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«Qua scoppia un casino». Nel Papa day c’è anche Tedesco. E la paura dei forconi contagia il Pd.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 luglio 2011)
È il rischio del «tutti nello stesso calderone». La paura bipartisan del «domani (oggi, ndr) ci aspetteranno fuori dal Palazzo coi forconi», che ha il volto terreo di Dario Franceschini.
Perché oggi pomeriggio, nel centro della Capitale, potrebbe tornare a materializzarsi «l’incubo del 1993». Quello del «cappio» idealmente agitato in faccia a tutta la politica. Alle 16, l’Aula di Montecitorio si esprimerà a scrutinio segreto (chiesto da Scilipoti e dal gruppo dei Responsabili) sulla richiesta d’arresto per il deputato del Pdl Alfonso Papa. Alla stessa ora, dopo una richiesta avanzata da Nicola Latorre a nome dei vertici del gruppo del Pd, l’assemblea di Palazzo Madama deciderà sull’arresto del senatore democratico Alberto Tedesco. Tra i due casi c’è un abisso. Soprattutto perché Tedesco, a differenza di Papa, si alzerà in piedi e prenderà la parola per chiedere agli «onorevoli colleghi» di votare a favore della richiesta dei magistrati che indagano sulla Sanitopoli pugliese. E anche perché il Partito democratico, come ha spiegato oltre i confini dello sfinimento il segretario Pier Luigi Bersani, «è nettemente contrario al voto segreto e voterà sì a entrambi gli arresti».
Ma che cosa succederebbe se, complice una forzatura dei senatori della maggioranza («Gli unici che possono imporre il voto segreto a Palazzo Madama sono quelli del Pdl», spiega Nicola Latorre), Camera e Senato respingessero l’una l’arresto di un deputato del Pdl, l’altra quello di un senatore del Pd? Che cosa accadrebbe se la mossa del Pd di sincronizzare i due voti («L’abbiamo fatto proprio perché giravano voci strane di “scambio”», insiste il senatore dalemiano) si rivelasse un autogol? Il rischio è quello del «tutti colpevoli», a prescindere. Tutti nello stesso frullatore: Papa, Tedesco, Pdl, Pd.
E qui si ritorna al volto preoccupato di Dario Franceschini. Che, a metà pomeriggio di ieri, abbandona l’Aula e raggiunge alcuni dei suoi nel cortile di Montecitorio. «Maledetto voto segreto. Ora ditemi che cosa devo fare. Secondo voi è meglio convocare un’assemblea di gruppo, così si vede che almeno siamo tutti presenti?», dice rivolto ad alcuni colleghi e amici che hanno trovato riparo sotto un gazebo. «La concomitanza con il voto su Tedesco al Senato rischia di trasformarsi in un casino», è l’opinione del deputato Francesco Tempestini. «Una scelta inopportuna», la chiama un altro esponente del Pd, Dario Ginefra. «Una caz…ta», dirà più tardi Enrico Letta a Bersani.
Franceschini e tutta la sua truppa sanno che il voto segreto può trasformare il pomeriggio di oggi in un dramma. È lui stesso che cerca i cronisti per ribadirlo in tutte le salse. «Avete carta e penna?», chiede a due colleghe delle agenzie di stampa. «Il Pd voterà compatto per l’arresto di Alfonso Papa. E soprattutto non chiederà il voto segreto, perché in un momento come questo deve essere tutto trasparente e perché serve un’assunzione chiara di responsabilità», aggiunge. Il sospetto, quanto mai legittimo, è che il Carroccio sfrutti la segretezza della decisione per “salvare” Papa. Salvo, un minuto dopo, “bombardare” il Palazzo. Franceschini lo dice chiaramente: «Questi guerrieri padani si nascondono dietro il voto segreto. Un minuto dopo, però, diranno che è tutta colpa nostra…».
La paura dei «forconi» cresce. E contagia tutti, nessuno escluso. Ugo Sposetti, il tesoriere dei Ds che
ha (meritata) fama di iper-garantista, lo dice senza troppi giri di parole: «Voto a favore dell’arresto, sia chiaro. Ma domani (oggi, ndr) potrebbe essere una giornata drammatica per tutto il Parlamento». A qualche metro da lui, sprofondato con lo sguardo assente su un divanetto del Transatlantico, il giovane responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando scuote la testa: «È un casino, un casino…». Identico lo sguardo della trentenne parlamentare campana Pina Picierno, nota per le sue battaglie contro la camorra: «Ma vi rendete conto che io, che sfido ogni giorno a viso aperto il clan dei casalesi, tra qualche ora potrei ritrovarmi in mezzo alla strada con la gente che mi punta l’indice contro? No, non ci sto…». Il lettiano Francesco Boccia allarga lo spettro: «Stamattina m’ha chiamato il giovane dirigente di una Asl pugliese e m’ha riferito i commenti della povere gente costretta da questa manovra a pagare il ticket. M’ha detto che, ai loro occhi, ormai siamo “quei bastardi”. Proprio così: “Quei politici bastardi…”».
Ancora poche ore. Poi, sui tabelloni luminosi di Camera e Senato, sarà scritta una sentenza che va ben oltre i destini personali di Alfonso Papa e Alberto Tedesco. Tolti gli astenuti, non si saprà chi ha votato a favore e chi contro. Ma di fronte al rischio che la situazione travolga tutti – colpevoli e non – l’opposizione potrebbe meditare su scelte ad effetto. Abbandonare l’Aula, minacciare le dimissioni di massa, tirarsi fuori dal «cappio» che la stessa Lega potrebbe tornare ad agitare. Bersani lo ripete: «Andiamo a votare». Più che tattica politica, ormai pare una supplica. «Dobbiamo salvare il Paese».
Il grande incubo del Pd al Sud.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 21 maggio 2011)
Meno male che esiste la Basilicata. Perché altrimenti – viste le macerie lasciate dai democrat in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania – nel Sud Italia quel Pd partito alla reconquista del Nord si troverebbe al lumicino.
In Sicilia, l’unica regione che non è stata interessata dall’ultima tornata elettorale, le divisioni che si sono prodotte dentro il Pd sul sostegno al governatore Lombardo sono lontane dall’essere ricomposte.
In Calabria, invece, l’uscita di scena di Agazio Loiero e il lungo periodo di commissariamento del partito regionale hanno finito di fatto per svuotare tanto le piazze quanto le urne del Pd. Transizioni mal gestite, rancori personali, faide correntizie. Lasciando perdere la débâcle delle ultime regionali, tutto questo (e anche di più) si ritrova plasticamente riprodotto nell’ormai celebre caso Cosenza. Dove il sindaco uscente Salvatore Perugini passa dall’elezione al primo turno del 2006 (24.346 voti, pari al 53,83 per cento) a un misero terzo posto (6.664 voti, 15,60 per cento). Tra i candidati arrivati al ballottaggio – Enzo Paolini del centrosinistra e Mario Occhiuto sostenuto dall’Udc e dal centrodestra – i democrat sosterranno il primo. Con buona pace di chi, come il consigliere regionale espulso dal Pd Nicola Adamo, sostenitore di Perugini al primo turno, ha salutato l’imminente arrivo di Bersani a Cosenza con cotanto bigliettino: «Apprezzo il segretario, che a livello nazionale ha dato un’indicazione corretta. Ma Cosenza rappresenta una specificità. Occhiuto e Paolini sono due candidati di centrodestra. Il secondo era il candidato di Dell’Utri, non ha nulla a che fare col centrosinistra».
Tolte le fisiologiche difficoltà del Pd pugliese, che derivano in buona parte dalle lacerazioni prodotte dal «caso Tedesco», e l’encomiabile eccezione della Basilicata, in cui si riproduce da anni il modello di un partito vincente, rimane il dramma della Campania. Che deriva principalmente dallo sperpero di consensi che il Pd ha subito a Napoli negli ultimi tre anni.
Andrea Orlando, il giovane responsabile Giustizia del partito che Bersani ha mandato nel capoluogo campano dopo il caos primarie, sta provando a risollevare il Pd provinciale. «È vero, in città abbiamo lasciato per strada parecchi consensi. Però siamo al ballottaggio a Marano e Casoria, abbiamo vinto a Melito, mentre a Pozzuoli siamo rimasti fuori dal secondo turno per una decina di voti».
Ma il partito regionale è nel caos. Qualcuno cerca di cavarsela ostentando il “successo” (virgolette d’obbligo) di Benevento, che però va ascritto alle divisioni di un centrodestra che s’è spaccato in due tronconi. Altri citano la riconferma schiacciante di Enzo De Luca a Salerno, che però è una vittoria personalissima di un sindaco che ha preteso l’assenza del simbolo del Pd dalle liste. Il resto è noia. Il Pd si perde per strada Caserta e gran parte dei comuni circostanti. Quanto a Napoli, la flessione del partito negli ultimi anni è un’immagine che farebbe impallidire persino quella del Titanic dopo l’impatto con l’iceberg.
Le cifre? Alle comunali napoletane del 2006, Ds e Margherita sommavano 155.893 voti. Pari al 31,27 per cento dei votanti. Alle politiche del 2008, le neonate liste del Pd arrivarono a 182.252 preferenze, 34,99 per cento. Nel 2009, l’anno in cui Enzo Amendola è stato eletto segretario regionale, il trend s’è invertito. Alle regionali del 2010, a Napoli il Pd ha preso 101.439 voti (25,42 per cento). Alle comunali della settimana scorsa, il crollo verticale: 68.018 voti (16,59 per cento). Morale della favola? Diciotto punti percentuali persi in tre anni. Una performance degna del conte Mascetti interpretato da Ugo Tognazzi in Amici miei, che non accontentandosi di aver dilapidato il patrimonio proprio, s’era divorato anche quello della moglie.
Progetti per la risalita? Piani d’emergenza? Per adesso tutto è appeso all’elezione di Luigi de Magistris, che ha escluso ogni apparentamento. «La mia candidatura è alternativa a Lettieri ma anche al bassolinismo», ha scandito l’eurodeputato dell’Italia dei valori intervistato da Repubblica tv. «Quindi un apparentamento formale con il Pd», ha aggiunto l’ex pm, «non era giusto. E io non ci credo per nulla». Sono le condizioni ideali, in fondo, con cui l’ex pm potrà dire di aver vinto comunque e perso mai. Come a dire “se vinco vinco io, se perdo hanno perso gli altri”.
Gli altri, nel senso del Pd, provano a marciare uniti. Umberto Ranieri, responsabile Mezzogiorno, domenica farà un’iniziativa con de Magistris. Il resto della ciurma, seppur impegnato ventre a terra per l’elezione dell’ex pm, ha già la mente proiettata al dopo voto. C’è già un evento, annunciato per giugno, di cui si stanno occupando la responsabile scuola Annamaria Parente e il segretario Enzo Amendola. «Il nuovo progetto della Formazione Politica destinato a 2000 ragazze e ragazzi, con meno di 35 anni, provenienti dalle regioni del sud e delle isole con esperienza amministrativa, dirigenti di partito e impegnati nell’associazionismo e nel sindacato», recita il comunicato sulla kermesse. Pare il remake dell’iniziativa Mezzogiorno di fuoco, organizzata dai big del Pd meridionale – also starring Michele Emiliano – qualche mese fa. Il fuoco è rimasto. Peccato che il mezzogiorno del Pd meridionale si sia trasformato in mezzanotte.