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Ore 16,25, Silvio toglie la maschera di Papandreou e mette quella di Diabolik per bruciare l’operazione Monti. Mariarosaria Rossi: «Io come Eva Braun? Semmai sono Eva Kant».

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di Tommaso Labate (dal Riformista di oggi)

La mossa alla Diabolik, con cui mina alle fondamenta l’operazione governissimo, Silvio Berlusconi la pensa alle 16.25. Mentre scuote la testa. Tre ore dopo, alle 19.49, quando la mossa alla Diabolik viene messa nero su bianco da un comunicato del Quirinale, tutti i fan del governo tecnico – comprese le sponde occulte dentro il Pdl (Letta? Alfano?) – reagiscono come sorpresi una doccia gelata.

La mossa alla Diabolik non è un passo indietro. Né uno in avanti. Né quel «passo di lato» che gli chiede anche Bossi. Nulla di tutto ciò. È il modo con cui il premier, che «si dimetterà dopo l’approvazione della legge di stabilità», di fatto prova a rimanere in sella a Palazzo Chigi (stando a fonti del Tesoro possono servire da un minimo di due settimane a un mese e anche più) il tempo necessario per bruciare tutti i ponti che avrebbero potuto portare a un governo di larghe intese.

Basta mettere in fila le dichiarazioni a caldo di tutti i tessitori dell’opzione Monti. Massimo D’Alema l’aveva spiegato ai fedelissimi già nel tardo pomeriggio: «Mi sa che questo ci porta dritti dritti dove vuole lui. E cioè alle elezioni». Il lettiano Francesco Boccia, che parla a nome del Pd, aspetta la nota del Colle che contiene la “promessa” del Cavaliere e la commenta stizzito: «Ora Berlusconi deve formalizzare subito le sue dimissioni. Ogni giorno che passa con questo governo costa al paese un mucchio di soldi». Roberto Rao, il deputato-spin doctor dell’Udc, che negli ultimi giorni ha sorpreso anche i giornalisti con le primizie via Twitter, alza le mani: «Se devo essere sincero no, non me l’aspettavo». E Pier Ferdinando Casini, a seguire: «Si approvi in fretta la legge di stabilità. Dico no a una campagna elettorale estenuante». Sono reazioni giustamente nervose. Troppo nervose per chi, all’apparenza, ha appena ottenuto l’obiettivo principale. E cioè la testa del Cavaliere.

A questo punto tocca tornare alle 16.25. A un uomo con la testa china sui tabulati di Montecitorio, che gli hanno restituito una maggioranza che s’è trasformata in minoranza. All’ultimo voto di fiducia poteva contare su 316 uomini. Adesso quegli uomini si sono ridotti a 308. 309 se si considera che Gennaro Malgieri, che in molti danno sul punto di abbandonare il Pdl per ritornare da Fini, dichiara in Aula che comunque avrebbe votato a favore del Rendiconto se non fosse stato «per dei medicinali» che doveva prendere. Mancano all’appello i frondisti (Antonione, Fava, Destro), Papa che sta agli arresti domiciliari, le new entries dell’opposizione Stagno D’Alcontres e Pittelli, più l’astenuto Stradella e il convalescente Nucara. «Traditori», mastica amaro il Cavaliere. La scena che lo vede chino sui foglietti con i tabulati supera quasi i limiti dell’incredulità. Fino alla svolta. Che si materializza sotto forma di un foglietto, esposto a uso e consumo dei fotografi dell’Ansa, in cui il premier parla per la prima volta di «dimissioni».

In Transatlantico l’opposizione esulta. «Adesso state attenti a quello che succederà al Quirinale», scandisce Pier Luigi Bersani. «Deve dimettersi», sussurra Enrico Letta. «Lasci il governo», è la variante di Dario Franceschini. Il bello è che nessuno dei tre crede a quello che dice. Perché tutti e tre sono convinti che Berlusconi resisterà. Che la sua resistenza porterà a una rovinosa caduta del governo a Montecitorio. E che la rovinosa caduta dell’esecutivo, a sua volta, agevolerà lo scenario del governissimo. I messaggini che viaggiano sui blackberry in dotazione ai leader dell’opposizione danno conto di uno scenario in cui «Gianni Letta e Alfano sono con noi», pronti a lavorare a un «governo Monti». L’unico che non ci crede è Ugo Sposetti, tesoriere ds: «Vedrete che alla fine la soluzione più probabile è un governo di centrodestra. Guidato da Gianni Letta, magari con Alfano e Maroni vice».

Ore 19. Quando Berlusconi è già al Quirinale, Beppe Fioroni, in un corridoio laterale della Camera, disegna così la fine dell’impero del Cavaliere. «Stasera il premier proverà a resistere. Ma Napolitano, così come accadde per Prodi, lo spingerà a venire nella camera in cui non ha più la maggioranza a verificare se c’è ancora la fiducia. E visto che non ce l’avrà, la fiducia, ciao ciao. Fine della storia. Lo spread continuerà a salire fino a che, dentro il centrodestra, uomini di buona volontà e di estrazione democristiana non decideranno che è arrivata l’ora di salvare il Paese favorendo un governo Monti. Fate finta che Berlusconi sia Papandreou, che gridava “spezzeremo le reni alla Francia” e che due giorni dopo s’è trovato defenestrato».

Neanche un’ora dopo tutto è cambiato. Silvio molla la maschera di Papandreou e mette quella di Diabolik. Annuncia dimissioni che saranno formalizzate non prima, come spiega uno dei suoi, «di aver avuto la certezza che si andrà alle elezioni anticipate». Una mazzata al governissimo. «Quando se ne andrà, sarà troppo tardi per tradirlo». Eppure Mariarosaria Rossi, la deputata a lui più vicina, l’aveva detto fin dalla mattinata di ieri. Con sorriso beffardo sule labbra: «Mi dicono che sono come Eva Braun nel bunker di Hitler. Non è vero. Semmai sono Eva Kant».

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Pd inquieto, bersaniani in allarme: «Dentro il partito, c’è chi punta a Monti candidato premier alle elezioni»

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di Tommaso Labate (dal Riformista del 6 novembre 2011)

«L’Italia ce la farà». Applausi. «Berlusconi deve andare a casa. O ci va da solo o ce lo manderemo noi, in Parlamento o alle elezioni». Applausi. «Il Pd è il primo partito del Paese e non sarà mai una ruota di scorta». Pier Luigi Bersani parla di fronte a una San Giovanni gremita. Piazza piena, sondaggi pure. Ma, dietro il palco, c’è un partito inquieto.

Ore 17.32. Alla fine della manifestazione sul palco salgono tutti. O quasi. Da Enrico Letta a Dario Franceschini, da Rosy Bindi a Beppe Fioroni. C’è pure Massimo D’Alema. Che un’oretta prima, interpellato dai cronisti su Matteo Renzi, se l’era cavata con una stroncatura a effetto: «Un fenomeno mediatico costruito dalla stampa».

Il sindaco di Firenze, che era entrato nel backstage di piazza San Giovanni nel primo pomeriggio, accompagnato dalle urla di una decina di contestatori, aveva già guadagnato la stazione Termini per una commemorazione di Giorgio La Pira. Non ha seguito il discorso di Bersani, «altrimenti faccio tardi a un appuntamento molto importante per tutti i fiorentini», e col segretario non s’è manco incrociato. Con Franceschini sì, si sono visti. E giusto perché il capogruppo, che ha atteso i cronisti terminassero l’assedio a Mister Big Bang, gli è andato incontro armato di battuta fulminante: «Oh, io sono venuto qua per avere un autografo di Renzi. Non è che torno a casa a mani vuote?».

Ma, nonostante dalla guerra a distanza tra Pier Luigi e Matteo sia passata solo una settimana, a creare tensione all’interno del partito non è il sindaco di Firenze. Bensì il modo in cui gestire l’uscita di scena di Berlusconi. Ufficialmente il segretario continua a tenere la barra dritta nella direzione del governo d’emergenza. Ma alcuni passaggi del suo intervento dal palco tradiscono la ferma volontà di arrivare quanto prima all’appuntamento con le urne. Anche in pieno inverno. «Siamo favorevoli a un governo di emergenza o di transizione», scandisce il leader. Ma «a condizione che sia composto da persone autorevoli, che non sia un ribaltone, e che non viva sul cabotaggio di un voto che arriva o no». Dietro di lui, però, il gotha democratico la pensa in maniera diversa. Da Massimo D’Alema, che nell’intervista rilasciata l’altro giorno al Messaggero ha fatto l’elogio del governo Monti evitando di adombrare date di scadenza. A Walter Veltroni, che continua a puntare sul 2013 e insiste sul medesimo obiettivo del suo “grande nemico”. Passando anche per Enrico Letta, che in privato continua a teorizzare che l’Europa e i mercati non prenderebbero affatto bene le elezioni anticipate.

Ugo Sposetti, deputato pd e tesoriere ds, scuote la testa: «Non vorrei che fossimo noi, il vero Partito delle libertà. Perché qui mi sa che ognuno fa come gli pare…». Franco Marini, altro veterano della politica, riduce a due le ipotesi: «Con tutto l’affetto per il mio corregionale Gianni Letta, che conosco da una vita, qui siamo a un bivio. O ci si rende conto che il problema vero è l’economia, e si fa in modo di arrivare a un governo guidato da una personalità autorevole anche in Europa, come Mario Monti. Oppure, se Berlusconi decide per il voto anticipato, prepariamoci per un esecutivo che gestisca la breve transizione. In questo caso potrebbe toccare al presidente del Senato, Renato Schifani».

Ma il “tema Monti” non è soltanto un esercizio che riguarda i prossimi giorni. No. Tra i fedelissimi di Bersani, infatti, c’è chi comincia a intravedere lo spettro dell’ex commissario europeo come candidato premier di una grande alleanza che vada da Vendola a Casini. Il ragionamento, che negli ultimi giorni è stato svolto alla presenza del segretario, suona più o meno così: se D’Alema, Veltroni, Letta e compagnia insistono sull’alleanza col Terzo Polo, non possiamo escludere che qualcuno di loro («O tutti insieme», maligna un giovane bersaniano) si alzi e proponga la candidatura di Monti alla guida della «Santa Alleanza». Magari con la scusa dell’emergenza, sicuramente con l’idea di togliere dal bouquet di ipotesi la sfida fratricida delle primarie (Bersani-Renzi-Vendola). Monti candidato premier di un fronte che va dall’Udc a Sel, insomma, sarebbe la quadratura del cerchio di chi – da tempo – va alla ricerca di una via di mezzo tra «nuovo Prodi» e «papa straniero».

I collaboratori di Bersani negano che il tema sia mai stato oggetto di discussioni interne. Ma, all’interno della cerchia di bersaniani doc, lo spettro è stato avvistato. «Qualcuno potrebbe provarci», sussurra il responsabile Giustizia Andrea Orlando. Mentre Matteo Orfini lo dice molto più chiaramente: «Monti sarebbe una soluzione dignitosa per un governo d’emergenza. Ma come candidato premier sarebbe improponibile». E si torna davanti al palco di piazza San Giovanni, ad ascoltare la fine dell’intervento di Bersani. E quell’appaluso scrosciante che dà il la all’ultimo all’ultimo week-end tranquillo della politica italiana. Berlusconi è chiuso nel suo bunker. E il segretario del Pd ripete: «Adesso tocca a noi».

Written by tommasolabate

6 novembre 2011 at 16:25

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