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Situazione traffico ore 12.55. La macchinina multicolore dopo l’intervento pubblico del capo dei vigili.
Adesso la macchinina multicolore – un po’ rossa, un po’ gialla, un po’ grigia, un po’ verde – si starebbe avvicinando ai 60 km/h, soglia da rivedere (al ribasso) dopo la discesa dei passeggeri dell’estero (due punti o giù di lì).
E l’intervento del capo dei Vigili Bobo Maroni potrebbe paradossalmente portare la macchinina a ulteriori accelerazioni.
Perché? Semplice. Al passeggero indeciso interessa salire a bordo di una macchinina multicolore che corre velocemente. E se il capo dei Vigili ammette che questa macchinina corre…
Situazione traffico (ore 10.27). La macchinina multicolore.
La macchinina – un po’ rossa, un po’ gialla, un po’ grigia, un po’ verde – è appena stata fotografata dall’autovelox, fissato a 50 (più uno) km/h.
Però continua ad accelerare. Incredibilmente.
Over 55 (ma c’è da far scendere qualche passeggero estero).
Sopra la bandiera a scacchi stanno allestendo il podio con lo champagne.
Ps: qui sotto il pilota della macchina con quattro colori (lo ammetto, avrei voluto un testimonial diverso, ma tant’è) dopo il sorpasso della fatidica soglia.
Situazione traffico ore 23,23. La macchinina multicolore
La macchinina multicolore – un po’ rossa, un po’ gialla, un po’ grigia, un po’ verde – dovrebbe far scattare l’autovelox, fissato a 50 (più uno) km/h.
Se continua così, verrà fotografata a oltre 55 km/h.
Però ci sono anche i passeggeri esteri. Quindi la velocità finale potrebbe essere 53,7 kh/h. Almeno così dice il cervellone.
Ovviamente, bisogna accelerare. Il conducente, che avrà modo di riposarsi fino a domattina, deve continuare a guidare così come ha fatto oggi.
(www.tommasolabate.com)
Votare entro il Novantesimo, perché il Cav. sta pensando ai tempi supplementari. Al ritmo di carte bollate.
di Tommaso Labate (estratto dal Riformista di oggi)
Nel triangolo Chigi-Grazioli-via dell’Umiltà, che rappresenta il perimetro del potere berlusconiano, gli allarmi hanno superato da tempo il livello di guardia. Al punto che nell’esercito del Cavaliere ci si starebbe addirittura preparando per i tempi supplementari. Traduzione: se il voto degli italiani all’estero sarà decisivo ai fini del quorum, visto che la Cassazione su questo pacchetto di schede non si esprimerà prima di mercoledì, è addirittura possibile che il day after la consultazione popolare si trasformi in una pericolosissima rissa a colpi di carte bollate.
«È uno scenario a cui non vogliamo nemmeno pensare», è la sintesi delle reazioni che arrivano dalla sede nazionale del Pd. Ma «il fatto che Berlusconi non vada alle urne», si mormora nell’entourage del premier, «non vuol dire che non giocherà una partita all’ultimo sangue». Significa, aggiunge la fonte berlusconiana, che «se l’affluenza non supererà ampiamente il 50 per cento più uno, noi combatteremo su ogni singolo voto. Italiano o estero che sia».
Il resto dell’articolo lo trovate qui.
La tabella di marcia riservata sulla scalata al Monte Quorum
di Tommaso Labate
Nell’ultima rilevazione demoscopica riservata (e non pubblicabile), effettuata subito dopo i ballottaggi delle amministrative, ci sono scritte più cose. Primo, il quorum rimane un’impresa. Che, però, è a portata di mano. Infatti nell’estremo “alto” della forbice dei sondaggisti c’è un numeretto che, se fotografasse davvero l’affluenza definitiva di lunedì 13, sancirebbe il raggiungimento dell’obiettivo.
Secondo, nel Nord-Est e al Centro Italia, l’affluenza stimata è ottima. Soprattutto nel Nord-Est dove, a sentire gli autorevoli istituti demoscopici che hanno lavorato alla rilevazione, «il grande lavoro delle parrocchie e una consistente fetta di elettorato leghista stanno facendo schizzare (per ora, solo virtualmente) le quotazioni dei quesiti. Di conseguenza, aggiungono nella sala macchine del Partito democratico, «adesso dobbiamo concentrare i nostri sforzi sul Nord Ovest e sul Mezzogiorno, con l’aiuto dei neo-sindaci eletti a furor di popolo quasi due settimane fa».
Il resto qui.
Dal colloquio segreto con Maroni (che andrà a votare ai referendum) al Peroncino in direzione. Bersani pensa al 13.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 7 giugno 2011)
Alle 14 di ieri, assistendo a una direzione del Pd che non era mai stata così serena, Pier Luigi Bersani ha stappato un Peroncino e ha cominciato a sorseggiare la birra. Brindando all’«unità» e con un pensiero all’affluenza del referendum. A cui contribuirà, col suo voto, anche Roberto Maroni.
Nel giorno in cui il presidente della Repubblica ha risposto seccamente a chi gli chiedeva della sua presenza ai seggi («Sono un elettore che fa sempre il suo dovere»), Maroni avrebbe ufficializzato di fronte ai fedelissimi la sua intenzione di recarsi alle urne domenica per votare ai referendum. Una risposta scontata, se si pensa che il «Bobo» leghista è comunque il ministro dell’Interno. Un po’ meno se si ragiona sul fatto che il titolare del Viminale potrebbe essere il primo big del Carroccio a «uscire dai blocchi», ad annunciare che ritirerà quelle quattro schede che potrebbero condannare il berlusconismo.
Per capire che cosa c’entra tutto questo con Bersani bisogna fare un passo indietro di qualche giorno. Al 2 giugno, per la precisione. Al Riformista risulta infatti che, durante le celebrazioni per la festa della Repubblica, il segretario del Pd e il ministro dell’Interno sono riusciti nell’impresa di intavolare un colloquio di cinque minuti lontano da microfoni e taccuini. Quel faccia a faccia tra “Pier Luigi” e “Bobo” – a cui gli amici comuni avevano lavorato già prima delle elezioni amministrative – ha già avuto luogo.
Sulle (eventuali) confidenze che si sarebbero fatti, invece, c’è soltanto una certezza. Ai pochissimi che sapevano della chiacchierata col titolare del Viminale, e che di conseguenza hanno cercato di soddisfare la sacrosanta curiosità, Bersani ha detto due cose. La prima è che «adesso dobbiamo lasciare che la Lega cuocia nel proprio brodo». La seconda, scandita con un sorrisetto, è che «dobbiamo aspettare di vedere quello che succederà al referendum. Perché il giorno dopo, in un senso o nell’altro, qualcosa succederà». Non a caso, il segretario del Pd – affrontando ai margini della direzione di ieri il tema del supervertice di Arcore – ha parlato come se fosse a conoscenza di quello che sarebbe successo all’interno della residenza del premier. «Non so di che cosa discuteranno», ha premesso, «ma sono convinto che se penseranno a precari bilanciamenti non faranno strada». E ancora, sempre dalla viva voce di Bersani, testualmente: «Il Pdl non risolverà i suoi problemi tirando per la giacca Tremonti. E se la Lega pensa di aggiustare con dei “bilanciamenti”, si troverà di fronte a nuove buche perché, soprattutto al Nord, si è visto che le premesse non si sono realizzate».
Quando parla a Roma coi cronisti, insomma, il leader del Pd è convinto che il Cavaliere abbia offerto a Bossi di “promuovere” Tremonti e Calderoli come vicepremier, magari portando Roberto Castelli alla Giustizia? Sono questi i «bilanciamenti» a cui allude? Bastano queste previsioni per risalire a un possibile «asse» tra Bersani e Maroni, che magari si è consolidato con la chiacchierata del 2 giugno? Tra tanti indizi c’è una sola certezza. Il dialogo tra Pd e Lega ha bisogno di due pre-condizioni. Primo, che il referendum di domenica e lunedì sia un’altra sconfitta per il premier. Secondo, che successivamente ci sia l’accordo di massima su una riforma elettorale che consenta al Carroccio di correre da solo alle prossime elezioni. «E il Mattarellum col 50 per cento di maggioritario e il 50 di proporzionale», insistono gli sherpa di entrambi i partiti, risponde a questa esigenza.
«La maggioranza non è più quella uscita dalle elezioni. Siamo al ribaltone e al teatrino della politica», ha scandito Bersani alla direzione del Pd di ieri. «Il governo si dimetta. La strada maestra sono le elezioni, ma siamo disponibili a considerare eventuali condizioni per cambiare la legge elettorale», ha aggiunto. Dal Parlamentino del Pd, il segretario è tornato a casa con una relazione approvata all’unanimità e un partito compatto. La linea è tracciata: alleanze sì, ma «noi siamo il perno della coalizione e puntiamo ad essere il primo partito del paese». Le primarie ci saranno, «e le metteremo in sicurezza». «Non facciamo l’errore del ’93», ha avvertito D’Alema. «Bersani vince le primarie se siamo uniti», ha spiegato Fioroni. «Bene Bersani. Adesso costruiamo l’alternativa riformista», è stato l’auspicio di Veltroni. Poi i due passaggi “di colore”, che entrano di diritto negli highlitghs. L’applauso tributato al responsabile Enti Locali Davide Zoggia, per i successi alle amministrative. E quel Peroncino, che il segretario ha stappato e poi bevuto. Brindando al futuro prossimo.
Il delitto perfetto sul piano nucleare. Basta un atomo per allontanare il battiquorum.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 20 aprile 2011)
«È stato un colpo da maestro. Diamo una prospettiva al nucleare e, visto che ci siamo, cancelliamo ogni possibilità che i referendum raggiungano il quorum». Ieri pomeriggio, quando la decisione del governo di cancellare il piano nucleare sta facendo il giro di tutti i mezzi d’informazione, un esponente dell’esecutivo racconta dietro la garanzia dell’anonimato un altro film. Possibile titolo: «Il delitto perfetto».
L’impresa non era delle più semplici. Anche per la presenza di mille variabili impazzite. A Berlusconi serviva dare una minima speranza agli investimenti sul nucleare dopo Fukushima, tenere insieme i tanti malpancisti del governo (a cominciare dal ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo), soddisfare l’immancabile pretesa tremontiana (nel senso di Giulio) di tenere chiusi i cordoni della borsa (il piano nucleare costa, eccome se costa), togliere il dossier dalla campagna elettorale delle amministrative e, last but non least, cancellare le minime speranze che il referendum sul legittimo impedimento raggiungesse il quorum, magari trainato dai quesiti anti-atomo. Cinque obiettivi. Raggiunti in un sol colpo ieri.
Quando il gruppo del Senato guidato da Maurizio Gasparri e dall’ex radicale (esperto, quindi, di referendum) Gaetano Quagliariello segnala al governo la presenza di un emendamento firmato da Francesco Rutelli (altro ex radicale) nelle discussione sul decreto omnibus, ecco che gli uffici di Palazzo Chigi si trovano di fronte all’occasione che aspettavano. Il colpo del «delitto perfetto» in grado di colpire tutti e cinque i bersagli. All’emendamento del leader dell’Api, che cancellava ogni traccia normativa sulla prevista realizzazione delle centrali, il governo esprime parere favorevole. C’è una triangolazione tra Paolo Romani e Giulio Tremonti, il raccordo con il gruppo del Pdl a Palazzo Madama «e il gioco», aggiunge la fonte governativa, «si conclude. Infatti nessuno ci vieta di ripresentare il piano l’anno prossimo, quando magari l’eco del disastro giapponese si sarà spenta…».
Ovviamente, anche il delitto perfetto del governo ha qualche limite. Perché con gli effetti collaterali del disastro giapponese il mondo dovrà fare i conti per molti anni a venire. D’altronde, come spiega Benedetto della Vedova dando una boccata di sigaro nel cortile di Montecitorio, «mi pare che di nucleare non si parlerà più». Ma è altrettanto vero, e il capogruppo dei finiani alla Camera lo riconosce, che «stavolta la maggioranza ha preso due piccioni con due fave».
Il secondo piccione di cui parla Della Vedova è, ovviamente, il referendum. Con l’approvazione dell’emendamento anti-atomo del decreto omnibus, il quesito che avrebbe trainato quelli sull’acqua e il legittimo impedimento scomparirà dalle schede della consultazione del 12 giugno. Domanda: ma c’era qualche minima speranza che, per la prima volta dopo un decennio, un referendum passasse il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto? La risposta poteva anche essere affermativa. Almeno a prendere per buono un sondaggio riservato commissionato da Federutility (la federazione che riunisce le aziende di servizi pubblici, interessata al quesito sull’acqua), che una settimana fa fissava la partecipazione al voto in una forbice tra il 48 e il 52 per cento. Speranze che, senza il traino del voto sull’atomo, ovviamente si riducono al lumicino. Con tanti saluti alla partita sul legittimo impedimento.
Con la mossa del Senato, il governo si garantisce una giornata con l’happy end. Con Paolo Romani, uno degli artefici della partita, che si concede il lusso di annunciare «un nuovo piano energetico entro l’estate». E con l’opposizione che, ieri, ha finito per dividersi. Perché quando arriva la notizia della cancellazione del piano per il nucleare, Pier Luigi Bersani esulta: «È una nostra vittoria». Al contrario di Antonio Di Pietro, che invece convoca una conferenza stampa per «denunciare il colpo di mano del governo sul referendum del legittimo impedimento». Il segretario del Pd, più tardi, aggiusterà il tiro. Prima con una dichiarazione alla stampa («La decisione del governo? È positivo ma non lo è abbastanza: perché è chiaro che vuole solo scappare dal confronto sul referendum»), poi con una battuta affidata ai fedelissimi: «Dal “governo del fare” erano diventati il governo del “faremo”. Adesso si sono trasformati nel governo del “non faremo più”». Anche Massimo D’Alema, come Di Pietro, lega la cancellazione del piano nuclerare al referendum: «Berlusconi vuole solo far fallire il quorum». Morale della favola: alla Camera, sulla riconversione del decreto omnibus, l’opposizione marcerà a ranghi separati. «Decideremo dopo averne parlato», dice l’udc Roberto Rao a metà pomeriggio. Ma i rutelliani voteranno a favore, visto che l’emendamento accolto dall’esecutivo era firmato dal loro leader. «Anche io sarei tentato di votare sì. Ma, visti i numeri della Camera, è irrilevante», scandisce il finiano Della Vedova. Il Pd ne parlerà alla ripresa dei lavori dopo Pasqua. «Se hanno cambiato idea è merito di Alberto Losacco», è la battuta di Dario Franceschini, che rimanda al «profetico» appello anti-atomo firmato giusto ieri dal suo fedelissimo sull’Unità. I dipietristi, invece, voteranno compatti contro. Opposizione divisa. «Delitto perfetto», insomma.