experiments ended in a disaster». (John Foot, A history of Italian football, 2006, pagina 221).
È bastata una frase smozzicata. Un inciso. Una di quelle cose che, se riportate per iscritto, finiscono all’interno di un periodo lungo, inesorabilmente confinate tra due virgole. L’ha detta Rafa Benitez, il nuovo allenatore dell’Inter, quella Frase che, per quello che evoca, ha acquisito dignità da effe maiuscola. Smozzicandola, ovviamente. E facendola piombare nel caldo torrido di una normale conferenza stampa di metà luglio: «Recupereremo la gabbia e la palestra».
Ora chiunque non mastichi (o non smozzichi) di cose di pallone non può sapere, nel momento in cui s’imbatte davanti alla tivvù nel faccione tondo del mister spagnolo, che quest’ultimo ha appena menzionato la parola «gabbia» nell’unica accezione in cui la stessa non dà l’idea di «prigione», di «costrizione», di «servitù». Ma, al contrario, di «fantasia», di «bellezza». Di «libertà», insomma. Perché la gabbia di cui ha parlato Benitez in quell’inciso – «Recupereremo la gabbia e la palestra» – è legata agli schemi di un profeta del calcio di vent’anni fa. Un profeta fallito. Corrado Orrico.
UN PROFETA DI PERIFERIA. Quando arriva all’Inter, nell’estate del 1991, Corrado Orrico è un acclamato santone di periferia. Difese solide e calcio spettacolo. Messa così pare la via di mezzo tra un ossimoro e la perfezione. Il problema è che le sue idee, il cinquantenne Orrico, le ha sviluppate nelle serie minori. Quasi sempre in squadre che finiscono per “-ese”, come succede alle Cenerentole: Sarzanese, Carrarese, Massese, Udinese, Lucchese. Quando Gianni Brera lo battezza «Maestro di Volpara», dal nome del borgo carrarese da cui proviene, il profeta è già a Milano con la lista di richieste da sottoporre all’attenzione del presidente nerazzurro Ernesto Pellegrini, che cercava la risposta interista al sacchismo (nel senso di Arrigo) prodotto da Berlusconi. La richiesta, in realtà, è una sola. E non si tratta del ritocco allo stipendio bassissimo («Da operaio specializzato»), di calciatori da acquistare o di un collaboratore da far assumere a tutti i costi. Tutt’altro. «Per portare qui il mio calcio – dice Orrico – ho bisogno di una sola cosa. Dobbiamo costruire una gabbia». E gabbia fu.
IL MAESTRO DI VOLPARA. È il Primo comandamento del Maestro di Volpara: «La gabbia serve a tante cose: ad affinare la tecnica, a sviluppare i riflessi, a velocizzare il gioco, a migliorare la condizione fisica perché si gioca senza un attimo di sosta e, a livello organico, è un impegno mica da ridere». Al centro tecnico dell’Inter di Appiano Gentile, siamo nel luglio 1991, Orrico perde una settimana insieme a un ingegnere per progettare una gabbia ultramoderna. Il costo finale per la realizzazione dell’opera si aggira attorno ai trecento milioni di lire. «Occorreva», avrebbe raccontato anni dopo il Maestro, un materiale insonorizzato per attutire i rumori e un altro per aumentare la velocità del pallone». Il tutto funzionale all’elaborazione di un calcio pratico come la prosa e musicale come la poesia. Ossimoro e perfezione. Libertà. Ma la squadra mugugna. Perché in gabbia si sta chiusi, perché il pallone schizza come la pallina di un flipper, perché non c’è un attimo di pausa. Walter Zenga, il portiere, fa il capofila degli scontenti. Di quelli che, quando arriva l’ora della gabbia, vengono presi dai conati di vomito. Jürgen Klinsmann, il centravanti campione del mondo con la Germania, resiste anche perché, nelle pause dalla gabbia, almeno lui trova ristoro per l’anima conversando col Maestro di libri d’arte.
LA VISIONE, A LIVORNO. Com’era nata, la gabbia? Orrico ha sempre ammesso di non aver inventato nulla. «Il merito è di quei ragazzini che giocavano sulle spiagge livornesi. Semmai sono stato il primo a scoprire la gabbia e a utilizzarla in modo scientifico negli allenamenti». La Visione risale a un’estate della metà degli anni Sessanta. La Livorno operaia, quella dei portuali e dei figli dei portuali, degli operai e dei figli degli operai, si riversa in brache di tela verso il mare sotto casa. Ci sono le urla di gioia e i ghiaccioli colanti a causa del solleone, le mamme con la borsa di paglia e i papà coi baffoni come quelli di Giuseppe Stalin, i bambini e il pallone. Il Maestro di Volpara, che ancora maestro non era, se li trova davanti, i gabbioni. «Campetti di calcio quasi in riva al mare, in cemento, avvolti da una rete tirata su per evitare che il pallone finisse ogni due minuti in acqua». Eccola, la Visione. In uno di quei campi, ma questo Orrico non lo può sapere, il livornese Armando Picchi, anche prima di diventare il capitano della Grande Inter, trascorreva le sue estati. Leo Picchi, suo fratello, avrebbe poi tramandato la storia di quelle giornate torride ai Bagni Fiume: «Ogni giorno si finiva nella gabbia. Partite interminabili, a piedi nudi. I primi calci erano terribili, perché ti venivano le vesciche. Poi il piede faceva il callo. Potevi chiamarti Mazzola o Suarez, ma dentro la gabbia ognuno perdeva le sue stellette. Se c’era da picchiare, si picchiava. Se c’era da stringere qualcuno sulla rete, lo si stringeva. E pazienza se il dito ci rimaneva dentro».
LA SCOMMESSA. Orrico elabora la Visione avuta nelle spiagge livornesi. E il suo gioco a zona, fatto di una libertà che s’alza in volo da una gabbia, inizia a fare il giro dei campi della Toscana. Carrarese e poi Massese, Camaiore e poi di nuovo Carrara, dove porta la squadra di casa dai dilettanti alla C1. Il miracolo si arresta all’Udinese, dove fallisce nella sua prima esperienza nella massima serie (esonerato dopo ventidue giornate). Ma il Maestro risorge dalle ceneri e torna in auge. Ancora alla Carrarese, poi a Prato, quindi a Lucca, dove lo champagne che sgocciola dal suo calcio consente alla Lucchese di sfiorare la promozione in serie A. È la primavera del 1991. L’Inter di Pellegrini ha già deciso di affidare al Profeta della gabbia le chiavi del dopo Trapattoni e soprattutto il guanto di una grande sfida: superare con un asso di briscola tutte le carte del Milan di Sacchi.
«GABBIA DI MATTI ». Dopo un’estate nella gabbia, la squadra di Orrico si presenta il primo settembre al taglio del nastro del campionato 1991-92. A San Siro è di scena il Foggia di don Pasquale Casillo e Zdenek Zeman, che quel giorno esordisce in serie A. Tutti si aspettano che l’Inter del crepuscolo di Matthaus annienti le neo-promossa. Invece no. Gli uomini del boemo vanno in vantaggio con Ciccio Baiano e i nerazzurri pareggeranno con la riserva Massimo Ciocci. Ma l’uno-a-uno finale del tabellino, da solo, non racconta lo spettacolo di una partita che un tempo si sarebbe detta «ricca di capovolgimenti di fronte». Tiri e parate, tanti fraseggi zero dribbling, tutto collettivo e niente singolo. Il «WM a zona» creato in una gabbia dal Maestro di Volpara contro il calcisticamente eterodosso 4-3-3 del Maestro di Praga. In quarantamila si godono uno spettacolo che pare uscito da una canzone di Sergio Caputo. Una partita swing and soda, con sprazzi di jazz, atmosfere da night club e tanto alcol. Anche se sono le quattro di pomeriggio. Per Orrico, però, l’inizio coincide col declino. La squadra, abituata a giocare a uomo, non digerisce la nouvelle vague zonista. Vince a Roma con la Roma e in casa col Verona. Ma poi comincia a barcamenarsi tra sconfitte e pareggi fino a che, dopo il crollo con l’Atalanta a Bergamo, il Maestro di Volpara saluta tutti e se ne va. A fine partita Amedeo Goria gli porge il microfono della Rai: «In fondo sono i calciatori che vanno in campo. Non pensa che le colpe siano di tutti?». E lui, con quella dignità che può trasformare anche il più piccolo degli uomini in un eroe: «Ringrazio tutti, i giocatori e il presidente. Purtroppo ho fallito. Se me ne vado vuol dire che la colpa è solo mia». È il 19 gennaio 1992. L’Inter di Orrico è pronta per il dimenticatoio. Con l’etichetta fissata da un titolo del “Guerin sportivo”: «Gabbia di matti».
IL MAUSOLEO. I resti della gabbia fatta costruire da Orrico sono sopravvissuti ad Appiano Gentile per anni. Un mausoleo fatiscente alla memoria di una grande illusione. Quando nel 2002 arrivò ad allenare l’Inter, Roberto Mancini chiese che quella cattedrale venisse trasformata in un campetto coperto. E pensare che, pochi mesi prima, la Nike aveva recuperato l’idea orrichiana per la fortunata campagna pubblicitaria in cui i grandi calciatori dell’epoca (Totti, Figo, Ronaldo, also starring Cantona) si sfidavano all’interno di una gabbia, appunto. Oggi, a tanti anni di distanza, Rafa Benitez recupera l’Idea. Infilando un sogno dentro una frase smozzicata. E il Maestro di Volpara, che ora ha quasi settant’anni?
LE CARTE IN REGOLA. È un uomo triste, oggi, Orrico. Come tutti i padri che sopravvivono ai figli. Il suo, di figlio, s’è suicidato l’anno scorso. E neanche la casa di Volpara c’è più. «L’ho messa in vendita», disse in un’intervista al “Tirreno”. «Io non ho debiti, ma vivo con la pensione da operaio e non basta per gestire quella proprietà». E poi, aggiunse, «sto bene perché vivere con il salario di un operaio specializzato mi fa essere più in sintonia con il partito che ho sempre votato». Il ricordo dell’Inter è lontano anni luce. Nessun rimpianto tranne uno, nel cuore del Maestro: «Con il denaro si possono acquistare molti libri. Per il resto ho poche esigenze. Quello che mangio, ad esempio, me lo coltivo da solo». E a uno viene quasi da immaginarselo, Corrado Orrico, negli anni Sessanta. Mentre guarda quei ragazzi giocare a pallone chiusi nei gabbioni. E visto che la scena è ambientata a Livorno, sembra di sentire la voce di Piero Ciampi che canta in sottofondo: «Ha tutte le carte in regola/ per essere un artista/ Ha un carattere melanconico/ beve come un irlandese./ Se incontra un disperato/ non chiede spiegazioni… ».