Da Vendola alle urla notturne di casa Pd. Tedesco fa paura anche da ex.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 27 luglio 2011)
Le urla arrivano da una stanza del Pd alla Camera. È il 19 luglio. Una voce fa: «Votando subito su Tedesco evitiamo i sospetti…». E un’altra risponde: «Ma ci prendi per il culo?».
Perché per comprendere il vortice di tensione in cui il Pd è sprofondato da una settimana a questa parte, per capire la grande sfida interna che s’è riaperta sulla questione morale, è da quella notte di otto giorni fa che si deve ripartire. È il 19 luglio. Mancano poche ore al voto della Camera su Alfonso Papa. I membri degli uffici di presidenza dei gruppi pd sono riuniti a Montecitorio. La tensione è alle stelle. Nicola Latorre, che qualche ora prima nella capigruppo di Palazzo Madama (Anna Finocchiaro era alla direzione del partito) aveva impresso una brusca accelerazione al voto sull’arresto di Alberto Tedesco, prova a giustificare la scelta: «Così allontaniamo i sospetti di chi ci accusa di scambiare Papa con Tedesco». Il deputato-economista Francesco Boccia perde le staffe: «Ma che fai, ci prendi per il culo?». Dario Franceschini, che comunque propende per la linea di Boccia, prova a sedare gli animi: «Ormai quel che è fatto è fatto». Il voto sincronizzato – che porterà in galera il pidiellino Papa e salverà Tedesco – conferma i più oscuri presagi della vigilia.
Ora, nel giorno in cui Bersani scrive al Corriere per difendere il Pd, nessuno dei litiganti ha voglia di parlare. «Quello che penso di Tedesco l’ho detto nel 2009. Meglio non aggiungere altro», sono le uniche parole a cui si limita Boccia. Un po’ la stessa teoria del veltroniano Giorgio Tonini, che sottolinea: «Il partito ha sempre gestito malissimo questa storia. A cominciare da quando abbiamo permesso che un signore con cotanto conflitto d’interessi facesse l’assessore alla Sanità».
«Il partito», «sempre», «malissimo». Nelle parole di Tonini c’è una grande verità. Perché la storia dell’ex assessore, per cui i magistrati che indagano sulla Sanitopoli pugliese hanno chiesto l’arresto, attraversa tutte le epoche del Pd. Con Veltroni segretario, nel 2008, arriva la candidatura al Senato (primo dei non eletti). Nel 2009, quando il leader è Franceschini, si materializza la corsa (vincente) di Paolo De Castro alle Europee, che consente a Tedesco di entrare a Palazzo Madama proprio al posto dell’ex ministro dell’Agricoltura. Nel 2011, con Bersani saldamente alla guida del partito, avviene «l’incidente» che – nonostante i voti democrat a favore dell’arresto – consente a Tedesco di evitare la galera.
A onor del vero, nessuno dei tre segretari ha buoni rapporti con Tedesco. Veltroni e Franceschini lo conoscono appena. Bersani, come lo stesso senatore pugliese ha ammesso nell’ultima intervista rilasciata alla Stampa, non gli ha mai voluto parlare. E anche il ruolo di Massimo D’Alema nel suo cursus honorum, a dispetto delle tante voci sul presidente del Copasir, è praticamente nullo.
In questa storia, in cui ai democrat tocca il conto più salato, mancano all’appello altri protagonisti. Nichi Vendola, ad esempio, è l’uomo che nel 2005 gli affidò il dossier della Sanità regionale, nonostante Tedesco avesse moglie e figli con partecipazioni azionare in imprese che vendevano prodotti farmaceutici. Una stima ricambiata, visto che Tedesco è stato sorpreso a brindare, nella notte in cui il governatore rivinse le primarie nel 2010, al successo di «Nichi».
E poi manca all’appello anche Michele Emiliano, il sindaco di Bari a cui Tedesco – nel 2008 – ritira il suo sostegno in vista della comunali dell’anno successivo. Provocando una frattura che si ricomporrà soltanto quando Emiliano, che all’epoca è il segretario regionale del partito, si spende perché l’ex socialista venga inserito nelle liste del Pd al Senato.
Morale della favola? Ieri Tedesco, a cui il Pd continua a chiedere le dimissioni da senatore, ha annunciato invece l’uscita dal Pd: «Ho spedito una lettera di quattro righe a Bersani». Il segretario gli ha risposto con una dichiarazione alle agenzie: «Per il partito bastano. Ma per il Paese io gli ho chiesto un passo indietro». Una linea, quella del leader, che trova d’accordo anche D’Alema. «Condivido quello che ha detto Bersani dalla prima all’ultima parola, compresi i punti e le virgole», spiega il presidente del Copasir. Il tutto mentre Rosy Bindi, che con Tedesco ha ingaggiato un duello a distanza, si limita ad alzare le mani. Come a dire, “che ci serva da lezione per le prossime volte”.
Il problema è che non è finita. L’incrocio con l’inchiesta su Filippo Penati, accusato dai magistrati di Monza di aver intascato tangenti per le ricostruzioni nell’area ex Falck, rischia di sopraesporre il Pd agli attacchi del centrodestra. Soprattutto se, come temono ai piani alti del Nazareno, «Tedesco comincerà a fare il giro di tv e giornali; rischiamo peggio del caso Villari (l’ex presidente della Vigilanza Rai eletto coi voti del Pdl, ndr), visto che qui le aggravanti penali si sprecano». L’obiettivo minimo di Bersani è scampare alla bufera. E considerando che sulla questione la miglior difesa è l’attacco, ecco che il leader del Pd risponderà colpo su colpo. Anche, come annuncia Enrico Letta durante la trasmissione In onda, alle accuse di Travaglio sui rapporti con Franco Pronzato.
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