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Dan Peterson, carezza di ferro in giacca di cammello.

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 9 gennaio 2011)

Dan Peterson«Sergent Slaughter è sulla schiena di Hulk Hogan!». Pausa. «Oooohhh! Le (incomprensibile, ndr) di Hulk Hogan sono già danneggiati». Urla. «Hulk Hogan è ko, e Hulk Hogan aspetta, s’è fatto un riposo, poteva controbattere in qualsiasi istante. Oooohhh!». I flash delle macchine fotografiche impazziscono. «Hulk Hogan si vede che sta sanguinando, Hulk Hogan… Non vi fate impressionare dal sangue eh? Ecco la fine, eccoci qua. Hulk Hogan non credo che possa sopravvivere a questo. Hulk Hogan scuote la testa e alza, impazzito il pubblico, alza Sergent Slaughter in aria. Grande mossa di Hulk Hogan ma vale poco».

È una domenica mattina qualsiasi di un giorno qualsiasi del 1991. La televisione qualsiasi è sintonizzata su Italia 1, il bimbo qualsiasi si dimena sul divano qualsiasi, il papà qualsiasi sta facendo la barba, la mamma qualsiasi intima al bimbo qualsiasi di cambiare immediatamente canale ché quello non è un programma «per bambini». Ci pensa la voce che arriva dalla tv a rasserenare la domenica mattina qualsiasi della famiglia qualsiasi. «Bambini, non ripetete queste cose a casa, eh?». Ma non è una voce qualsiasi. È «un marchio di fabbrica», un italiano sapientemente mescolato con lo slang americano. Sullo schermo spunta una bandiera dell’Iraq, lo «sfregio» che i produttori degli Eroi del wrestling – nel bel mezzo della guerra del Golfo tra Usa e Saddam – hanno immaginato tra le mani del fanatico Sergent Slaughter. Tutto il resto sarebbe noia, come l’ultimo round tra l’italoyankee Rocky Balboa e il sovietico Ivan Drago di Rocky IV. Se non fosse per Dan Peterson. Che usa il microfono come von Karajan usava la bacchetta. E quasi “dirige” la riscossa di Hulk Hogan: «Hulk Hogan reagisce. Strappa bandiera dell’Iraq. No, no, no, amico mio. La grande reazione, la carica. Hulk Hogan dice: “Mi hai fatto tagli sulla testa ma io non ti credo”. Calcio in faccia. Uno, due , treeeee! Hulk Hogan vince. Ed è nuovamente coperto di sangue ma campione assoluto. Mai stato uno come Hulk Hogan. Non ci sono parole: immortale, mitico, fenomenale supercampione».

DUE LAUREE, UN SOLDO. Prima di diventare una leggenda per italiani qualsiasi che s’appassionavano agli sport americani avuti in dono dal Biscione berlusoniano, Dan Lowell Peterson era stato un allenatore di pallacanestro. Il cognome lo deve a un antenato norvegese che all’anagrafe faceva «Pedersen», arrivato chissà come nel Wisconsin per fare il taglialegna. Un secolo e mezzo prima che, nel 1936, il pronipote Dan nascesse, in un piccolo paesino dell’Illinois. Mamma fa la designer di moda e la maestra elementare, papà è un poliziotto, il nonno aveva tirato di boxe. Gioca bene a baseball ma sceglie la via del basket. Anche se lo sport preferito, strano ma vero, sono i libri. Quelli che gli consentono di mettere in bacheca due lauree: una in letteratura e arte, l’altra in psicologia. Per campare nell’America dei primi anni Sessanta, il venticinquenne Dan suona la chitarra al Club Jubilee di Chicago. Lo pagano 25 dollari a sera. Nel frattempo, arrotonda sulle panchine delle squadre di college. Fino a quando, approdato a Delaware, diventa un’istituzione del basket a stelle e strisce che rappresenta l’anticamera (lunga) dell’Nba. Salvo poi decidere, nel 1971, di fare un biglietto di sola andata. Per Santiago del Cile.

I SOSPETTI SULLA CIA. Quando nel 1973 sbarca in Italia, alla Virtus Bologna, sono tutti convinti di trovarsi di fronte a una spia della Cia. Il coach statunitense che allena la nazionale di basket di Allende salvo poi emigrare un secondo prima che Pinochet prenda il potere. A più d’uno i conti non tornano. Dan non si cura di loro ma guarda e passa. A Bologna vince la Coppa Italia (1974) e uno scudetto (1976). Poi va all’Olimpia Milano, che l’ha richiamato pochi giorni fa. Quattro scudetti (1982, 1985, 1986, 1987) , due coppe Italia (1986, 1987), una Korac (1985) e infine la Coppa dei Campioni (1987). C’è un frame che fotografa l’ingresso di Peterson nella leggenda. 1982, finale scudetto contro Pesaro, Milano è sotto di cinque punti. Il coach chiama a sé il Mike D’Antoni e gli fa: «Vuoi che proviamo la difesa a 1-3-1?». «Quanto tempo abbiamo?», chiede Mike. «Tre minuti», Dan. «No, ce la facciamo con la difesa a uomo», sentenzia la “colonna” delle scarpette rosse. Il coach, carezza di ferro in giacca di cammello, lo ascolta. Mike lo ripaga con il canestro decisivo. E il tricolore prende la via della bacheca dell’Olimpia.

«VIENI AL MILAN?». Fosse rimasto un “semplice” (virgolette d’obbligo) allenatore di Petersonpallacanestro, probabilmente oggi Dan Peterson sarebbe a scaldare qualche panchina ai giardinetti. O, nella migliore delle ipotesi, bazzicherebbe i tavolini di qualche bar, deliziando i compari di tressette con qualche «sapete quella volta che D’Antoni…», oppure con un più semplice «vi racconto di quando Bob McAdoo…». Nel 1987, quando gli scade il contratto con l’Olimpia, il telefono di Dan squilla. Dall’altra parte del filo c’è Silvio Berlusconi. L’offerta è chiara. Che più chiara non si può. «Perché non vieni al Milan?». Peterson, ovviamente, trasecola. «Io faccio pallacanestro». Ma il Cavaliere, che ha il problema di gestire una squadra appena comprata ed ha esonerato Nils Liedholm, insiste. Niente da fare, Peterson declina dando involotariamente il «la» all’inizio dell’era Sacchi. Ancora oggi, a distanza di vent’anni e passa, ogni volta che incrocia Galliani, l’«amico Adriano» ritorna su quella scelta: «Dan, quella squadra avrebbe vinto anche con te in panchina».

ALLA CORTE DI RE SILVIO. Peterson decide comunque di entrare in una squadra berlusconiana. Ma non è il Milan. La Fininvest, per cui già commenta le partite del basket americano, gli offre il bastone del comando del palinsesto sportivo. Dan accetta. E così, il 3 settembre del 1987, eccolo nella mastodontica conferenza stampa in cui il Biscione lancia il guanto della sfida allo strapotere televisivo della Rai. Al suo fianco ci sono numerosi testimonial d’eccezione: dal pugile Damiani al cestista McAdoo, passando per gli eroi del wrestling Iron Sheik e “Hacksaw” Jim Dugan. Berlusconi annuncia: «Con le nostre 650 ore di sport, combatteremo le dirette di viale Mazzini». È la svolta a «stelle e strisce» che tanta fortuna porterà al Cavaliere. Grazie ai due americani di Cologno Monzese: Mike Bongiorno ai quiz, Dan Peterson allo sport. E «mamma butta la pasta».

LA PASTA E IL GANCIO. Dalla seconda metà degli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta, Peterson è un pezzo dell’Italia da bere. È un amaro Ramazzotti dietro le mille luci di Milano, è una birra Tuborg che si rovescia al passare di due cosce lunghe, è una Coca cola bevuta in coro attorno a mille candele natalizie, una Ypsilon 10 che piace alla gente che piace, una Scavolini amata dagli italiani e un vespista che mangia le mele, un fornetto DeLonghi che «si pulisce da solo» e un dado Knorr che a furia di usarlo ci si «innamora in cucina». E’ tutto questo e anche di più, Peterson. Uno dei «numeri uno» del circo dei sogni, il pezzo inconsapevole di una «baracca» che si fonda sull’incremento del debito pubblico, il «fe-no-me-nale» testimonial del Lipton ice-tea. Il suo slang tiene l’«Italia qualsiasi» attaccata a una (finta) scazzottata di wrestling o a una (verissima) replica della sfida tra i Lakers di Los Angeles e i Celtics di Boston. Sincero fino al midollo, Peterson. «Anche nel mio gergo», dirà in un’intervista alla Gazzetta dello Sport nel giorno del suo settantesimo compleanno, «mi sono ispirato ai grandi commentatori americani. Il mio “mamma butta la basta”, che scandivo quando una partita era già decisa, l’ho preso da “mamma metti il caffè sulla stufa” di un mitico telecronista dei White Sox. Il “gancio cielo”, invece, l’ha inventato un mio amico del liceo che faceva le telecronache dei Milwaukee Bucks ai tempi di Jabbar». Dove c’è Peterson non c’è spazio per la «normalità». Non è un caso, infatti, che il suo ritorno sulla scena come coach dell’Olimpia sia stato salutato da tutti con un’ovazione. Allacciate le cinture. Si sogna ancora un po’. «Bambini, non ripetete queste cose a casa, eh?»

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Written by tommasolabate

20 aprile 2011 at 10:18

Pubblicato su Ritratti

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