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Esorciccio a Sanremo. La Rai manda all’Ariston un commissario senza poteri.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 16 febbraio 2012)
È come quando nei film americani arriva l’omino dell’Fbi a sottrarre le indagini allo sceriffo? Oppure una mossa a effetto, tipo l’Esorciccio interpretato da Ingrassia che arriva nel paesello a scacciare il demonio al grido «Aglio olio e peperoncino, esci fuori da questo lettino!»? La scelta della Rai di mandare un commissario a Sanremo sembra più «la seconda che hai detto».
Perché Antonio Marano, il «commissario» che il dg Lorenza Lei ha inviato a Sanremo per tentare di evitare pericolosi bis di Adriano Celentano, di fatto non avrà alcun potere sul Molleggiato. Che, contratto alla mano, potrà continuare a invocare chiusure di testate (Avvenire e Famiglia cristiana), offendere Aldo Grasso ed entrare a gamba tesa sulla Consulta. Perché? Semplice. Al massimo Celentano sarà accusato di aver violato il «codice etico» dell’azienda. E, per questo, potrà anche essere (virgolette d’obbligo) “processato” nei prossimi mesi. Ma nessuno ha accesso ai suoi testi. Soltanto il direttore della Rete, infatti, può intimargli l’altolà. Non a caso, l’ultima volta che il Molleggiato s’era presentato sul palco dell’Ariston coi galloni del superospite, al crepuscolo della legislatura berlusconiana 2001-2006, l’allora direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce aveva scelto di autosospendersi dall’incarico per quattro settimane pur di non assumersi la responsabilità della voce del verbo d’Adriano.
Risultato? Coi «poteri d’intervento» Marano ha i titoli per approdare a bordo Ariston come il Montalbano di Camilleri, persino per presentarsi al grido di «Marano sono». Ma su Celentano e quello che dirà, nisba. È il segno che la Rai del presidente Paolo Garimberti («La Rai si dissocia da Celentano») e del dg Lorenza Lei («Di fronte alla situazione che si è venuta a creare…») ha trovato un parafulmine a cui mettere in conto eventuali remake del Celentano horror picture show di martedì?
Di certo c’è che l’arrivo di Marano nella città dei fiori ha trasformato il dietro le quinte sanremese nella Guerra dei Roses. Il direttore di RaiUno Mauro Mazza spiega che tra i compiti del commissario «c’è il coordinamento dell’offerta radiotelevisiva», che «è un lavoro che svolge quotidianamente», che – insomma – Marano «viene a darci una mano». Ma alla teoria del Marano-ti-dà-una-mano la macchina del Festival si ribella. Il direttore artistico Giammarco Mazzi è furibondo: «Voglio capire in che cosa consiste questo potere d’intervento. Perché per quel che mi riguarda il percorso artistico di questa edizione è già tracciato». E il travaso di bile dell’eterno ragazzo Gianni Morandi arriva a superare persino la sua soglia preferita, quella dei cento all’ora. «Ma ci voleva un comunicato stampa per annunciare l’arrivo di Marano? Quindi, se andremo male con gli ascolti, la colpa è di Marano?».
Anche la politica si divide. Seguendo la direttrice di una strada coincidenza: gli ultras del governo Monti criticano Celentano. Al contrario degli scettici e degli oppositori dei Professori, che invece prendono di mira l’azienda di viale Mazzini. «Dopo Celentano di ieri, stamani ho comprato due copie di Avvenire e Famiglia Cristiana», scrive su Twitter il vicesegretario del Pd Enrico Letta. «Non si puó mai chiedere o auspicare la chiusura di un giornale. Mai», annota Walter Veltroni. E ancora, stavolta nel Pdl, «Celentano predicatore, è vergognoso quanto accaduto» (Maurizio Lupi), «Siamo al tramonto di un vecchio guru» (Roberto Formigoni). E infine, nel Terzo Polo, «Celentano sbaglia» (Rocco Buttiglione). Un po’ più critico, invece, il deputato-spin doctor dell’Udc Roberto Rao: «La Rai ha rinunciato ai diritti web sull’intervento di Celentano dopo averlo pagato a peso d’oro. Complimenti».
Chi è più morbido nel sostegno al governo, al contrario, attacca la Rai. «Il commissario servirebbe di più a viale Mazzini», dichiara il bersaniano Matteo Orfini (che pure non risparmia critiche a Celentano). «L’arte non si censura mai», aggiunge Vincenzo Vita, della sinistra del Pd. «Sono d’accordo con Celentano. Bisogna commissariare i dirigenti della Rai», s’infervora Antonio Di Pietro. Perché, aggiunge Beppe Giulietti, «non sanno manco fare i censori. Non lo sapevano quando l’hanno chiamato che finiva così?».
Nella contesa s’affacciano i frati di Assisi, «fratello Adriano, che il Signore ti dia pace». E pure il berlusconiano Sandro Bondi, che giudica «commovente» il discorso «sulla fede e sulla morte» uscito dalla molleggiata bocca dell’Adriano nazionale. Certo, fosse stato ancora ministro della Cultura, sul pensiero di Bondi ci sarebbe stato da riflettere. Adesso no. Di fronte alla sua commozione si può piangere o ridere. O, alle brutte, mandargli un commissario traversito da Esorciccio. Magari per dirgli, come faceva Ciccio Ingrassia nella nota pellicola: «In nome di Mao ti espello!». Oppure, in maniera più argomentata: «Ascoltami! Con Mao o Maometto, alzati dal letto!».
Da viale Mazzini a Segrate. Il «grande risiko» può cominciare con l’addio di Minzolini alla direzione del Tg1.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 ottobre 2011)
Ancora qualche settimana e, stando al tam-tam di viale Mazzini, Augusto Minzolini abbandonerà la direzione del Tg1.
Quella che per giorni è stata una semplice “voce”, adesso è qualcosa di più. Al punto che tanto nei corridoi del settimo piano della Rai quanto nella commissione di Vigilanza, l’addio di Minzolini alla poltrona di direttore del Tg1 viene addirittura associato all’aggettivo «imminente».
Sia chiaro, l’ex editorialista della Stampa non ha alcuna intenzione di lasciare la guida dell’ammiraglia dell’informazione pubblica. Di certo non dopo le polemiche dell’opposizione sul sorpasso subito ieri l’altro da parte dell’edizione serale del Tg5. E che non sia questione di ascolti, soprattutto all’interno di un giornale che adesso subisce anche la concorrenza del Tg de La7 di Enrico Mentana, lo testimonia anche la pila di foglietti che il certosino Minzolini conserva gelosamente nel primo cassetto della sua scrivania. Una specie di dossier pronto per qualsiasi uso, che il direttore del Tg1 oppone a chiunque lo attacchi sui dati Auditel. Pezzi di carta con grafici e numeri, sulla base dei quali «Minzo» sostiene che «l’anno scorso il mio Tg1 è stato sorpassato dal Tg5 soltanto una volta». E soltanto «perché la direzione della Rete, in occasione della festa delle Forze Armate, aveva deciso di sostituire il pre-serale con un concerto di Biagio Antonacci». A poco serve, come sanno bene i suoi amici e colleghi, fargli notare che nel 2011 quei “sorpassi” della concorrenza sono diventati da uno a quattro, l’ultimo dei quali martedì. “Minzo” prende la pila di foglietti e corre alle pagine relative al 2002, quando il Tg1 di Mimun era finito dietro il Tg5 «per ben centoventi volte».
Ma tabelle, schemini e cifre di ascolti hanno poco a che vedere con un cambio della guardia che Minzolini continua a considerare destituito di ogni fondamento. Nel momento in cui è chiaro che Silvio Berlusconi provocherà anzitempo lo showdown che trascinerà tutti alle urne in primavera, il direttore che più di ogni altro ha contrassegnato il lato catodico dell’ultimo berlusconismo è destinato a cedere il passo anzitempo. Perché la Rai, come sussurra uno dei componenti del cda, «dipende dalla politica» e quindi sa «sintonizzarsi col vento nuovo anche prima che inizi a soffiare». Un modo come un altro per dire che «Berlusconi cadrà, ma Minzolini andrà giù prima di lui».
Infatti il pressing sul direttore del Tg1 s’è fatto ormai asfissiante. E l’uscita di scena potrebbe anche anticipare la decisione del gip che dovrà pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio per peculato nei suoi confronti, messa nero su bianco dai pm di Roma che indagano sulle spese fatte da Minzolini con la carta di credito aziendale. «Soldi poi restituiti, spese di rappresentanza», s’è sempre difeso il diretto interessato. Se ci sarà il rinvio a giudizio, ha chiarito il dg di viale Mazzini Lorenza Lei, «mi riservo di valutare tutto quello che è necessario, anche perché non ci sono casi analoghi ma solo similari». Ma se il direttore del Tg1 fosse costretto ad andare via prima, almeno “quel” rebus sarebbe risolto.
Se il divorzio tra Minzolini e il tiggì della prima rete si materializzasse a stretto giro, il grande risiko editoriale con cui si chiuderà il 2011 avrà ufficialmente inizio. Come? Negli ultimi giorni, “Minzo” viene dato in corsa per la guida di Panorama, che Giorgio Mulè – finito nel mirino dei leghisti per il ben noto articolo sulla moglie di Bossi – sta per liberare. All’attuale direttore del settimanale del gruppo di Segrate è già stato garantito uno “scivolo” verso Cologno Monzese. A Mediaset, insomma. Al posto di Emilio Fede, che però non vuole lasciare il Tg4. O, ipotesi più concreta, nella tolda di comando dell’all news del Biscione, che a breve potrebbe prendere (finalmente) il largo.
Ma attenzione. Come nel più classico dei giri di Monopoli, basta un lancio di dadi per tornare immediatamente al via. Perché? Semplice. Minzolini ha tutte le carte in regola per rimanere al Tg1 anche senza i galloni di direttore. Infatti, spiegano fonti interne al giornale, ha un contratto a tempo indeterminato come caporedattore. E nessuno – di conseguenza – può allontanarlo facilmente. Potrebbe fare il corrispondente dagli Stati Uniti, un’esperienza in cui s’è già cimentato alla Stampa. E continuare, insomma, a “resistere”. Lasciando la scrivania a un direttore di transizione (Antonio Preziosi dal Gr oppure un traghettatore old style, come fu nel 2002 Albino Longhi). E aspettando che dalle urne primaverili, e quindi dai posteri, arrivi l’ardua sentenza.