I funerali di Stato dell’Aquila. Nome e cognome, fila e numero.
di Tommaso Labate (dal Riformista dell’11 aprile 2009)
L‘Aquila. Nella Spoon river di Coppito non c’è spazio per epigrafi. In fin dei conti, l’Assassino che mette più di duecento bare nello stesso posto e allo stesso istante uccide non solo la vita, ma anche la morte, il rito della morte, la liturgia del lutto. «Parenti o amici?», chiede all’ingresso della caserma la giovane allieva della scuola finanzieri dell’Aquila, incaricata insieme a decine di colleghi di indicare la retta via a migliaia di disperati. Sono le 9 di mattina. Lo Stato, ai «funerali di Stato» che iniziano alle 11, deve ancora arrivare.
«Parenti o amici?». Alla gentile allieva della scuola finanzieri, appostata all’ingresso del cortile della caserma di Coppito, toccherà ripeterla centinaia di volte, quella domanda. «I parenti a destra, gli amici a sinistra», spiega con fatica e dolore a ogni singolo disperato che arriva. «Parenti», dice un uomo sulla cinquantina, che a stento trattiene le lacrime. «Cerchiamo Gioia… Gioia Piervincenzo». Ma un nome non basta. Per dire l’ultimo «ciao» a ciascuno dei 205 martiri d’Abruzzo (per gli altri 84, le famiglie hanno scelto un funerale in forma privata, lontano dai luoghi del dramma) servono una lettera e un numero. La fila e la colonna in cui è sistemata la bara.
E così Gioia Piervincenzo diventa «B18». Scimia Maria Santa, nata il 12.1.1935, sta a «D50». Italia Giuseppe, 2.8.1963, è «D26». Mentre per Silverstone Vittoria, 20.11.1917, bisogna raggiungere «E02». «Parenti o amici?». «Amici», fa un quarantenne robusto, con la felpa della birra Guinnes, pizzetto e capelli bianchi. E così il suo commiato, invece che ai parenti dell’«amico», deve affidarlo alla giovane finanziera e solo per poter entrare al funerale di Stato. «Amici, sì. A dire il vero d’inverno non ci vedevamo, ma le estati le passavamo sempre insieme. Per questo io e mia moglie volevamo… ma se non si può…». La sua compagna, che sta a pochi centimetri, scoppia in lacrime. La finanziera l’abbraccia, guarda la lista e indica da lontano una fila, una colonna. Una lettera e un numero.
Lo Stato inizia ad arrivare verso le 10. Giorgio Napolitano giunge in silenzio e chiede silenzio. Quello che aveva da dire, il capo dello Stato, lo aveva urlato con la forza delle idee il giorno prima ai sindaci del comprensorio colpito dal sisma: «Se quassù cala l’attenzione, io torno tra tre mesi». Arriva Carlo Azeglio Ciampi e anche l’ex presidente, in segno di rispetto per il Dolore, tace. E così il presidente del Senato Renato Schifani, che si lascia andare solo per dire che «non ci sono parole per parlare». E così Gianfranco Fini.
Quando don Georg ha finito di leggere il messaggio di Benedetto XVI e la cerimonia ha inizio, le massime cariche della Repubblica Italiana sono tutte in tre metri quadrati. Al loro fianco ci sono Gianni Letta, abruzzese, che piange. E poi il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente, il governatore regionale Gianni Chiodi (con giubbino della Protezione civile). Quindi la presidente della Provincia dell’Aquila, Stefania Pezzopane, che è di Onna, il borgo che non c’è più, e fa la spola tra la tribuna delle autorità e le bare dei quattro “Pezzopane” che hanno perso la vita nella tragedia. Franco Marini nasconde il dolore dietro lo sguardo da abruzzese fiero. Più indietro, mescolati insieme a militari italiani e ambasciatori stranieri, spuntano Paolo Bonaiuti, Dario Franceschini e Piero Fassino, gli abruzzesi piddì Lanfranco Tenaglia e Giovanni Lolli, Paolo Ferrero, e ancora – in ordine sparso – Gianni Alemanno, Antonio Tajani, Rosy Bindi, Gennaro Migliore e Paolo Cento. Nessuna traccia, invece, dell’ex presidente della Regione Ottaviano Del Turco. A conti fatti, quando il cardinal Tarcisio Bertone inizia a pronunciare l’omelia, nel reparto autorità manca soltanto Silvio Berlusconi.
Il premier aveva atteso l’arrivo di Napolitano. Una stretta di mano alla prima carica dello Stato e Berlusconi scompare per poi materializzarsi, nel giro di un minuto, tra i parenti dei martiri d’Abruzzo. «Non vi lascio soli. Non lasceremo nessuno da solo. Ve lo giuro davanti alle bare», ripete il capo del Governo. Padri e madri senza più figli, sorelle senza più fratelli e fratelli senza più sorelle: il Cavaliere raccoglie decine di bigliettini e lettere. Una donna gli scrive di sentirsi colpevole della morte della figlia, studentessa universitaria: «Presidente, l’ho costretta a iscriversi a L’Aquila anche contro il suo volere. Se non l’avessi fatto sarebbe viva». Più tardi, a esequie finite, il premier prometterà new town costruite come Milano 2, aiuti ai privati che costruiranno case, ricostruzioni in tempi brevi e un processo per direttissima ai quattro sciacalli arrestati ieri mattina. Silenzio. Solo Stefania Pezzopane continuerà a chiedergli «più sobrietà e risorse vere», a ricordargli in un’intervista a Radio 24 che «la prima notte aveva annunciato 2.000 tende e invece ne erano arrivate 120».
A metà cerimonia Berlusconi tornerà tra le autorità, scegliendo inizialmente una posizione defilata. Più d’uno lo vede asciugarsi gli occhi. E quando l’imam Mohammad Nur Dachan finisce di leggere la preghiera rivolta a «uomini e donne dell’unica grande famiglia che vive insieme l’esperienza della vita e quella della morte», il premier – tornato nel frattempo in prima fila – applaude con forza e gli urla «bravo». È a quel punto che una signora rumena sulla sessantina gli va incontro per la terza volta. «Mi devi aiutare», dice la donna al premier. «Non ho più niente», implora. «Mi devi aiutare», ripete. Lui, il Cavaliere, aspetta che signora si allontani e dice ai rappresentanti delle istituzioni abruzzesi: «Per favore, prendete il numero di telefono di questa povera donna. E ditele che penserò a tutto io». Di bare ne ha due, la signora rumena. Una sull’altra, al posto «A01». «Ma non li voglio i nomi di mia figlia e di mio nipote sui vostri giornali». B.D., la figlia, era nata nel 1973. Il piccolo I.G., invece, aveva quattro mesi.
Tra le bare ce n’è anche qualcuna senza nome. E sottoterra, dicono dalla Protezione civile, «chissà quanti cadaveri spunteranno, gente a cui non daremo mai un’identità». Lavoratori clandestini diventati Martiri ignoti. Un fioraio arriva a cerimonia finita. «Cerco la bara di…». Non ha lettera né numero e i fiori finisce per sistemarli su una delle bare che ne ha di meno. Sul feretro di Alessio De Simone, il padre mette una foto incorniciata del figlio che ha perso sotto le macerie. «Voglio questa, di foto». E mostra Alessio, classe ’84, con una corona di foglie in testa, come John Belushi nei toga party di Animal house.
Alle 14, Berlusconi ha guadagnato il centro di coordinamento della Civile mentre i rappresentanti delle istituzioni hanno ormai abbandonato la caserma di Coppito. Attorno a ciascuna delle singole bare inizia il funerale senza Stato. È nel primo pomeriggio, infatti, che la morte recupera i suoi riti e il lutto la sua liturgia. «Voleva andare a New York, aveva già prenotato per le vacanze di Pasqua». «Nonostante l’età non voleva smettere di lavorare. E non sentiva ragioni». «Me la ricordo da quand’era bambina». «Viveva per il rugby». «E adesso, senza di loro, come facciamo?». «Dalla nascita del nipotino era come rinato». «Lo conoscevo da quarant’anni». «Manco due anni e già camminava come “uno grande”». L’ombra dell’Assassino, per un attimo, viene scacciata. Le lettere e i numeri non servono più.
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