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E Di Pietro citò i fratelli Craxi come testimoni. Dell’accusa.
Nell’intervista rilasciata oggi al Riformista, Antonio Di Pietro dice molte cose. Confida di sperare nel raggiungimento del quorum al referendum, sostiene che l’abolizione manu referendaria del legittimo impedimento provocherà lo scioglimento delle Camere, chiede di non essere più “bistrattato” dai “benpensanti” dell’opposizione.
Ma la vera novità del Tonino pensiero è un’altra. Per la prima volta dopo vent’anni, l’ex pm cita i fratelli Craxi come testimoni dell’accusa.
Domanda: secondo lei, i berluscones hanno superato anche il limite di quei politici della Prima Repubblica finiti con Tangentopoli?
Entrambi i fratelli Craxi, anche Stefania, hanno detto che questi sono peggio di quelli della Prima repubblica.
Di Pietro d’accordo coi fratelli Craxi? Sarebbe un inedito.
Con la differenza che io non uso le malefatte dei politici di oggi per giustificare quelle della classe politica di ieri. Però una cosa la devo dire: a differenza di vent’anni fa, oggi i delinquenti della politica hanno perso ogni pudore e ogni limite. Perché vede, ai tempi di Mani Pulite il politico lestofante aveva due strade: rispondere ai magistrati oppure darsi latitante. Adesso, con Berlusconi, non rispondono né scappano. Si fanno eleggere in Parlamento e approvano leggi contro i magistrati.
Giovanni Galeone, il 4-3-3 e la sinistra perduta.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 23 gennaio 2011)
È tornato Zeman, è tornato Dan Peterson. Lui no, non tornerà. È l’ultimo dei 54 minuti di chiacchierata col Riformista, l’unico momento in cui la voce del Profeta tradisce una punta d’amarezza. «No, non mi siederò mai più su una panchina. Un po’ per la condizione fisica, che comunque è un problema che si risolverebbe chiamando un “secondo” giovane e in forma. Ma soprattutto perché non riesco ad avere più un rapporto con i calciatori. Me ne sono reso conto quattro anni fa, ad Udine. Non li sopporto più, i calciatori. Ormai hanno un potere contrattuale spaventoso, che porta molti di loro a non avere rispetto per la divisione dei ruoli. Scegli di non far giocare uno e quello mica te lo dice in faccia. No, si lamenta col suo procuratore, che poi chiama il direttore sportivo, che il giorno dopo chiama te».
Peccato, non è più calcio per Giovanni Galeone. Il Profeta che tra dieci giorni compirà settant’anni. Dal «suo» 4-3-3 a «quella notte a Vienna con Silvio Berlusconi», dalle partitelle a pallone col «genio» Pasolini all’intuizione su Ibrahimovic, dal «maestro» Liedholm alla «puttanata» sui libri di Prévert portati in panchina. E il Pescara dei miracoli. E il calciatore più forte mai allenato, Blaž Sliškovic, «uno che nel calcio di oggi, con un procuratore dietro le spalle, si giocherebbe il pallone d’oro».
Galeone sfoglia un album dei ricordi lungo sette decenni. E ora che manca poco all’appuntamento con le settanta candeline, scaccia ancora una volta la parola «rimpianto» dal suo vocabolario: «La verità è che non sono mai stato invidioso. Giusto un po’ d’invidia nei confronti degli intelligenti e dei colti. Per il resto, me ne sono fregato dei soldi, della fama e dei successi altrui. Quando ho potuto, ho brindato con lo champagne. Altrimenti mi son sempre andati bene anche il prosecco o la spuma Cirutti».
Impossibile cavarsela dicendo che «in fondo è solo un allenatore di calcio». D’altronde, il suo bouquet di aforismi lo rende più simile al Barney dell’omonima Versione di Richler che a un Guidolin qualsiasi. Ha mandato pubblicamente «affanculo» Berlusconi negli anni 2000, disse che non avrebbe fatto marcare a uomo nemmeno Maradona («Perché mi creerebbe un buco a centrocampo») nel 1989, impose ai suoi atleti solo «allegria e libertà d’azione, come se giocassero sul pavimento di casa» nel 1986 e soprattutto ha sempre ricordato che la zona e il 4-3-3 li fatti prima lui, «e poi Zeman».
La sua storia di giovane emigrato napoletano si fa favola nel 1986. Quando gli scarpini da calciatore sono al chiodo da un pezzo. «La mia fortuna», racconta al Riformista, «era stata allenare le giovanili dell’Udinese. Altra epoca. Trovavi ragazzini che venivano agli allenamenti e ti dicevano: “Mister, ma sa che ieri ho visto il Bruges, giocavano con 5 difensori, 2 centrocampisti e 3 punte?”. Sperimentavamo, provavamo». A furia di provare e riprovare viene fuori il 4-3-3, con cui il Profeta fa girare la Spal dall’83 all’86. «Gustinetti, Bresciani e Trombetta avanti. Dietro di loro tre mezz’ali vere». Nel 1986 è l’ora di Pescara. «Giocavamo a zona solo noi e il Parma di Arrigo Sacchi. Solo che la mia era una squadra costruita per non retrocedere. Arrivammo primi». Il battesimo in serie A, l’anno dopo, è a San Siro contro l’Inter. «Vincemmo per 2 a 0. Ricordo ancora che la sera finii a discutere con Sivori alla Domenica sportiva. Il grande Omar sosteneva che chi giocava a zona era destinato a retrocedere. Io risposi che di 40 squadre che retrocedevano ogni anno, almeno 39 giocavano a uomo. Ti credo, a zona giocavamo solo noi…». Oggi tutto il calcio è la rivoluzione di Galeone. «L’unico da cui un po’ ho copiato è stato il grande maestro Nils Liedholm. No, Zeman no. Lui è arrivato dopo di me».
IL PAPA’ DELLA RIVOLUZIONE. Il Pescara di Galeone è leggenda ancora oggi. «Non c’erano grandi soldi, per cui fummo costretti a sacrificare i due “gioielli” che erano stati protagonisti in serie B. Rebonato e Bosco», racconta il Profeta. In società fa il suo ingresso l’imprenditore Pietro Scibilia, che con la sua «Gis» sponsorizzava le pedalate di Francesco Moser. «Cominciammo a girare nei migliori hotel. Le divise, elegantissime, le produceva una nota azienda abruzzese, da cui si serviva anche l’Avvocato Agnelli. Romeo Anconetani, presidente del Pisa, diventava matto quando le vedeva. Una volta mi disse: “Ma dove cazzo le prendete queste sciccherie qua?”». La squadra diventa uno squadrone. Undici uomini, di cui due star: il pluri-blasonato brasiliano Junior e soprattutto il bosniaco Sliškovic. «Leo Junior era già stato in Italia, al Torino. Ma con Gigi Radice s’era trovato malissimo. Lo convinse il suo grande amico Zico», ricorda il mister, «a venire a Pescara. “Vai da Galeone ché è tutta un’altra musica”. gli disse. Lo vedo ancora, Junior. Ragazzo generosissimo. È venuto dal Brasile per giocare una partita di vecchie glorie per i terremotati dell’Aquila».
I PIEDI DI SLISKOVIC. Quando gli si chiede chi è stato il giocatore più forte mai allenato, Galeone risponde senza esitazioni. «Sliškovic. Mai vista una mezz’ala con quel tocco di palla. A Marsiglia l’avevano scaricato per lanciare Abedì Pelè. Quando venne da noi, dopo un’amichevole estiva, Liedholm mi disse: “Giovanni, ma dove l’hai preso questo qua?” Giocasse nel calcio di oggi, con un Moggi qualsiasi alle spalle sarebbe da pallone d’oro». A Pescara segna 8 gol in 23 partite. Poi l’oblio. «“Baka” non raccolse quel che meritava. Anche per colpa della guerra. Lui era un bosniaco, la nazionale jugoslava venne cancellata e per lui cominciò il declino. Peccato, davvero un peccato. Soprattutto perché era ed è un ragazzo serio, una persona splendida. Se lo sento ancora? Certo, chiama sempre per farmi gli auguri durante le feste».
LA PUTTANATA DI PREVERT. Accanto al Galeone «maestro del calcio champagne», emerge il Galeone intellettuale. Il mister «di sinistra», l’acuto divoratore dei libri di Camus e Sartre. Il «Profeta», insomma, che porta Prévert in panchina. «Ma quella era una puttanata», sorride oggi a tanti anni di distanza. «In panchina portavo le Marlboro, mica Prévert. Successe tutto perché dissi a un giornalista che leggevo gli autori francesi. E quello tirò fuori questa storiella». E poi, «il mio calcio era soprattutto allegria. Al contrario di Prévert, che era uno scrittore triste». Gli ideali di sinistra no, quelli erano e sono autentici. Galeone nasce da una famiglia benestante e liberale. «Papà era un ingegnere, non mi è mai mancato nulla. Però da casa sono andato via subito, senza mai chiedere nulla. Nel Dopoguerra ho visto la fame, quella vera, negli occhi della gente. E una sinistra che, nonostante momenti drammatici come i fatti d’Ungheria, è sempre stata unita. Adesso non è più così. Oggi la sinistra, di fatto, è quasi inutile. Infatti Berlusconi è ancora là da quindici anni». Speranze? «I comunisti di una volta erano un’altra cosa. Avesse avuto un Berlinguer da sconfiggere, Berlusconi non avrebbe vinto manco un’elezione. Oggi però i comunisti non ci sono più. O meglio, esistono solo nelle fantasie del presidente del Consiglio». Quel che vede, a Galeone, non piace. Neanche in politica. «A sinistra litigano, fanno un’opposizione “contro”. Però non hanno una proposta politica seria da fare al Paese. Prendiamo Vendola, che pure sembra uno serio e intelligente… Ma che cosa ha da proporre? Spero che le cose cambino». In fondo, sono riflessioni di chi ha visto da vicino anche Pier Paolo Pasolini. «Fine anni ’60. A Grado lui stava girando Medea con la Callas. Noi – io, Capello, Reja, Sormani – passavamo le estati là, anche per fare le sabbiature. Giocavamo a pallone, e Pier Paolo era fortissimo. Ma la cosa che mi rimase più impressa successe nello spogliatoio. Quando Raf Vallone, che pure era una star internazionale, ascoltava le parole di questo grande intellettuale a bocca aperta».
TRA BERLUSCONI E MORATTI. All’alba dei settant’anni, Galeone vive tra Udine e Pescara. Per lui, che ha innaffiato di calcio champagne le piazze di provincia (Pescara e Perugia su tutte) e ha lanciato per primo l’allarme doping («Fui il primo a parlare di Epo»), non c’è mai stata una “grande”. «Moratti mi chiamò due volte. La prima, nel 1995, disse però che mi stimava troppo per affidarmi una squadra che lui stesso non riteneva all’altezza». Con Berlusconi fu diverso. «A Vienna, nel 1990, la sera della finale vinta dai rossoneri contro il Benfica, mi ritrovo a passeggiare con Sacchi verso il loro albergo. In hotel, erano le 3 di notte, troviamo Berlusconi che parlava con altri giocatori, tra cui Massaro. Quando il Cavaliere mi vede chiede ad Arrigo: “Non ti dispiace se parlo un po’ col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Alla fine Berlusconi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l’ho mai fatto».
Un decennio più tardi, quando si trattò di difendere il ct Zoff dal j’accuse berlusconiano dopo la finale dell’Europeo persa contro la Francia di Zidane, il Profeta disse pubblicamente: «Avesse detto quelle cose a me, l’avrei mandato affanculo». Oggi al Milan c’è un suo allievo, Allegri. «Volete sapere com’era Max da calciatore? Primo, intelligente. Secondo, credo che non abbia mai messo piede in una discoteca. Terzo, non l’ho mai visto con una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima. Adesso lo sento almeno una volta a settimana. Mi dice che al Milan è molto contento, che là si lavora benissimo». Però è un peccato che, nell’anno del signore 2011, questo non sia più un calcio per Galeone. «Questo pallone s’è ripreso lentamente dopo essere stato mortificato per 10 anni dal 4-4-2 dei falsi imitatori di Sacchi. Per un decennio il calcio è stato prendersi a calci a centrocampo, nulla di più. Il più forte oggi? Ibrahimovic, sui cui avevo puntato nel 2001. Una sera telefono al mio secondo a Pescara, Marco Giampaolo. E gli dico: “Accendi la tv e vedi che cosa sa fare il centravanti dell’Ajax, quello alto. Poi fammi sapere”. Oggi però il pallone è scaduto. In serie A arriva gente che vent’anni fa non l’avrebbe vista manco col binocolo. Allora in difesa c’era gente come Maldini e Baresi. Negli ultimi tempi, invece, Chiellini e Materazzi sono stati considerati tra i difensori più forti d’Italia. Non so se mi spiego…». Irriverente e spumeggiante come il Barney dell’omonima Versione di Richler. Un «Profeta» anche in patria. Galeone Giovanni da Napoli, tra dieci giorni settantenne. Rimarrà ancora l’idolo dei cultori del calcio gourmet. Ma non allenerà più. Potendo, berrà ancora champagne. Altrimenti s’accontenterà di prosecco o della spuma Cirutti. Senza rimpianti e senza invidia. Mai. Auguri.
Consorte difende il decreto Parmalat: “Sull’italianità la storia mi dà ragione”.
di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)
«Il decreto anti-scalate? Il governo fa bene, il problema è che si è mosso in ritardo. Di fronte alla minaccia di un’azienda francese molto visibile (Lactalis, ndr) che si sta muovendo su Parmalat, e quindi su un settore strategico per il nostro sistema-paese, non si può rimanere fermi».
Giovanni Consorte risponde alla telefonata del Riformista alle 8 di sera. E accetta di discutere di quella parolina che a lui, tempo fa, portò molto male. «Italianità».
L’ingegner Consorte è l’ex numero uno dell’Unipol che, quasi sei anni fa, tentò la scalata alla Bnl, poi finita in mani francesi. Da quell’intricatissima stagione, è venuto fuori con condanne in primo grado e in appello per insider trading, poi annullate nel 2009 dalla quinta sezione penale della Cassazione per incompetenza territoriale della procura di Milano. Oggi è patron di Intermedia, e pochi mesi fa è stato uno dei protagonisti del salvataggio del Bologna calcio.
Il dato “storico-politico” della vicenda è che Consorte, nel 2005 come nel 2011, sosteneva la necessità di proteggere l’italianità di alcune aziende. Allora di Bnl come oggi di Parmalat. Nel giorno in cui dal Quirinale arriva la firma al decreto anti-francesi, lo stesso in cui la procura di Milano apre un’inchiesta sulla scalata by Lactalis, l’ex deus ex machina finanziario delle Cooperative dice al Riformista: «Vede, io la penso esattamente come sei anni fa. Non ho cambiato idea. Ciascun paese dovrebbe dotarsi di “barriere in entrata”, per impedire che le sue aziende di determinati settori strategici finiscano in mani straniere. Se non lo facciamo che succede? Succede semplicemente che finiamo di essere produttori e ci limitiamo a fare i consumatori».
Di obiezioni teoriche ce ne sarebbero a bizzeffe. Ma Consorte insiste: «Il settore bancario, la telefonia e mettiamoci pure l’agroalimentare, visto che stiamo discutendo di un’impresa del calibro di Parmalat: se non difendiamo la bandiera italiana sulle nostre aziende, finiremo per essere sempre in balia degli altri. Anche perché gli altri, a differenza nostra, sanno difendersi: che banche abbiamo preso noi in Francia o in Germania?».
Durante il colloquio, l’ex numero uno di Unipol riesce a togliere un po’ di polvere dall’album dei ricordi. «All’epoca, quando sostenevo la necessità di proteggere l’italianità delle banche, mi accusarono di essere il protagonista di una battaglia di retroguardia. E non mi riferisco soltanto ad alcuni esponenti dell’allora governo (sempre guidato da Berlusconi, ndr). Ma anche a tantissimi “soloni” della sinistra, di quelli che anche oggi sono in auge». I nomi, fuori i nomi. «Ma lasci stare… Impedirono a Unipol di scalare Bnl perché quell’operazione avrebbe cambiato la mappa del potere finanziario italiano. Significava impiantare un nuovo polo bancario a Bologna, nella regione che ha la più alta percentuale di risparmio. E farlo fuori dai, chiamiamoli così, “giri tradizionali”. Che dire, si vede che i tempi non erano maturi… Con risultato che oggi una banca come Bnl paga le tasse in Francia, mica in Italia».
Sta dicendo che, difendendo l’italianità di Parmalat, secondo lei il governo si muove come avrebbe dovuto muoversi all’epoca su Bnl? «Sì, questa può essere un’ottima sintesi. In ogni caso la storia dà ragione a me. D’altronde, sostenevo e sostengo una tesi talmente ovvia che è quasi banale», risponde l’Ingegnere. «E poi glielo ripeto: il decreto dell’esecutivo è una mossa tardiva. Senza “barriere in entrata” a protezione dei nostri settori strategici, l’Italia non va da nessuna parte. Servono interventi a livello complessivo, non basta mica un decreto fatto tra l’altro per rispondere alle minacce francesi su Parmalat».
Resta giusto il tempo per due domande, a cui Consorte risponde rapidamente prima che la comunicazione telefonica s’interrompa. Lei che opinione ha del ministro dell’Economia Giulio Tremonti? «Ottima. Un’ottima opinione», scandisce il numero uno di Intermedia. E di Silvio Berlusconi? «Se devo essere sincero, non lo conosco affatto».
“Quello sporco rimpasto”. Starring Saverio Romano, directed by Mario Pepe
di Tommaso Labate (dal Riformista del 5 marzo 2011)
«Calearo viceministro dello Sviluppo economico, Misiti ai Trasporti, Romano all’Agricoltura con Galan spostato ai Beni culturali… È tutto pronto per la prossima settimana». Il “commissario tecnico” dei Responsabili, Mario Pepe, snocciola al Riformista un rimpastone «alla Sarkozy».
Mario Pepe, il deux ex machina dei “Responsabili”. L’uomo delle compravendite.
Ma che cosa sta dicendo? Non sa quanta gente vuole venire da noi ed è bloccata dal ricatto dei rispettivi partiti. Tre gli ex della Margherita, ad esempio, ci sono un sacco di parlamentari che idealmente stanno già con noi.
Ma se solo l’Idv ha perso una caterva di eletti, tutti venuti nella maggioranza.
Erano persone che stavano con Di Pietro solo per essere elette. E visto che non condividevano il giustizialismo dell’ex pm, l’hanno fregato.
Ideali, valori, bella politica.
Certo. Mi creda: la somma dei parlamentari che idealmente sta col governo è aritmeticamente superiore ai numeri che già abbiamo.
Fuori i nomi.
Niente nomi. Le dico solo che il governo Berlusconi ha molti sostenitori che per ora sono occulti.
I Responsabili che già ci sono attendono il rimpasto. Si saranno stancati di aspettare, no?
La prossima settimana si comincia. Noi di “Iniziativa responsabile” mettiamo a disposizione del governo alcuni nomi di altissimo profilo. Prenda Calearo, ad esempio.
Prendiamolo.
Farà il viceministro dello Sviluppo economico con delega al commercio estero, nel posto che fu di Urso. Calearo, ex presidente di Federmeccanica, è stato eletto col Pd. Va dato atto a Veltroni di aver scelto molto bene questo candidato, eh? Ci tengo a riconoscere questo merito all’opposizione.
E riconosciamoglielo.
Portare Calearo al governo sarà per Berlusconi un’operazione, come dire, bipartisan. Alla Sarkozy, va’.
E una casella è riempita.
Poi, vogliamo dimenticarci di un Sud che ha bisogno dello sviluppo infrastrutturale, di una Salerno-Reggio Calabria che necessita di percorsi alternativi, delle ferrovie del Meridione?
No che non vogliamo.
Aurelio Misiti, ex Mpa, è il nome giusto. Uno dei massimi esperti in materia di trasporti che questo paese può vantare.
Quindi, Misiti sottosegretario.
Eh no, una professionalità del genere merita un posto da viceministro.
E chi lo dice a Tremonti che deve sborsare più soldi per la squadra di governo?
Glielo dice Berlusconi, sempre se non gliel’ha già detto. E poi, mica arriveremo ai 110 posti del governo Prodi. Una settantina, non di più. Più uomini di governo presidiano le commissioni, più aumenta la produttività di Parlamento ed esecutivo.
Però l’Agricoltura la vuole la Lega.
Per l’Agricoltura c’è già Saverio Romano.
Un altro “responsabile”.
Sì. E Galan può traslocare dall’Agricoltura ai Beni culturali. Si figuri, lui è già contento. Ha già delle idee per la cultura del Veneto…
Addio Bondi, allora.
Bondi va via da martire, perché è stato accusato ingiustamente per il crollo di Pompei. E da vincente, perché è uscito indenne dalla mozione di sfiducia. Comunque per Galan c’è sempre la subordinata del ministero delle Politiche comunitarie, lasciato libero da Ronchi.
I responsabili scalpitano. Ci si mette un secondo a diventare irresponsabile.
Noi vogliamo dare una mano a questa maggioranza e a questo governo. È un’operazione che serve al Paese, questo rimpasto.
E lei, il regista dell’operazione? Non chiede niente per sé?
Io devo soltanto tenere buone tutte queste risorse che, giustamente, vogliono essere valorizzate. Non mi metterei certo a rubare il posto a uno di loro, figuriamoci.
Vuolsi così colà dove si rimpasta ciò che Mario Pepe vuole. E se il premier fa Sarkozy, lei…
Io posso fare l’Attali della situazione, certo. Mi accontento.
L’intervista politico-musicale di Bersani a Vanity fair.
di Tommaso Labate (piccolissimo estratto da Vanity fair di questa settimana)
Dica la verità, anche lei scrive un libro su se stesso per anticipare la discesa in campo per la guida del centrosinistra?
(…) Campo o non campo, la partita è da giocare (…).
Ha letto il libro di Matteo Renzi, no?
No, non ancora. Me ne manca qualcuno anche di Dostoevskij… (…)
Meglio Belén o la Canalis?
Belén. Ha dimostrato un po’ di professionalità in più. (…)
Massimo Marino/1. Il mito trash di Roma, dal Tufello a Marrazzo.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 4 marzo 2005)
Se vi trovate a Roma e dintorni (ma anche oltre) e nel bel mezzo dello zapping notturno dal vostro televisore appare un personaggio che, tra una palpata di culo a una spogliarellista e una chiacchiera col dj di turno, lancia appelli contro «l’oscurazione d’a ricerca su e cellule staminali», non ci sono dubbi. Vi siete imbattuti nel terzo polo televisivo che sfida a colpi di «odiens» i salotti filosofici di La Porta e le repliche di Mediaset: state guardando su Viviroma television lo show di Massimo Marino, che realizza meravigliosi reportage dai locali notturni della capitale. Per molti Massimo è «puro trash»; per altri è «ben oltre il trash». Per i ragazzi di tutta una città, per quelli che si dividono in romanisti e laziali, Massimo Marino è semplicemente un’istituzione.
L’istituzione è pronta a tuffarsi nell’arena delle elezioni regionali con il Movimento consumatori uniti, alleato col centrosinistra. Storace ha dalla sua Bud Spencer e l’ex principe Giannini? Marrazzo risponde con Massimo Marino. «A frate’ – esordisce – io so’ n’pupazzo, me piace fa’ er Mappet sciò d’a televisione. Altri partiti m’avevano chiesto de candidamme co lloro. L’urtimi so stati quelli dell’uddiccì. Me dicevano “A Ma’, chi te lo fa fare a candidatte co’ quelli? Devi pure raccoje ‘e firme”». Ma Massimo, di estrazione «proletario – borgatara, so nato ar Tufello», di tradire il proprio credo non ne voleva sapere. «C’ho il massimo rispetto per chi ha ideologie diverse dalle mie. Ma me piace la mia faccia e quando me guardo allo specchio, nun ce voglio sputa’ sopra».
Massimo c’ha «tre fisse» e una paura. Tra le prime ci sono la libertà di informazione e il riscatto dei giovani di borgata. «Da anni faccio controinformazione e combatto per l’informazione che rispetti ‘e regole. Perché, ad esempio, Rete4 trasmette ancora sull’etere? A voi ‘ste cose le posso dire…». E aggiunge: «M’avevano detto che er Riformista era un giornale de centrodestra, ma m’avevano ‘nformato male». Ma il tema su cui Massimo non sente ragioni è la libertà di ricerca scientifica. Ha da poco sconfitto il cancro e il forum del suo sito è inondato da messaggi di ragazzi che combattono contro il male. «Frate’, ci so’ i bigotti, i bigottismi, che difendono l’embrione che lo dice la parola stessa che è vita preembrionale. Invece de sta nei frigoriferi, possono salvare e dare la vita vera e consentire la ricerca libera. La ricerca, t’o dico per esperienza, te sarva la vita».
L’unica paura di Massimo, «so’ i totalitarismi. Nun ce posso fa nulla. Il rischio del pensiero unico me fa trema’. Infatti, ‘o sai che faccio? Se Marazzo vince col 90%, me ne vado co’ Storace». Arriva l’ora dei saluti. La campagna elettorale incombe. Il passato di Massimo, prima della «svorta televisiva», è quello di «nullafacente, barista, fruttarolo, macellaro, carrozziere, muratore, vucumpra’». Nel futuro c’è magari un posto in consiglio regionale. «A, frappe’ (a fra poco), bella frate’» ci saluta. Nello stesso modo in cui, di notte, lancia la pubblicità.