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Dal colloquio segreto con Maroni (che andrà a votare ai referendum) al Peroncino in direzione. Bersani pensa al 13.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 giugno 2011)
Alle 14 di ieri, assistendo a una direzione del Pd che non era mai stata così serena, Pier Luigi Bersani ha stappato un Peroncino e ha cominciato a sorseggiare la birra. Brindando all’«unità» e con un pensiero all’affluenza del referendum. A cui contribuirà, col suo voto, anche Roberto Maroni.
Nel giorno in cui il presidente della Repubblica ha risposto seccamente a chi gli chiedeva della sua presenza ai seggi («Sono un elettore che fa sempre il suo dovere»), Maroni avrebbe ufficializzato di fronte ai fedelissimi la sua intenzione di recarsi alle urne domenica per votare ai referendum. Una risposta scontata, se si pensa che il «Bobo» leghista è comunque il ministro dell’Interno. Un po’ meno se si ragiona sul fatto che il titolare del Viminale potrebbe essere il primo big del Carroccio a «uscire dai blocchi», ad annunciare che ritirerà quelle quattro schede che potrebbero condannare il berlusconismo.
Per capire che cosa c’entra tutto questo con Bersani bisogna fare un passo indietro di qualche giorno. Al 2 giugno, per la precisione. Al Riformista risulta infatti che, durante le celebrazioni per la festa della Repubblica, il segretario del Pd e il ministro dell’Interno sono riusciti nell’impresa di intavolare un colloquio di cinque minuti lontano da microfoni e taccuini. Quel faccia a faccia tra “Pier Luigi” e “Bobo” – a cui gli amici comuni avevano lavorato già prima delle elezioni amministrative – ha già avuto luogo.
Sulle (eventuali) confidenze che si sarebbero fatti, invece, c’è soltanto una certezza. Ai pochissimi che sapevano della chiacchierata col titolare del Viminale, e che di conseguenza hanno cercato di soddisfare la sacrosanta curiosità, Bersani ha detto due cose. La prima è che «adesso dobbiamo lasciare che la Lega cuocia nel proprio brodo». La seconda, scandita con un sorrisetto, è che «dobbiamo aspettare di vedere quello che succederà al referendum. Perché il giorno dopo, in un senso o nell’altro, qualcosa succederà». Non a caso, il segretario del Pd – affrontando ai margini della direzione di ieri il tema del supervertice di Arcore – ha parlato come se fosse a conoscenza di quello che sarebbe successo all’interno della residenza del premier. «Non so di che cosa discuteranno», ha premesso, «ma sono convinto che se penseranno a precari bilanciamenti non faranno strada». E ancora, sempre dalla viva voce di Bersani, testualmente: «Il Pdl non risolverà i suoi problemi tirando per la giacca Tremonti. E se la Lega pensa di aggiustare con dei “bilanciamenti”, si troverà di fronte a nuove buche perché, soprattutto al Nord, si è visto che le premesse non si sono realizzate».
Quando parla a Roma coi cronisti, insomma, il leader del Pd è convinto che il Cavaliere abbia offerto a Bossi di “promuovere” Tremonti e Calderoli come vicepremier, magari portando Roberto Castelli alla Giustizia? Sono questi i «bilanciamenti» a cui allude? Bastano queste previsioni per risalire a un possibile «asse» tra Bersani e Maroni, che magari si è consolidato con la chiacchierata del 2 giugno? Tra tanti indizi c’è una sola certezza. Il dialogo tra Pd e Lega ha bisogno di due pre-condizioni. Primo, che il referendum di domenica e lunedì sia un’altra sconfitta per il premier. Secondo, che successivamente ci sia l’accordo di massima su una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni. «E il Mattarellum col 50 per cento di maggioritario e il 50 di proporzionale», insistono gli sherpa di entrambi i partiti, risponde a questa esigenza.
«La maggioranza non è più quella uscita dalle elezioni. Siamo al ribaltone e al teatrino della politica», ha scandito Bersani alla direzione del Pd di ieri. «Il governo si dimetta. La strada maestra sono le elezioni, ma siamo disponibili a considerare eventuali condizioni per cambiare la legge elettorale», ha aggiunto. Dal Parlamentino del Pd, il segretario è tornato a casa con una relazione approvata all’unanimità e un partito compatto. La linea è tracciata: alleanze sì, ma «noi siamo il perno della coalizione e puntiamo ad essere il primo partito del paese». Le primarie ci saranno, «e le metteremo in sicurezza». «Non facciamo l’errore del ’93», ha avvertito D’Alema. «Bersani vince le primarie se siamo uniti», ha spiegato Fioroni. «Bene Bersani. Adesso costruiamo l’alternativa riformista», è stato l’auspicio di Veltroni. Poi i due passaggi “di colore”, che entrano di diritto negli highlitghs. L’applauso tributato al responsabile Enti Locali Davide Zoggia, per i successi alle amministrative. E quel Peroncino, che il segretario ha stappato e poi bevuto. Brindando al futuro prossimo.
“Basta politicismi”. Lo scatto di Bersani nell’ascesa al Monte Quorum.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 giugno 2011)
«Sul referendum ci metto la faccia», ha spiegato ieri Pier Luigi Bersani riunendo la segreteria del partito. Nel day after la vittoria elettorale, il leader del Pd ha deciso che farà anche il testimonial della campagna degli spot sul 12 giugno.
La road map bersaniana era stata messa nero su bianco subito dopo il primo turno delle amministrative. «Colpire il Cavaliere ai ballottaggi, tentare di affondarlo al referendum». E ora che la prima parte del «piano» può dirsi riuscita in pieno, Bersani vuole completare l’opera.
Ai tanti dirigenti di primo piano del Pd che sono scettici sull’operazione di inseguire un quorum che manca da un decennio (tra questi ci sarebbero D’Alema e Veltroni), il segretario risponde in due modi. Primo, «anche pensare di vincere Milano, solo un mese fa, era considerato l’esercizio di un matto». Secondo, «adesso dobbiamo lasciarci alle spalle le mosse politiciste e fare politica a viso aperto, come abbiamo fatto in questa tornata elettorale».
Detto fatto. Ieri, riunendo la segreteria del suo partito, Bersani ha incassato il via libera su una campagna referendaria che lo vedrà impegnato in prima persona. Addirittura come testimonial di tre video (su nucleare, legittimo impedimento e acqua) che sono pronti per la messa in onda. «Diciamo no al piano nucleare del governo», spiega il segretario nello spot dedicato all’atomo, quando sullo sfondo scorrono le immagini della Fukushima devastata dall’esplosione dei reattori della centrale. «La legge è uguale per tutti. Vogliamo una giustizia riformata, che funzioni», scandisce invece nel video in cui invita i cittadini a votare «sì» al quesito sul legittimo impedimento.
C’è un’altra obiezione: l’eventuale decisione della Cassazione di considerare il quesito sul nucleare “assorbito” dal decreto omnibus riconvertito in fretta e furia dalla maggioranza («Ma è tutto da vedere») renderà ancor più difficile la già complicata ascesa al “monte quorum”. Obiezione che gli spin doctor del leader democratico rovesciano, facendo notare che «lo spudorato trucchetto dei berluscones potrebbe incentivare l’indignazione degli italiani e portarli ai seggi», che si apriranno il 12 e 13 giugno. Anche a questo serviranno i cinque milioni di lettere – firmate, manco a dirlo, da Bersani – che il Pd sta per inviare ad altrettante famiglie dei capoluoghi italiani. Senza dimenticare che tutti i protagonisti delle recenti vittorie alle amministrative – da Pisapia a de Magistris, da Merola a Fassino, da Zedda a Cosolini – saranno impegnati ventre a terra nell’operazione.
Nella strategia del Pd, però, c’è anche un terzo punto. Ed è quello che, in deroga ai paletti sul “politicismo”, riguarda la «tela» col Carroccio. Nell’agenda di Bersani, a dispetto delle smentite della sua cerchia ristretta, c’è già un appuntamento con Roberto Maroni, che il segretario dei democratici e il titolare del Viminale avevano fissato (tramite amici comuni) nel bel mezzo della campagna elettorale. E il colloquio, si mormora a Palazzo, potrebbe avvenire già prima della fine di questa settimana, magari approfittando del ponte del 2 giugno.
Su quello che succede tra le quattro mura del quartier generale leghista, Bersani mostra di essere ben informato. «Non metto il cronometro, ma dopo quello che è successo al Nord non credo che la Lega riuscirà a rimontare portandosi a casa un ministero o un vicepremier», ha spiegato ieri a Repubblica tv evocando il piano (caldeggiato dai bossiani del “cerchio magico”) di siglare una tregua col premier “accontentandosi” della promozione di Tremonti a numero due del governo. Anche perché quell’operazione non ha il via libera di Bossi né quello di «Giulietto» né tantomeno il placet del titolare del Viminale, ormai impegnato nella fortificazione della sua corrente anti-berlusconiana. Di conseguenza, è la chiosa del leader pd, «se non domani o domani l’altro, prima o poi la Lega si autonomizzerà».
Bersani spera che il processo di “autonomizzazione” del Carroccio dia i suoi primi frutti il 19 giugno a Pontida. E le dichiarazioni di Bossi («Il governo va avanti, ma non so se è tranquillo») sembrano avvalorare la tesi. Senza dimenticare che, ormai, anche le “grandi firme” della Lega seguono il leitmotiv dei militanti inferociti che telefonano a Radio Padania. «La maggioranza è sotto l’attacco degli italiani», dice Maroni. «A Milano ha perso Berlusconi. Ora rifletta sul suo passo indietro», sottolinea il sindaco di Verona Flavio Tosi.
All’incontro con Maroni, Bersani non andrà a mani vuote. E l’offerta del Pd di spendersi per una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni (un Mattarellum col 50% di maggioritario e l’altro 50 di proporzionale) potrebbe essere formalizzata a breve.
Se Milano scarta l’Asso-Silvio, è l’ora del tris di jack. Tremonti, Maroni, Alfano: una poltrona per tre.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 24 maggio 2011)
Se le partite di Milano e Napoli toglieranno l’asso-Berlusconi dal tavolo, scatterà l’ora del «tris di jack». Giulio Tremonti, Roberto Maroni e Angelino Alfano. Tre cavalli di razza che sembrano già sintonizzati sul pomeriggio del 30 maggio. Basta vedere come si tengono lontani dal ring elettorale.
Mentre il gotha del blocco Pdl-Lega s’affanna in ordine sparso a tirar fuori dal cilindro dicasteri da decentrare (a Milano e Napoli), multe da condonare (Milano) e case abusive da non abbattere (Napoli), i tre ministri simbolo del governo Berlusconi si tengono ben lontani dalla rissa. Basta vedere come si sono mossi negli ultimi giorni, sempre a debita distanza da quelle «paure» e dagli spettri di «zingaropoli islamiche» agitati ora dal Cavaliere ora dal Senatùr. Rispetto a Giuliano Pisapia, che ormai è il bersaglio fisso anche dei berluscones moderati, Maroni s’è limitato a dire: «Il suo programma prevede iniziative non condivisibili in materia di moschee e cose del genere. Ma la sua elezione non mi fa paura».
Quanto ad Angelino Alfano, ieri ha rimarcato come non mai la sua distanza da una coalizione che
continua a puntare l’indice – soprattutto in campagna elettorale – contro i magistrati. «I parlamentari collusi con la criminalità se ne devono andare, non ho dubbi su questo. Anzi, se i partiti hanno la forza di cacciarli è meglio», ha scandito il Guardasigilli intervenendo a Palermo alla commemorazione della strage di Capaci, usando parole che gli sono valse l’elogio incondizionato del procuratore nazionale Antimafia Piero Grasso («Una delle qualità che riconosco ad Alfano è quella di percepire al volo le priorità»), che pure non ha risparmiato una stilettata all’indirizzo della maggioranza («Impossibile dialogare con chi ci insulta»).
Il terzo cavallo di razza è Giulio Tremonti, che tolta una sortita bolognese (insieme a Bossi) per il candidato leghista Manes Bernardini, non solo s’è chiamato come sempre fuori dalla mischia. Ma ieri, fanno notare dal centrodestra napoletano, «ha rifilato una bella mazzata a Gianni Lettieri», che a Napoli corre contro Luigi de Magistris. In che modo? Semplice. Il ministro dell’Economia è l’azionista di Fintecna. Di conseguenza, c’è anche la sua «manina» dietro il piano di esuberi di Fincantieri che prevede la chiusura dello stabilimento di Castellammare di Stabia, definito «inaccettabile» persino dal pidiellino presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro (anche Lettieri, per la cronaca, ha preso malissimo la notizia).
Maroni, Alfano e Tremonti. Il tris di jack si tiene lontano dagli schizzi di fango di una campagna elettorale ad alzo zero per giocarsi la poltrona di Palazzo Chigi, sempre se i ballottaggi provocheranno la resa dei conti nel centrodestra. Nei briefing tenuti coi fedelissimi negli ultimi giorni, Gianfranco Fini ha spiegato che «la situazione» della maggioranza assomiglia moltissimo ai giorni prima del 14 dicembre. Con la differenza che nessuna «compravendita» potrà mettere al riparo Berlusconi dall’eventuale sconfitta di Letizia Moratti. Nel Terzo Polo, infatti, scommettono sul Carroccio che stacca la spina al Cavaliere. E sull’ascesa di Tremonti, che guiderebbe il governo con una maggioranza allargata. «In quel caso», spiega Roberto Rao, braccio destro di Pier Ferdinando Casini, «il ministro dell’Economia potrebbe puntare su un programma di riforme basato su economia e lavoro, finanziandolo con quello che lui stesso ha risparmiato fino ad oggi». Nel senso che, «mentre finora s’è tenuto il bancomat nascondendo il Pin anche a Berlusconi, se andasse a Palazzo Chigi Tremonti potrebbe investire sul Paese gestendone in prima persona il rilancio». È lo scenario di un centrodestra de-berlusconizzato, con maggioranza allargata (a Terzo Polo e pezzi di Pd) e un governo di decantazione senza scadenza. Per tenere lontane le urne.
È lo scenario che, però, non piace a Pier Luigi Bersani. A differenza di alcuni suoi autorevoli colleghi di partito (Walter Veltroni su tutti) il segretario del Pd, che considera Tremonti «il corresponsabile del malgoverno del paese», ha in testa un altro piano. Il cui punto di caduta sarebbero le elezioni anticipate, a novembre. Se il Carroccio togliesse l’ossigeno al Cavaliere dopo il voto, il leader democratico tirerebbe fuori dal suo mazzo la carta Maroni. Giusto il tempo di approvare i decreti finali del federalismo caro a Bossi e poi si andrebbe tutti alle urne. Con la Lega che, favorita dall’approvazione della madre di tutte le sue riforme, sarebbe agevolata anche correndo da sola in tutto il Nord.
E il terzo jack? Angelino Alfano entrerà in partita solo nel caso più improbabile: quello di un «passo indietro» di Berlusconi, che ne favorirebbe l’ascesa. Quest’ultimo è lo scenario meno battuto, perché soggetto a un numero indefinito di variabili. Tra tante incognite c’è una sola certezza: a prescindere dal governo che sarà in carica nel caso di showdown, l’«epocale riforma costituzionale della giustizia» del premier uscirà dai radar del Palazzo. Anche se quell’esecutivo sarà guidato dal suo primo firmatario. Lo stesso che infatti ieri se n’è tornato a casa con un bel plauso firmato da Pietro Grasso.
Quel “patto dei congiurati” sul federalismo fiscale.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 10 maggio 2011)
Ormai la partita è tutta in chiaro. Basta ascoltare le parole che Gianfranco Fini ha detto ieri a Milano, lasciando intendere che in caso di ballottaggio i voti di Fli non saranno di certo convogliati verso Letizia Moratti: «Penso che saranno proprio i milanesi», ha scandito il presidente della Camera, «a essere decisivi per la definizione del futuro rapporto tra Pdl e Lega».
Al di là di qualsiasi forzatura, la frase che la seconda carica dello Stato ha pronunciato nel capoluogo lombardo durante la presentazione del suo libro L’Italia che vorrei è la rappresentazione plastica dei desiderata di tutta l’opposizione. Se Letizia Moratti non si riconferma nella sua seggiola a Palazzo Marino, l’entrata in crisi della maggioranza sarebbe cosa fatta. In fondo, l’ha ripetuto anche ieri Pier Luigi Bersani, alla testa di un Pd che adesso ha concentrato la sua comunicazione pre-elettorale sulla distanza tra il “popolo leghista” e il Cavaliere. «I leghisti sono un po’ a disagio. Siamo al governo del ribaltone, siamo il teatrino della politica, siamo il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti», ha scandito il segretario del Pd a margine di un comizio a Pavia. E ancora, sempre dalla viva voce del leader dei Democratici: «Sono tre mesi che dico che a Milano si vince. Mi prendevano per un matto tre mesi fa, ma io lo ribadisco».
Che la battaglia di Milano sia diventata lo spartiacque di tutta la legislatura lo dimostra anche la mole di contatti sotterranei che, a meno di due settimane dalle amministrative, il gotha leghista (compreso il “non tesserato” Giulio Tremonti) sta intrattenendo con i vertici dell’opposizione. Da Fini a Bersani, passando per Casini o Enrico Letta, non c’è alto dirigente della minoranza che, al di là dei toni “da campagna elettorale”, non stia cercando di tessere col Carroccio quella tela che s’era di fatto interrotta il 14 dicembre scorso.
Nelle agende di ciascuno di coloro che Berlusconi ha già privatamente bollato come «congiurati» c’è anche una giornata segnalata con la penna rossa: il 21 maggio prossimo, praticamente a metà strada tra il primo turno delle amministrative e i ballottaggi. Entro quella data, infatti, il Parlamento dovrà prorogare di sei mesi la legge delega sul federalismo fiscale. Significa, spiegano anche nella cerchia ristretta del Carroccio elaborando un’efficace traduzione dal “politichese”, «che si riapriranno le danze sul federalismo». Dai giri di valzer nella “bicameralina” alle votazioni in Aula. A cominciare da quelle sui decreti mancanti (i primi saranno su «premi e sanzioni» per le amministrazioni locali e sulle funzioni di Roma capitale) per proseguire sulle norme che verranno riscritte. E su questo, come spiega la fonte leghista, «noi trattiamo con tutti e su tutto. D’altronde, la proroga annunciata da Roberto Calderoli due mesi fa venne scelta per andare incontro alle richieste del Pd e del Terzo Polo». Il deputato-economista Francesco Boccia, uno degli esponenti democratici che segue più da vicino il dossier sul federalismo fiscale, lo spiega senza troppi giri di parole: «Il federalismo fiscale potrebbe essere l’unico fatto “politico” tout-court di questa legislatura». Ed è ovvio, aggiunge il deputato vicino a Enrico Letta, che «su questo terreno potrebbero registrarsi significativi cambiamenti all’interno del quadro politico».
Ovviamente, il voto sul rinnovo della legge delega non prevede alcuna sorpresa dell’ultim’ora. Non foss’altro perché praticamente tutte le forze politiche sono d’accordo (quantomeno) sulla tabella di marcia. Ma la vera «svolta», la stessa che nei colloqui tra la Lega e l’opposizione è tutt’altro che sottotraccia, riguarda le prospettive nel caso in cui Milano passasse al centrosinistra. Col federalismo fiscale di nuovo al centro dell’agenda politica, ci sarebbe «un’ora X» in cui un’altra maggioranza avrebbe modo di testarsi. «E i voti sulla riforma più cara al Carroccio», è l’analisi svolta anche dal Terzo Polo, «sarebbero senz’altro un’occasione migliore dell’eventuale voto di fiducia sulla nuova maggioranza», ventilato da Fini all’indomani della nota del Quirinale sull’infornata di nuovi sottosegretari.
Ovviamente, se riuscisse a passare senza graffi attraverso le forche caudine del voto, Berlusconi si rafforzerebbe. E l’opposizione, a cominciare dal Pd, rischierebbe di finire inghiottita dalle dispute sul futuro del centrosinistra, a cominciare da quella sulla leaderhip («Su questo io ci sono, ma dobbiamo sentire anche gli altri», ha detto ieri Bersani intervistato da Porta a porta»). Ma se la tornata delle amministrative non sorridesse al Pdl, a quel punto la legislatura sarebbe a una svolta. E i voti finali sul federalismo potrebbero sancire il «patto dei congiurati» che segnerebbe anche la storia del berlusconismo.
Tremonti successore? Il bluff di Silvio per rompere la pax leghista.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 maggio 2011)
Il bacio della morte (politica, naturalmente) sulle guance di «Giulio». E un modo per tentare di rompere il recente armistizio sottoscritto tra le «fazioni» in guerra all’interno del Carroccio.
Due obiettivi con un solo colpo. È quello che Silvio Berlusconi “spara” di fronte alle telecamere di Porta a porta quando ieri pomeriggio, a poche ore dall’approvazione della mozione della maggioranza sulla Libia, indica per la prima volta come “delfino” il suo più acerrimo nemico interno: Giulio Tremonti. «Se per il centrodestra sarà necessario che io mi ricandidi alla guida del governo, non mi tirerò indietro», è la premessa. Ma «se invece verranno fuori altre personalità, e ne abbiamo diverse, Tremonti in primis, io sarei felice di lasciare ad altri la conduzione del governo».
Ovviamente si tratta di un bluff. Non foss’altro perché, quando lo indica in pole position nella linea di successione a se stesso, il presidente del Consiglio è in preda all’ennesima crisi di nervi causata, a suo dire, dall’ultimo successore di Quintino Sella. «Ma lo sapete», aveva raccontato in mattinata, che «Giulio ancora non s’è degnato neanche di farmi vedere la bozza del decreto sullo sviluppo che sarà approvata domani (oggi, ndr) dal consiglio dei ministri?».
Nella sua cerchia ristretta giurano che la mossa di “benedire” il rivale per la successione sia stata elaborata tempo fa per «sovraesporlo». Fosse solo questo, l’obiettivo sarebbe stato raggiunto in nemmeno mezz’ora. Basti pensare che le prime due reazioni alle parole di Berlusconi sull’incoronazione del superministro dell’Economia sono quelle dei suoi rivali diretti. Roberto Maroni mette a verbale che «Tremonti è un ottimo ministro e sarebbe un ottimo presidente del Consiglio». Angelino Alfano, che il Cavaliere aveva indicato come erede (in privato) salvo poi smentire (in pubblico), dice che «l’idea di Tremonti premier, se l’ha detta Berlusconi, è condivisibile».
Eppure, dietro la mossa di Berlusconi, c’è di più. Il Cavaliere sa che la stragrande maggioranza dei suoi tormenti delle ultime settimane – Libia compresa – derivano da un patto di non belligeranza sottoscritto dal gotha della Lega. E che la tregua imposta da Bossi nelle stanze di via Bellerio, che ha congelato le rivalità tra la fazione «Calderoli-Tremonti» e quella guidata da Roberto Maroni, era servita a ricompattare gli alti dirigenti del partito contro il premier.
Da qui la contromossa, che Berlusconi serve a freddo, poche ore dopo che l’Aula di Montecitorio ha fischiato la fine (momentanea) delle ostilità sulla Libia. Indicare «Giulio» alla succesione per riattizzare lo scontro interno alla Lega su chi deve stare in prima fila nel caso in cui le amministrative sanciscano la crisi della maggioranza. E spezzare quella trama bipartisan che tanto il ministro dell’Economia quanto il titolare dell’Interno stanno alimentando.
D’altronde, che Tremonti abbia contatti continui e costanti con i leader dell’opposizione (Fini compreso) non è un mistero per nessuno, men che meno per il premier. Quanto alla tela bipartisan di Maroni, basta citare che ieri il ministro dell’Interno ha ricevuto una delegazione del Pd (guidata da Walter Veltroni e Andrea Orlando) che gli aveva chiesto udienza dopo la valanga di arresti nel Pdl campano. Una mossa, questa, che ha innervosito i berluscones partenopei al punto tale che è dovuto intervenire il premier in persona per placarne i bollenti spiriti.
«Tremonti aizza la Lega», aveva titolato il Giornale? «E noi aizziamo Tremonti nella Lega», è la strategia del Cavaliere. È un gioco a carte scoperte. Come ha capito anche Bossi. «Berlusconi durerà a lungo. Tremonti? Io sono amico suo. Ma Silvio dice queste cose per allontanare il momento (dell’addio alla leadership) il più possibile», spiega il Senatur in serata. In tasca, però, il premier ha un’altra carta. Sapendo che l’eventuale esito negativo delle comunali di Milano potrebbe riaprire la crisi nella maggioranza, «Silvio» ha cominciato a sondare qualche malpancista del Carroccio. Non a caso, la corrente delle camicie verdi che puntano a confermare senza se e senza ma l’alleanza col Pdl è già nata. E ne fa parte, oltre ad alcuni bossiani del cerchio magico, anche Marco Reguzzoni. Proprio lui, l’uomo che aveva annunciato la «tregua» sulla Libia prima che l’accordo fosse raggiunto. L’uomo che adesso i vertici di via Bellerio vorrebbero spostare al governo (coi galloni di viceministro o sottosegretario) per lasciare la poltrona di capogruppo a un esponente più “affidabile”. Come il maroniano Stucchi, ad esempio.