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Da Fitto a Lupi, da Stefy a Mara: il Partito di Angelino è già nato. E ha tanti nemici interni.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 15 aprile 2011)
Una telefonata di Bossi. Ma soprattutto l’irritazione di Denis Verdini e degli ex An diLa Russae Gasparri. Tra l’investitura di Alfano e la marcia indietro di ieri, Silvio Berlusconi ha subito un pressing asfissiante. Perché, come ha confessato privatamente il ministro Raffaele Fitto, che di «Angelino» è uno degli amici più cari, «è partito il fuoco amico contro di noi».
Probabilmente, nel momento in cui parla alla stampa estera dell’intenzione di non ricandidarsi a premier per lasciare spazio al suo Guardasigilli, il Cavaliere non immagina l’eco che avranno le sue parole. E mercoledì sera, quando le agenzie battono la notizia, si scatena un putiferio che va molto al di là delle «cene di corrente» che iniziano un’ora dopo che la Cameraha approvato la prescrizione breve.
Nella mastodontica macchina della comunicazione berlusconiana scelgono di “sgonfiare” il soufflé dell’investitura del «delfino» con due operazioni semplici semplici. La prima la mette in campo Paolo Bonaiuti, smorzando l’effetto delle parole del premier. La seconda è quella di far filtrare il malessere degli ex aennini, l’attivismo di Matteoli e la telefonata (che c’è stata) in cui «l’Umberto» ha invitato «Silvio» a correggere il tiro sulla sua successione. Tutto vero e soprattutto verosimile, visto che il «patto» tra il Senatur e il Cavaliere si scioglierà nel momento in cui il secondo non sarà più il leader.
Ma lo stop principale al tam-tam su Alfano leader arriva dal nocciolo duro del Pdl. A cominciare dal coordinatore Denis Verdini, che ieri ha
chiesto e ottenuto da Berlusconi una retromarcia in grande stile. «Non ho mai detto che Angelino sarà il mio successore», scandisce infatti il premier durante il vertice di ieri a Palazzo Grazioli. Non solo. A queste parole, che saranno riferite ai cronisti dal capogruppo dei Responsabili Luciano Sardelli, il Cavaliere aggiunge una battuta: «Non avete visto di quante cose mi accusano i magistrati e la sinistra? Non voglio mica farmi accusare anche perché scelgo il mio successore…».
La battuta, in effetti, fa ridere lo stato maggiore del Pdl. Non Alfano, però. Perché, dice chi lo conosce bene, «Angelino non voleva mica l’endorsement. Ma il modo in cui Berlusconi ha corretto il tiro l’ha fatto rimanere molto male». In fondo, è lo stesso concetto ribadito privatamente dal ministro Fitto, uno degli uomini più vicini al guardasigilli: «Questa smentita non ci ha certo reso felici. Comunque, si vede che siamo già vittime del “fuoco amico”…».
Tra i tanti motivi per cui lo stato maggiore pidiellino teme l’ascesa di Alfano, ce n’è uno su tutti. Il Guardasigilli ha già creato un partito nel partito. Infatti, dentro il Pdl, c’è già un PdA. Il «partito di Angelino». Quella a cui il titolare della giustizia sta lavorando ormai da un anno è una vera e propria «rete». Con tanto di cabina di regia, di cui fanno parte i big che stanno lavorando per costruirne la leadership: da Fitto alla Gelmini, dalla Prestigiacomo a Frattini.
Nel «partito di Alfano», un ruolo decisivo lo ricopre Maurizio Lupi, il vicepresidente della Camera che – sfruttando la scia di «Angelino» – ambisce al ruolo di capogruppo a Montecitorio. Certo, pensare di scalzare Fabrizio Cicchitto dopo l’approvazione della prescrizione breve sembra una mission impossible. Ma Lupi, un obiettivo, l’ha già raggiunto: è riuscito ad avvicinare Roberto Formigoni e l’ala ciellina del Pdl al Guadasigilli.
Oltre alla «cabina di regia» e al ruolo di Lupi, Alfano può già contare sul sostegno di tanti deputati del partito che, oltre ad avere radicamento sul territorio, si oppongono alla gestione di Verdini. Per fare qualche esempio, tra questi ci sono Guido Crosetto, sottosegretario alla Difesa, molto forte in Piemonte. E poi, in ordine sparso, gente come il suo omonimo Gioacchino Alfano e Nunzia De Girolamo, che in Campania sono tra gli oppositori del ras Nicola Cosentino. Senza dimenticare che, tra i volti noti che potrebbero sposare l’alfanismo militante, spunta anche il nome di Mara Carfagna.
Fitto, Gelmini, Prestigiacomo, Frattini, Carfagna, Lupi. E poi Crosetto, Gioacchino Alfano, De Girolamo, Carfagna. La squadra degli Alfano boys dentro il Pdl sta cominciando a prendere forma. Ma «Angelino», a differenza dei suoi oppositori interni, ha molti amici anche fuori dal partito. La sua partecipazione ai meeting della fondazione bipartisan VeDrò gli ha consentito di stringere ottimi rapporti di amicizia con personalità come Enrico Letta (che di VeDrò è stato l’ispiratore) e Giulia Bongiorno. E non è tutto: nel settore in cui il Pdl è debolissimo – e cioè quello dei rapporti con la magistratura – Alfano è molto più “solido” di quanto non si pensi. Perché è vero, c’è la sua firma sia sul contestatissimo «lodo» respinto dalla Consulta che sulla riforma costituzionale della giustizia osteggiata dai magistrati. Ma, anche grazie Stefano Dambruoso, il suo uomo cerniera con le toghe, «Angelino» lavorerà per ridurre il più possibile le distanze (politiche) tra sé e le toghe.
I colleghi lo temono. E lui, Giulio, confessa alla Bindi: “Rosy, non sai quanto ti invidio”
di Tommaso Labate (dal Riformista del 13 aprile 2011)
È la bionda Stefania Prestigiacomo, sua nemica giurata, ad aprire le danze: «Che cos’è, domani quello viene in consiglio dei ministri a varare qualche manovrina economica senza avvertire nessuno, come al solito?».
Sembra una di quelle rarissime classi disciplinate, in cui gli studenti stanno composti anche quando il maestro è assente. Mancano per l’appunto il maestro, Silvio Berlusconi, e un assente giustificato, Franco Frattini, impegnato in Lussemburgo con gli altri ministri degli Esteri. Il resto della squadra di governo è tutta al proprio posto, nell’Aula di Montecitorio, a “marcare” l’approvazione del processo breve caro al maestro. L’armonia dura fino a che la Presigiacomo non solleva i suoi dubbi sull’esame del documento di economia e finanza nonché sul Piano nazionale delle riforme, che oggi saranno al vaglio di un Consiglio dei ministri che si riunirà alla Camera. «Quello ci farà uno dei suoi soliti scherzi?», è il ritornello che la bionda titolare dell’Ambiente affida alle orecchie poco discrete di alcuni suoi colleghi.
Quello, che non ha certo bisogno di presentazioni, è Giulio Tremonti. L’uomo su cui si addensano sistematicamente i sospetti di mezzo governo, soprattutto dopo il ticket Berlusconi-Letta ha perso la sponda di Cesare Geronzi nel salotto buono della finanza nostrana. L’uomo del «rigore» e dei cordoni della borsa rigorosamente sigillati, insomma.
Quando «Stefy» e altri ministri ne parlano male, lui, l’ultimo successore di Quintino Sella a via XX
settembre, è impegnato nella prima delle tante chiacchierate «eterodosse» (la definizione, tra il perfido e l’ironico, è di un suo collega di governo) in cui s’è intrattenuto ieri. Che «Giulio» non sia contento di stare in Aula a «perdere tempo» si vede lontano un miglio. E così, quando incrocia Rosy Bindi, le sussurra in un orecchio: «Rosy, non sai quanto ti invidio». «E perché?», replica la pasionaria del Pd. «Perché rimpiango la legislatura passata, quando facevo il vicepresidente della Camera. Credimi», insiste Tremonti, «stavo molto meglio di oggi». «Perché avevi meno rogne, caro Giulio», è la controreplica della Bindi.
Che trami alle spalle del Cavaliere oppure no, resta il fatto che ogni mossa di Tremonti viene sempre vista con sospetto. E così, quando s’avvicina al “frondista” Claudio Scajola, suo acerrimo (ex?) nemico per una chiacchierata, Dagospia gli dedica l’apertura dell’home page. Titolo: «Gli ultimi giorni di Pompei». Sommario: «Di cosa confabulano per 22 minuti, oggi a Montecitorio, Tremonti o Scajola? Le conseguenze per il Cainano si potranno vedere in futuro, o anche domani».
Una cosa è certa. La full immersion di ieri alla Camera dimostra quello che Radiotransatlantico sostiene da tempo: tra i banchi dell’opposizione, Giulio Tremonti rimane una star. Di più, è l’unico esponente della maggioranza a essere apprezzato da Bersani, Fini, Casini e financo da Di Pietro, con cui “dialoga” attraverso il professor Vincenzo Fortunato, il suo capo di gabinetto che ha ricoperto lo stesso incarico per «Tonino».
Quale sarà il punto di caduta della «settimana incandescente» evocata da Gianni Letta non è dato saperlo. Ma se il castello di carte berlusconiano crollasse, l’unico nome per la guida di un governo di transizione sarebbe quello di Tremonti.
Alle 18.14, quando l’aria dell’emiciclo di Montecitorio gli dev’essere sembrata irrespirabile, «Giulio», versione ipersorridente, dribbla tutti i colleghi della maggioranza che gli capitano a tiro e raggiunge Enrico Letta nel cortile interno. I due chiacchierano per una decina di minuti. Fino a che, al tandem Tremonti-Letta jr., non si aggiunge Walter Veltroni, che quando vede il ministro dell’Economia abbandona il quasi ex finiano Andrea Ronchi alla compagnia di Marco Minniti.
«Giulio», «Walter» ed «Enrico» fanno giusto in tempo a tornare in Aula per godersi un piccolo momento storico. Alle 18.39, quando il pd Roberto Giachetti attacca Gianfranco Fini per non aver concesso la parola alle opposizioni dopo l’intervento di Angelino Alfano, dai banchi di Pdl e Lega arrivano applausi all’indirizzo del presidente della Camera. Sono i primi dopo oltre un anno. Poi ci sono i brusii di Palazzo. Su Ronchi e Urso, che starebbero pensando di anticipare l’addio a Fli. Sui Responsabili, che stanno per diventare un partito vero e proprio. Sulla prescrizione breve, la cui approvazione passa attraverso altri attimi di palpitazione. A Roma, nel bel mezzo del corridoio dei passi perduti, il centrodestra trattiene ancora il fiato. Se la passano meglio i pidiellini di Milano, dove una mozione di Nicole Minetti contro i parrucchieri abusivi ha passato tranquillamente il vaglio del Consiglio regionale.
Giovanni Galeone, il 4-3-3 e la sinistra perduta.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 gennaio 2011)
È tornato Zeman, è tornato Dan Peterson. Lui no, non tornerà. È l’ultimo dei 54 minuti di chiacchierata col Riformista, l’unico momento in cui la voce del Profeta tradisce una punta d’amarezza. «No, non mi siederò mai più su una panchina. Un po’ per la condizione fisica, che comunque è un problema che si risolverebbe chiamando un “secondo” giovane e in forma. Ma soprattutto perché non riesco ad avere più un rapporto con i calciatori. Me ne sono reso conto quattro anni fa, ad Udine. Non li sopporto più, i calciatori. Ormai hanno un potere contrattuale spaventoso, che porta molti di loro a non avere rispetto per la divisione dei ruoli. Scegli di non far giocare uno e quello mica te lo dice in faccia. No, si lamenta col suo procuratore, che poi chiama il direttore sportivo, che il giorno dopo chiama te».
Peccato, non è più calcio per Giovanni Galeone. Il Profeta che tra dieci giorni compirà settant’anni. Dal «suo» 4-3-3 a «quella notte a Vienna con Silvio Berlusconi», dalle partitelle a pallone col «genio» Pasolini all’intuizione su Ibrahimovic, dal «maestro» Liedholm alla «puttanata» sui libri di Prévert portati in panchina. E il Pescara dei miracoli. E il calciatore più forte mai allenato, Blaž Sliškovic, «uno che nel calcio di oggi, con un procuratore dietro le spalle, si giocherebbe il pallone d’oro».
Galeone sfoglia un album dei ricordi lungo sette decenni. E ora che manca poco all’appuntamento con le settanta candeline, scaccia ancora una volta la parola «rimpianto» dal suo vocabolario: «La verità è che non sono mai stato invidioso. Giusto un po’ d’invidia nei confronti degli intelligenti e dei colti. Per il resto, me ne sono fregato dei soldi, della fama e dei successi altrui. Quando ho potuto, ho brindato con lo champagne. Altrimenti mi son sempre andati bene anche il prosecco o la spuma Cirutti».
Impossibile cavarsela dicendo che «in fondo è solo un allenatore di calcio». D’altronde, il suo bouquet di aforismi lo rende più simile al Barney dell’omonima Versione di Richler che a un Guidolin qualsiasi. Ha mandato pubblicamente «affanculo» Berlusconi negli anni 2000, disse che non avrebbe fatto marcare a uomo nemmeno Maradona («Perché mi creerebbe un buco a centrocampo») nel 1989, impose ai suoi atleti solo «allegria e libertà d’azione, come se giocassero sul pavimento di casa» nel 1986 e soprattutto ha sempre ricordato che la zona e il 4-3-3 li fatti prima lui, «e poi Zeman».
La sua storia di giovane emigrato napoletano si fa favola nel 1986. Quando gli scarpini da calciatore sono al chiodo da un pezzo. «La mia fortuna», racconta al Riformista, «era stata allenare le giovanili dell’Udinese. Altra epoca. Trovavi ragazzini che venivano agli allenamenti e ti dicevano: “Mister, ma sa che ieri ho visto il Bruges, giocavano con 5 difensori, 2 centrocampisti e 3 punte?”. Sperimentavamo, provavamo». A furia di provare e riprovare viene fuori il 4-3-3, con cui il Profeta fa girare la Spal dall’83 all’86. «Gustinetti, Bresciani e Trombetta avanti. Dietro di loro tre mezz’ali vere». Nel 1986 è l’ora di Pescara. «Giocavamo a zona solo noi e il Parma di Arrigo Sacchi. Solo che la mia era una squadra costruita per non retrocedere. Arrivammo primi». Il battesimo in serie A, l’anno dopo, è a San Siro contro l’Inter. «Vincemmo per 2 a 0. Ricordo ancora che la sera finii a discutere con Sivori alla Domenica sportiva. Il grande Omar sosteneva che chi giocava a zona era destinato a retrocedere. Io risposi che di 40 squadre che retrocedevano ogni anno, almeno 39 giocavano a uomo. Ti credo, a zona giocavamo solo noi…». Oggi tutto il calcio è la rivoluzione di Galeone. «L’unico da cui un po’ ho copiato è stato il grande maestro Nils Liedholm. No, Zeman no. Lui è arrivato dopo di me».
IL PAPA’ DELLA RIVOLUZIONE. Il Pescara di Galeone è leggenda ancora oggi. «Non c’erano grandi soldi, per cui fummo costretti a sacrificare i due “gioielli” che erano stati protagonisti in serie B. Rebonato e Bosco», racconta il Profeta. In società fa il suo ingresso l’imprenditore Pietro Scibilia, che con la sua «Gis» sponsorizzava le pedalate di Francesco Moser. «Cominciammo a girare nei migliori hotel. Le divise, elegantissime, le produceva una nota azienda abruzzese, da cui si serviva anche l’Avvocato Agnelli. Romeo Anconetani, presidente del Pisa, diventava matto quando le vedeva. Una volta mi disse: “Ma dove cazzo le prendete queste sciccherie qua?”». La squadra diventa uno squadrone. Undici uomini, di cui due star: il pluri-blasonato brasiliano Junior e soprattutto il bosniaco Sliškovic. «Leo Junior era già stato in Italia, al Torino. Ma con Gigi Radice s’era trovato malissimo. Lo convinse il suo grande amico Zico», ricorda il mister, «a venire a Pescara. “Vai da Galeone ché è tutta un’altra musica”. gli disse. Lo vedo ancora, Junior. Ragazzo generosissimo. È venuto dal Brasile per giocare una partita di vecchie glorie per i terremotati dell’Aquila».
I PIEDI DI SLISKOVIC. Quando gli si chiede chi è stato il giocatore più forte mai
allenato, Galeone risponde senza esitazioni. «Sliškovic. Mai vista una mezz’ala con quel tocco di palla. A Marsiglia l’avevano scaricato per lanciare Abedì Pelè. Quando venne da noi, dopo un’amichevole estiva, Liedholm mi disse: “Giovanni, ma dove l’hai preso questo qua?” Giocasse nel calcio di oggi, con un Moggi qualsiasi alle spalle sarebbe da pallone d’oro». A Pescara segna 8 gol in 23 partite. Poi l’oblio. «“Baka” non raccolse quel che meritava. Anche per colpa della guerra. Lui era un bosniaco, la nazionale jugoslava venne cancellata e per lui cominciò il declino. Peccato, davvero un peccato. Soprattutto perché era ed è un ragazzo serio, una persona splendida. Se lo sento ancora? Certo, chiama sempre per farmi gli auguri durante le feste».
LA PUTTANATA DI PREVERT. Accanto al Galeone «maestro del calcio champagne», emerge il Galeone intellettuale. Il mister «di sinistra», l’acuto divoratore dei libri di Camus e Sartre. Il «Profeta», insomma, che porta Prévert in panchina. «Ma quella era una puttanata», sorride oggi a tanti anni di distanza. «In panchina portavo le Marlboro, mica Prévert. Successe tutto perché dissi a un giornalista che leggevo gli autori francesi. E quello tirò fuori questa storiella». E poi, «il mio calcio era soprattutto allegria. Al contrario di Prévert, che era uno scrittore triste». Gli ideali di sinistra no, quelli erano e sono autentici. Galeone nasce da una famiglia benestante e liberale. «Papà era un ingegnere, non mi è mai mancato nulla. Però da casa sono andato via subito, senza mai chiedere nulla. Nel Dopoguerra ho visto la fame, quella vera, negli occhi della gente. E una sinistra che, nonostante momenti drammatici come i fatti d’Ungheria, è sempre stata unita. Adesso non è più così. Oggi la sinistra, di fatto, è quasi inutile. Infatti Berlusconi è ancora là da quindici anni». Speranze? «I comunisti di una volta erano un’altra cosa. Avesse avuto un Berlinguer da sconfiggere, Berlusconi non avrebbe vinto manco u
n’elezione. Oggi però i comunisti non ci sono più. O meglio, esistono solo nelle fantasie del presidente del Consiglio». Quel che vede, a Galeone, non piace. Neanche in politica. «A sinistra litigano, fanno un’opposizione “contro”. Però non hanno una proposta politica seria da fare al Paese. Prendiamo Vendola, che pure sembra uno serio e intelligente… Ma che cosa ha da proporre? Spero che le cose cambino». In fondo, sono riflessioni di chi ha visto da vicino anche Pier Paolo Pasolini. «Fine anni ’60. A Grado lui stava girando Medea con la Callas. Noi – io, Capello, Reja, Sormani – passavamo le estati là, anche per fare le sabbiature. Giocavamo a pallone, e Pier Paolo era fortissimo. Ma la cosa che mi rimase più impressa successe nello spogliatoio. Quando Raf Vallone, che pure era una star internazionale, ascoltava le parole di questo grande intellettuale a bocca aperta».
TRA BERLUSCONI E MORATTI. All’alba dei settant’anni, Galeone vive tra Udine e Pescara. Per lui, che ha innaffiato di calcio champagne le piazze di provincia (Pescara e Perugia su tutte) e ha lanciato per primo l’allarme doping («Fui il primo a parlare di Epo»), non c’è mai stata una “grande”. «Moratti mi chiamò due volte. La prima, nel 1995, disse però che mi stimava troppo per affidarmi una squadra che lui stesso non riteneva all’altezza». Con Berlusconi fu diverso. «A Vienna, nel 1990, la sera della finale vinta dai rossoneri contro il Benfica, mi ritrovo a passeggiare con Sacchi verso il loro albergo. In hotel, erano le 3 di notte, troviamo Berlusconi che parlava con altri giocatori, tra cui Massaro. Quando il Cavaliere mi vede chiede ad Arrigo: “Non ti dispiace se parlo un po’ col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Alla fine Berlusconi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l’ho mai fatto».
Un decennio più tardi, quando si trattò di difendere il ct Zoff dal j’accuse berlusconiano dopo la finale dell’Europeo persa contro la Francia di Zidane, il Profeta disse pubblicamente: «Avesse detto quelle cose a me, l’avrei mandato affanculo». Oggi al Milan c’è un suo allievo, Allegri. «Volete sapere com’era Max da calciatore? Primo, intelligente. Secondo, credo che non abbia mai messo piede in una discoteca. Terzo, non l’ho mai visto con una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima. Adesso lo sento almeno una volta a settimana. Mi dice che al Milan è molto contento, che là si lavora benissimo». Però è un peccato che, nell’anno del signore 2011, questo non sia più un calcio per Galeone. «Questo pallone s’è ripreso lentamente dopo essere stato mortificato per 10 anni dal 4-4-2 dei falsi imitatori di Sacchi. Per un decennio il calcio è stato prendersi a calci a centrocampo, nulla di più. Il più forte oggi? Ibrahimovic, sui cui avevo puntato nel 2001. Una sera telefono al mio secondo a Pescara, Marco Giampaolo. E gli dico: “Accendi la tv e vedi che cosa sa fare il centravanti dell’Ajax, quello alto. Poi fammi sapere”. Oggi però il pallone è scaduto. In serie A arriva gente che vent’anni fa non l’avrebbe vista manco col binocolo. Allora in difesa c’era gente come Maldini e Baresi. Negli ultimi tempi, invece, Chiellini e Materazzi sono stati considerati tra i difensori più forti d’Italia. Non so se mi spiego…». Irriverente e spumeggiante come il Barney dell’omonima Versione di Richler. Un «Profeta» anche in patria. Galeone Giovanni da Napoli, tra dieci giorni settantenne. Rimarrà ancora l’idolo dei cultori del calcio gourmet. Ma non allenerà più. Potendo, berrà ancora champagne. Altrimenti s’accontenterà di prosecco o della spuma Cirutti. Senza rimpianti e senza invidia. Mai. Auguri.
Quel pomeriggio di un giorno da cani. A Montecitorio.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’1 aprile 2011)
«Che cos’è il genio?», si chiedeva il “Perozzi” (Philippe Noiret) in Amici miei prima di magnificare l’ennesimo scherzo elaborato dal “Necchi” (Duillio Del Prete). «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione!». Il “Necchi” che ieri ha mandato ko la maggioranza è il segretario d’Aula del Pd, Roberto Giachetti.
Aula di Montecitorio, i
nterno giorno, ore 10,25. Quando chiede la parola a inizio seduta, nessuno immagina che Giachetti stia per mettere insieme «fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione», i quattro elementi di un menù parlamentare che trasformerà il 31 marzo del 2011 nell’ennesimo «giorno da cani» della maggioranza. Nel suo intervento il deputato del Pd chiede che dentro il «processo verbale» di cui è appena stata data lettura rientrino alcune performance in cui si era prodotto Ignazio La Russa il giorno prima. «Nel pieno del suo intervento il collega La Russa, rivolto ai colleghi del Pd, affermava che siamo dei conigli», dice. «Chiedo almeno che rimanga agli atti della Camera e soprattutto dentro il processo verbale (…) una frase del genere, che per quanto mi riguarda qualifica il Ministro», insiste.
Sembra una goccia nell’oceano degli atti parlamentari. E invece l’intervento di Giachetti è la biglia che, magicamente, manda in tilt il flipper pidiellino, leghista e responsabile. Meno di venti minuti dopo, infatti, la maggioranza è in un angolo. Per la prima volta nella storia della Repubblica, la Camera boccia il processo verbale del giorno prima. In teoria non significa nulla. In pratica, però, l’opposizione guadagna le ore (preziose) per ricacciare in alto mare il processo breve. Gli attimi prima della chiusura della votazione sono un inferno. Fini si sgola: «Prego i colleghi di prendere posto e di votare. Il Ministro Brunetta ha votato? Il Ministro Fitto ha votato? Ministro Alfano, prego. Dichiaro chiusa la votazione». L’ultimo secondo è fatale al guardasigilli, che sbaglia a inserire la tesserina per votare nell’apposita fessura e poi, con un gesto di stizza, la lancia contro Di Pietro. Ed è fatale anche alla Prestigiacomo, che si volta furibonda verso la terza carica dello Stato (i due, un tempo, si volevano bene assai). «No, no», grida Stefy a Gianfry, chiedendogli implicitamente di tenera aperta la votazione. «Gli ha gridato “stronzo”, Prestigiacomo ha gridato “stronzo” a Fini», giurano dai banchi dell’opposizione (attendesi il resocondo definitivo, oggi). Game. Set. Match. Il presidente della Camera decreta: «Onorevoli, la votazione è stata dichiarata aperta oltre ogni limite. La Camera respinge, a parità di voti».
Dai banchi del Pdl, il tarantino Pietro Franzoso grida nei confronti di Fini frasi che le vecchie educande avrebbero definito
«irripetibili». Il presidente della Camera viene colpito da una copia del Corriere della Sera, mentre una palletta di carta lo manca di poco. «Non sono stato io, erano da dietro», sbraita Franzoso. I boatos (giustizialisti) incolpano le berlus-blondies Castiello Giuseppina da Afragola e Mannucci Barbara da Roma. La prima per il lancio del giornale, la seconda per la palletta di carta.
Ma anche nel più tragicomico degli spettacoli può spuntare una scena tra il misero e il becero. Succede quando, dopo un intervento di Italo Bocchino, Osvaldo Napoli perde la testa e si dirige verso l’assistente della deputata Ileana Argentin. «Tu non puoi applaudire, capito?», dice il berlusconiano piemontese. «Che succede? Che c’è, onorevole Argentin? Non capisco, ha chiesto di parlare, onorevole Argentin?», dice Fini dallo scranno più alto. «Mi hanno rotto anche il microfono! Si è appena avvicinato un collega per dire al mio operatore che non deve permettersi di applaudire» (Argentin). «E ha ragione», sbraita il leghista Polledri. «Ma come si permette!» (Fini a Polledri). «Allora ricordo all’Aula che io non muovo le mani…» (Argentin). «Invito il collega che ha proferito la parola a scusarsi. Onorevole Polledri, si scusi o chiarisca» (ancora Fini). Alcuni deputati del Pd bloccano il collega Michele Meta, amico di una vita di «Ileana», che prova a raggiungere i banchi della maggioranza. Dai banchi del Carroccio parte un «handicappata del cazzo» riferito alla Argentin. Che conclude: «Non desidero le scuse di nessuno. Credo che lei mi conosca abbastanza per sapere che non strumentalizzo mai queste cose. Ma se desidero applaudire un mio avversario, lo faccio come credo e quando credo. Se non lo posso fare con le mie mani, lo faccio con le mani di chiunque». Applausi. Sia Polledri che Napoli, quest’ultimo anche in Transatlantico, si scusano.
La giornata nera del governo si fa nerissima nel pomeriggio, quando il processo breve scompare dai radar. «Questi del gruppo del Pdl so’ proprio incompetenti. Si sono fatti fregare ancora», è l’analisi del “responsabile” Francesco Pionati. Tutto per “colpa” del processo verbale e dell’intuizione di Giachetti. Tutta colpa delle pagine 72 e 73 del resoconto stenografico di mercoledì 30 marzo, il La Russa day. Che – testualmente – dà dei «conigli» ai deputati dell’opposizione e si becca in cambio un doppio «fascista, coglione!». Qualche riga più sotto c’era quella parolina che il ministro della Difesa aveva rivolto al suo ex amico Fini. Per gli atti di Montecitorio è un «va…» (all’indirizzo della presidenza). Ma fior di testimoni, come hanno riportato tutti i giornali di ieri, giurano che quel «va…» era corredato da due effe, una a, una enne, una ci, una u, una elle e una o.
Consorte difende il decreto Parmalat: “Sull’italianità la storia mi dà ragione”.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
«Il decreto anti-scalate? Il governo fa bene, il problema è che si è mosso in ritardo. Di fronte alla minaccia di un’azienda francese molto visibile (Lactalis, ndr) che si sta muovendo su Parmalat, e quindi su un settore strategico per il nostro sistema-paese, non si può rimanere fermi».
Giovanni Consorte risponde alla telefonata del Riformista alle 8 di sera. E accetta di discutere di quella parolina che a lui, tempo fa, portò molto male. «Italianità».
L’ingegner Consorte è l’ex numero uno dell’Unipol che, quasi sei anni fa, tentò l
a scalata alla Bnl, poi finita in mani francesi. Da quell’intricatissima stagione, è venuto fuori con condanne in primo grado e in appello per insider trading, poi annullate nel 2009 dalla quinta sezione penale della Cassazione per incompetenza territoriale della procura di Milano. Oggi è patron di Intermedia, e pochi mesi fa è stato uno dei protagonisti del salvataggio del Bologna calcio.
Il dato “storico-politico” della vicenda è che Consorte, nel 2005 come nel 2011, sosteneva la necessità di proteggere l’italianità di alcune aziende. Allora di Bnl come oggi di Parmalat. Nel giorno in cui dal Quirinale arriva la firma al decreto anti-francesi, lo stesso in cui la procura di Milano apre un’inchiesta sulla scalata by Lactalis, l’ex deus ex machina finanziario delle Cooperative dice al Riformista: «Vede, io la penso esattamente come sei anni fa. Non ho cambiato idea. Ciascun paese dovrebbe dotarsi di “barriere in entrata”, per impedire che le sue aziende di determinati settori strategici finiscano in mani straniere. Se non lo facciamo che succede? Succede semplicemente che finiamo di essere produttori e ci limitiamo a fare i consumatori».
Di obiezioni teoriche ce ne sarebbero a bizzeffe. Ma Consorte insiste: «Il settore bancario, la telefonia e mettiamoci pure l’agroalimentare, visto che stiamo discutendo di un’impresa del calibro di Parmalat: se non difendiamo la bandiera italiana sulle nostre aziende, finiremo per essere sempre in balia degli altri. Anche perché gli altri, a differenza nostra, sanno difendersi: che banche abbiamo preso noi in Francia o in Germania?».
Durante il colloquio, l’ex numero uno di Unipol riesce a togliere un po’ di polvere dall’album dei ricordi. «All’epoca, quando sostenevo la necessità di proteggere l’italianità delle banche, mi accusarono di essere il protagonista di una battaglia di retroguardia. E non mi riferisco soltanto ad alcuni esponenti dell’allora governo (sempre guidato da Berlusconi, ndr). Ma anche a tantissimi “soloni” della sinistra, di quelli che anche oggi sono in auge». I nomi, fuori i nomi. «Ma lasci stare… Impedirono a Unipol di scalare Bnl perché quell’operazione avrebbe cambiato la mappa del potere finanziario italiano. Significava impiantare un nuovo polo bancario a Bologna, nella regione che ha la più alta percentuale di risparmio. E farlo fuori dai, chiamiamoli così, “giri tradizionali”. Che dire, si vede che i tempi non erano maturi… Con risultato che oggi una banca come Bnl paga le tasse in Francia, mica in Italia».
Sta dicendo che, difendendo l’italianità di Parmalat, secondo lei il governo si muove come avrebbe dovuto muoversi all’epoca su Bnl? «Sì, questa può essere un’ottima sintesi. In ogni caso la storia dà ragione a me. D’altronde, sostenevo e sostengo una tesi talmente ovvia che è quasi banale», risponde l’Ingegnere. «E poi glielo ripeto: il decreto dell’esecutivo è una mossa tardiva. Senza “barriere in entrata” a protezione dei nostri settori strategici, l’Italia non va da nessuna parte. Servono interventi a livello complessivo, non basta mica un decreto fatto tra l’altro per rispondere alle minacce francesi su Parmalat».
Resta giusto il tempo per due domande, a cui Consorte risponde rapidamente prima che la comunicazione telefonica s’interrompa. Lei che opinione ha del ministro dell’Economia Giulio Tremonti? «Ottima. Un’ottima opinione», scandisce il numero uno di Intermedia. E di Silvio Berlusconi? «Se devo essere sincero, non lo conosco affatto».
Silvio sembra il Johnny di “E’ quasi magia Johnny”.
(Dal sito ufficiale dell’Aeronautica Militare italiana, domenica 20 marzo)
“Noi non spariamo e non spareremo mai”.
(Silvio Berlusconi, lunedì 21 marzo)
Certo, c’è sempre un modo per sopprimere le difese aeree presenti sul territorio libico mediante l’impiego di missili aria superficie, e farlo senza sparare. Basta usare la forza del pensiero. Come il protagonista del vecchio cartone animato E’ quasi magia Johnny.
I funerali di Stato dell’Aquila. Nome e cognome, fila e numero.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’11 aprile 2009)
L
‘Aquila. Nella Spoon river di Coppito non c’è spazio per epigrafi. In fin dei conti, l’Assassino che mette più di duecento bare nello stesso posto e allo stesso istante uccide non solo la vita, ma anche la morte, il rito della morte, la liturgia del lutto. «Parenti o amici?», chiede all’ingresso della caserma la giovane allieva della scuola finanzieri dell’Aquila, incaricata insieme a decine di colleghi di indicare la retta via a migliaia di disperati. Sono le 9 di mattina. Lo Stato, ai «funerali di Stato» che iniziano alle 11, deve ancora arrivare.
«Parenti o amici?». Alla gentile allieva della scuola finanzieri, appostata all’ingresso del cortile della caserma di Coppito, toccherà ripeterla centinaia di volte, quella domanda. «I parenti a destra, gli amici a sinistra», spiega con fatica e dolore a ogni singolo disperato che arriva. «Parenti», dice un uomo sulla cinquantina, che a stento trattiene le lacrime. «Cerchiamo Gioia… Gioia Piervincenzo». Ma un nome non basta. Per dire l’ultimo «ciao» a ciascuno dei 205 martiri d’Abruzzo (per gli altri 84, le famiglie hanno scelto un funerale in forma privata, lontano dai luoghi del dramma) servono una lettera e un numero. La fila e la colonna in cui è sistemata la bara.
E così Gioia Piervincenzo diventa «B18». Scimia Maria Santa, nata il 12.1.1935, sta a «D50». Italia Giuseppe, 2.8.1963, è «D26». Mentre per Silverstone Vittoria, 20.11.1917, bisogna raggiungere «E02». «Parenti o amici?». «Amici», fa un quarantenne robusto, con la felpa della birra Guinnes, pizzetto e capelli bianchi. E così il suo commiato, invece che ai parenti dell’«amico», deve affidarlo alla giovane finanziera e solo per poter entrare al funerale di Stato. «Amici, sì. A dire il vero d’inverno non ci vedevamo, ma le estati le passavamo sempre insieme. Per questo io e mia moglie volevamo… ma se non si può…». La sua compagna, che sta a pochi centimetri, scoppia in lacrime. La finanziera l’abbraccia, guarda la lista e indica da lontano una fila, una colonna. Una lettera e un numero.
Lo Stato inizia ad arrivare verso le 10. Giorgio Napolitano giunge in silenzio e chiede silenzio. Quello che aveva da dire, il capo dello Stato, lo aveva urlato con la forza delle idee il giorno prima ai sindaci del comprensorio colpito dal sisma: «Se quassù cala l’attenzione, io torno tra tre mesi». Arriva Carlo Azeglio Ciampi e anche l’ex presidente, in segno di rispetto per il Dolore, tace. E così il presidente del Senato Renato Schifani, che si lascia andare solo per dire che «non ci sono parole per parlare». E così Gianfranco Fini.
Quando don Georg ha finito di leggere il messaggio di Benedetto XVI e la cerimonia ha inizio, le massime cariche della Repubblica Italiana sono tutte in tre metri quadrati. Al loro fianco ci sono Gianni Letta, abruzzese, che piange. E poi il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, il governatore regionale Gianni Chiodi (con giubbino della Protezione civile). Quindi la presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, che è di Onna, il borgo che non c’è più, e fa la spola tra la tribuna delle autorità e le bare dei quattro “Pezzopane” che hanno perso la vita nella tragedia. Franco Marini nasconde il dolore dietro lo sguardo da abruzzese fiero. Più indietro, mescolati insieme a militari italiani e ambasciatori stranieri, spuntano Paolo Bonaiuti, Dario Franceschini e Piero Fassino, gli abruzzesi piddì Lanfranco Tenaglia e Giovanni Lolli, Paolo Ferrero, e ancora – in ordine sparso – Gianni Alemanno, Antonio Tajani, Rosy Bindi, Gennaro Migliore e Paolo Cento. Nessuna traccia, invece, dell’ex presidente della Regione Ottaviano Del Turco. A conti fatti, quando il cardinal Tarcisio Bertone inizia a pronunciare l’omelia, nel reparto autorità manca soltanto Silvio Berlusconi.
Il premier aveva atteso l’arrivo di Napolitano. Una stretta di mano alla prima carica dello Stato e Berlusconi scompare per poi materializzarsi, nel giro di un minuto, tra i parenti dei martiri d’Abruzzo. «Non vi lascio soli. Non lasceremo nessuno da solo. Ve lo giuro davanti alle bare», ripete il capo del Governo. Padri e madri senza più figli, sorelle senza più fratelli e fratelli senza più sorelle: il Cavaliere raccoglie decine di bigliettini e lettere. Una donna gli scrive di sentirsi colpevole della morte della figlia, studentessa universitaria: «Presidente, l’ho costretta a iscriversi a L’Aquila anche contro il suo volere. Se non l’avessi fatto sarebbe viva». Più tardi, a esequie finite, il premier prometterà new town costruite come Milano 2, aiuti ai privati che costruiranno case, ricostruzioni in tempi brevi e un processo per direttissima ai quattro sciacalli arrestati ieri mattina. Silenzio. Solo Stefania Pezzopane continuerà a chiedergli «più sobrietà e risorse vere», a ricordargli in un’intervista a Radio 24 che «la prima notte aveva annunciato 2.000 tende e invece ne erano arrivate 120».
A metà cerimonia Berlusconi tornerà tra le autorità, scegliendo inizialmente una posizione defilata. Più d’uno lo vede asciugarsi gli occhi. E quando l’imam Mohammad Nur Dachan finisce di leggere la preghiera rivolta a «uomini e donne dell’unica grande famiglia che vive insieme l’esperienza della vita e quella della morte», il premier – tornato nel frattempo in prima fila – applaude con forza e gli urla «bravo». È a quel punto che una signora rumena sulla sessantina gli va incontro per la terza volta. «Mi devi aiutare», dice la donna al premier. «Non ho più niente», implora. «Mi devi aiutare», ripete. Lui, il Cavaliere, aspetta che signora si allontani e dice ai rappresentanti delle istituzioni abruzzesi: «Per favore, prendete il numero di telefono di questa povera donna. E ditele che penserò a tutto io». Di bare ne ha due, la signora rumena. Una sull’altra, al posto «A01». «Ma non li voglio i nomi di mia figlia e di mio nipote sui vostri giornali». B.D., la figlia, era nata nel 1973. Il piccolo I.G., invece, aveva quattro mesi.
Tra le bare ce n’è anche qualcuna senza nome. E sottoterra, dicono dalla Protezione civile, «chissà quanti cadaveri spunteranno, gente a cui non daremo mai un’identità». Lavoratori clandestini diventati Martiri ignoti. Un fioraio arriva a cerimonia finita. «Cerco la bara di…». Non ha lettera né numero e i fiori finisce per sistemarli su una delle bare che ne ha di meno. Sul feretro di Alessio De Simone, il padre mette una foto incorniciata del figlio che ha perso sotto le macerie. «Voglio questa, di foto». E mostra Alessio, classe ’84, con una corona di foglie in testa, come John Belushi nei toga party di Animal house.
Alle 14, Berlusconi ha guadagnato il centro di coordinamento della Civile mentre i rappresentanti delle istituzioni hanno ormai abbandonato la caserma di Coppito. Attorno a ciascuna delle singole bare inizia il funerale senza Stato. È nel primo pomeriggio, infatti, che la morte recupera i suoi riti e il lutto la sua liturgia. «Voleva andare a New York, aveva già prenotato per le vacanze di Pasqua». «Nonostante l’età non voleva smettere di lavorare. E non sentiva ragioni». «Me la ricordo da quand’era bambina». «Viveva per il rugby». «E adesso, senza di loro, come facciamo?». «Dalla nascita del nipotino era come rinato». «Lo conoscevo da quarant’anni». «Manco due anni e già camminava come “uno grande”». L’ombra dell’Assassino, per un attimo, viene scacciata. Le lettere e i numeri non servono più.

