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Il Pd teme schizzi di fango dall’inchiesta Enav. Berlinguer riunisce la commissione di garanzia: «Attenti a quello che può arrivare dal caso Finmeccanica»
di Tommaso Labate (dal Riformista del 30 novembre 2011)
Difficile dire se si tratta semplicemente di eccesso di zelo. Oppure se, al contrario, «quelle strane voci», come le chiamano alcuni dirigenti del partito, hanno un qualche fondamento. Sta di fatto che da qualche giorno, dentro il perimetro del Pd, più d’uno ha iniziato a temere «possibili schizzi di fango» dal caso Enav-Finmeccanica.
Voci incontrollate? Ricostruzioni campate in aria? Tutt’altro. Infatti, la discussione sull’eventualità che qualche dirigente del Pd sia chiamato (a ragione o a torto) in causa sul dossier è stata oggetto di una riunione ufficiale della commissione nazionale di garanzia del partito.
È successo lunedì pomeriggio, due giorni fa. Quando, nel bel mezzo di un incontro apparentemente di routine, il presidente dell’organismo Luigi Berlinguer ha gelato i presenti col ragionamento che segue: «Visto che tira un’aria da campagna elettorale, stiamo attenti a quello che potrebbe succedere da qui a breve. E soprattutto, evitiamo di farci scavalcare dagli eventi com’è capitato mesi fa con il caso Penati».
Di fronte allo stupore degli altri membri della commissione, l’ex ministro della Pubblica istruzione ha chiarito di riferirsi all’inchiesta che riguarda Enav e Finmeccanica. Quella condotta dalla procura di Roma, i cui verbali hanno riempito nelle ultime settimane le pagine dei quotidiani, arrivando a colpire (mediaticamente, per adesso) soprattutto Pdl e Udc.
Difficile fare congetture sull’uscita di Berlinguer, che nella sua carriera è stato anche componente laico del Consiglio superiore della magistratura. Ma due altre stranezze, sulla riunione della commissione di garanzia che ha avuto luogo al Pd quarantott’ore fa, vanno registrate. La prima è tutta nella confidenza che fa al Riformista uno dei componenti del gruppo: «A differenza di quanto accade prima delle nostre riunioni, a quella di lunedì ci avevano pregato di venire tutti. Un po’ strano, soprattutto se si pensa che all’ordine del giorno c’erano il Pd di Tivoli e i mal di pancia contro Debora Serracchiani in Friuli». La seconda è che, effettivamente, alla riunione presieduta da Berlinguer si presentano tutti. «Anche chi», aggiunge la fonte, «di solito marca visita».
Pensava alle «strane voci» sul caso Enav-Finmeccanica chi, dentro il partito, si è premurato di avere la commissione di garanzia riunita al gran completo? E soprattutto, si domanda un alto dirigente del Pd, «davvero rischiamo che la macchina del fango abbia gli strumenti per chiamare in causa qualcuno di noi sull’inchiesta di Roma?». Domande che, per adesso, non hanno alcuna risposta.
Nel frattempo, all’interno del Pd, la tensione rimane alta. A Pier Luigi Bersani, ad esempio, non sono piaciute affatto alcune «fughe in avanti» nel dibattito che s’è aperto all’indomani della nascita del governo Monti. Da alcune dichiarazioni di Stefano Fassina alla richiesta di dimissioni dello stesso responsabile economico del partito, messa nero su bianco la settimana scorsa dall’area dei liberal di cui fa parte anche Pietro Ichino. Per questo il segretario ha chiesto una specie di moratoria. E l’ha fatto nella relazione alla riunione della segreteria del partito, andata in scena ieri al Nazareno. «Siamo in un momento molto delicato», è stata la premessa del leader. «Di conseguenza, pregherei ciascuno di voi, compresi gli alti dirigenti, di lasciare che sia solo io nelle prossime settimane a fissare pubblicamente la linea del partito». Un modo come un altro per dire, a suocere e nuore, che «il timone lo tengo io». Almeno fino a che non sarà passata la buriana.
L’aria di tempesta, infatti, si respira ancora. Il responsabile cultura Matteo Orfini, bersaniano doc, l’ha ribadito ieri, arrivando anche a ventilare l’ipotesi di un congresso anticipato: «Sono state settimane in cui la conflittualità interna, anche su temi decisivi, è stata molto alta. Se dobbiamo andare avanti così – è stata la subordinata di Orfini – meglio fare chiarezza una volta per tutte. Se serve, anche convocando un congresso». Ipotesi che, al momento, viene scartata dalle minoranze. «Le scelte quotidiane nel sostegno alle misure del governo Monti», ha scritto Beppe Fioroni in una nota, «segneranno la differenza tra chi si impegna per l’interesse del Paese e chi invece si interessa ai fatti suoi».
Milanese adesso parla in codice. E Giulio finisce sotto tiro.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 24 settembre 2011)
Ma come? La salvezza di Milanese non doveva coincidere con quella di Tremonti? Al contrario, nel giorno in cui il suo ex braccio destro viene salvato dal carcere, i berluscones avviano l’attacco finale contro «Giulietto». Pubblicamente. Con dichiarazioni a tappeto.
Non è vero che i conti non tornano. «È vero», come spiega uno smaliziato berlusconiano della prima cerchia del Cavaliere, «il contrario. I conti tornano perfettamente». Marco Milanese, da ex braccio destro di Tremonti, rischia di diventare il suo più grande accusatore. Nel partito del premier si sprecano le richieste di ridurre il potere del titolare dell’Economia «spacchettando il dicastero di via XX settembre». Come suggerisce – da ieri – anche Daniela Santanché. E il premier, a sentire i suoi confidenti delle ultime ore, è pronto a qualsiasi passo pur di provocare le dimissioni del suo ministro più odiato. Qualsiasi passo. Persino, come gli è balenato in testa negli ultimi giorni, «quello di tenere Giulio al Bilancio», promuovendo il collega che Tremonti odia di più – Renato Brunetta – «al Tesoro». Una suggestione, nulla di più. Destinata a rimanere tale soltanto perché, come più d’uno ha fatto notare al Cavaliere, «Bossi, che detesta Brunetta, si rivolterebbe come una furia».
Fin qui il gioco politico. La guerra tra chi sta con Berlusconi e chi con Tremonti. Che, parlando con un amico poche ore dopo il voto su Milanese, ha messo le mani avanti col fare di chi ha capito benissimo quello che si muove attorno a lui: «Tanto non mi dimetto. Non mi muovo da dove sto». È una guerra che, come in un classico caso di eterogenesi dei fini, sta portando tutta l’ala critica nei confronti del premier a schierarsi dalla parte di «Giulietto». Gianni Alemanno, che su Repubblica di ieri ha escluso una ricandidatura di «Silvio» nel 2013, lo dice chiaramente: «Tremonti ha sbagliato a disertare il voto su Milanese? Secondo me, no». Come lo dice Alessandra Mussolini, da tempo lontana dal berlusconismo ortodosso di Daniela Santanché e compagnia: «Con la sua assenza, Tremonti ha marcato una distanza, sapendo che le opposizioni volevano farci cadere e che c’era molta tensione sul voto. Dobbiamo accendere un cero a Sant’Antonio».
Ma fuori dal gioco politico, c’è una partita a scacchi dall’esito imprevedibile. Che collega i Palazzi della politica alle stanze delle procure. Il primo tassello di un puzzle scombinato è proprio Marco Milanese. Un uomo che, dopo essere stato salvato dall’Aula di Montecitorio, ha cambiato la propria posizione sulla scacchiera. Sembra parlare solo per messaggi in codice, ormai, l’ex braccio destro di Tremonti. Ieri, durante un’intervista a Klauscondicio, ha evocato «il tema» a cui probabilmente il superministro si riferiva quando, mesi fa, accusò Berlusconi di volerlo stritolare con la macchina del fango. Dice Milanese: «Certe dicerie sul rapporto tra me e Tremonti non mi hanno ferito assolutamente. Anche perché non ci sarebbe nulla di male, se non fossero inventate di sana pianta». Fin qui tutto, o quasi, nella norma. Ma il passaggio chiave dell’intervista a Klaus Davi è un altro: «Se fosse vero», dice sempre riferendosi alle dicerie di cui sopra, «non avrei timore a dirlo». E ancora, quasi a chiarire il concetto: «Ribadisco, anche fosse vero, non avrei timore a dirlo».
Passa qualche ora e Milanese si sottopone alle domande di Giuseppe Cruciani alla Zanzara, su Radio 24: «Penso ogni giorno a Papa (il deputato del Pdl arrestato a luglio, ndr) e vorrei andarlo a trovare ma non bisogna dimenticare che io sono un teste nel suo procedimento sulla P4». E le cordate nella Guardia di Finanza, che sono al centro di quell’inchiesta? «Sono solo ambizioni e legittime aspirazioni. Cordata è un termine sbagliato», dice adesso.
Tra i berlusconiani ortodossi c’è persino chi si sorprende dello stupore altrui. Chi si domanda retoricamente: «Ma pensate davvero che Milanese, dopo essere stato salvato dalla Camera, sia lo stesso uomo di prima?». E se non è lo stesso Milanese di prima, quale sarà la sua nuova parte in commedia? Il finiano Benedetto Della Vedova, riferendosi alle polemiche di giovedì sull’assenza di Tremonti da Montecitorio, dice: «Su di lui stanno usando un linguaggio da cosca». E Angiola Tremonti, intervistata a Un giorno da pecora su Radio Due, manda un consiglio al fratello: «Mandi tutti al diavolo. Che ci azzecca con questa gente?». Ma lui niente. Da dov’è, per adesso, non di muove. A Washington, dov’è in corso il vertice del Fondo monetario, parla di crisi («L’epicentro è in Europa, la situazione stavolta è complicata») e dice che «tocca alla Germania trovare una soluzione». Il ritorno in Italia, per lui, non sarà dei più semplici.
Tremonti, l’inchiesta di Roma e la deriva «pericolosa».
di Tommaso Labate (estratto dal Riformista del 31 luglio 2011)
Ancora poche ore, insomma, e si saprà se la guerra di poteri che si sta giocando sulle sorti della maggioranza produrrà i propri effetti collaterali sull’esecutivo durante o dopo l’estate. L’ultimo successore di Quintino Sella aveva dichiarato di essersi trasferito nell’appartamento del suo ex collaboratore Marco Milanese non solo «per una banale leggerezza». Ma anche perché nei locali delle Fiamme Gialle, «in caserma, non mi sentivo più tranquillo». Una scelta recente? Tutt’altro, a sentire le fonti qualificate della Guardia di Finanza citate ieri da un articolo di Repubblica. Che, se venisse confermato, dimostrerebbe che Tremonti non pernottava più nella foresteria della Gdf ormai dal 2004. Da sette anni.
Domanda: visto che di fronte alle accuse del superministro un’inchiesta della magistratura sembra quasi un atto dovuto, che tipo di ricadute agostane potrebbero esserci nella maggioranza e nel governo? Un autorevole esponente dell’opposizione, che mantiene canali di dialogo sotterranei con l’esecutivo, scommette su un’ipotesi che lui stesso definisce «pericolosa». Se venisse aperta l’inchiesta, «naturalmente Tremonti sarebbe chiamato a ripresentarsi davanti ai magistrati. E a confermare le accuse che ha già messo a verbale a mezzo stampa». Parallelamente a quel punto, aggiunge la fonte, «la stessa macchina del fango che s’è già messa in moto sulle inchieste che riguardano il Pd potrebbe concentrarsi per colpire il ministro dell’Economia e spingerlo verso le dimissioni».
L’articolo integrale lo trovate qui.