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Da Claudia Cardinale a Gianfranco Fini: chiedi chi è Pasquale Laurito.
di Tommaso Labate (dal Riformista del 12 agosto 2008)
Porto Ercole. Se non si rischiasse di fargli un torto, ora che se ne sta al sole della Feniglia come fa tutte le estati dal 1951 a questa parte («La prima volta venni con Flaiano e quella schifezza di Cala Calera non c’era ancora»), e se non si temesse di fargli andare di traverso i maltagliati pinoli e gamberi di “Braccio”, allora si potrebbe osare. Banalmente. Si potrebbe dire, dopo averlo sentito raccontarsi per ore, che forse, lui, altro non è che l’Ulisse cattocomunista (senza trattino) della politica italiana. Per molti più leggenda che semplice realtà. Perché Pasquale Laurito, anni ottantadue, sembra essere stato ovunque ci fosse da stare, in Italia, negli ultimi sessant’anni e passa. Anche quando non era fisicamente presente. Con la sua Velina rossa ha scritto dei primi contatti tra il Vaticano e l’Unione sovietica di Gorbaciov, ha svelato il segretissimo incontro tra Berlinguer e Craxi alle Frattocchie, ha anticipato di tre giorni il risultato esatto della battaglia del ’94 tra D’Alema e Veltroni per la segreteria del Pds. Ma questo è modernariato. Laurito non è soltanto l’unico essere vivente ad aver calcato il palcoscenico di Montecitorio dall’Assemblea costituente alla sedicesima legislatura. Non è soltanto l’unico ad aver visto all’opera, e da molto vicino, sia Alcide De Gasperi che Marianna Madia. Non è soltanto l’antesignano dei pescecani da Transatlantico. No. Pasquale Laurito è stato anche attore e gallerista d’arte. Protagonista delle notti di via Veneto, dei pomeriggi della piazzetta di Capri e dei giorni di Botteghe oscure. Laurito sette vite. Pasqualino settesistenze. Se non avesse girato così tanto, forse, non sarebbe stato il primo ad annunciare la nascita della televisione italiana. Ancora oggi, quando pensa a quel giorno dei primi anni Cinquanta, si lascia andare all’emozione. «Ah, che scoop…». In quel tempo, Laurito lavorava a Paese sera, l’edizione pomeridiana del Paese. E lo scontro parlamentare sull’imminente nascita della tv l’aveva vissuto in presa diretta. «La Dc voleva la televisione mentre il Pci era contrario. Anche La Malfa, pur di andare contro i democristiani, sosteneva la battaglia dei comunisti». Lo scoop gli capitò quasi per caso, passando a piedi alle cinque di mattina dalle parti di Monte Mario. «Mi accorsi che c’era un cantiere e mi avvicinai agli operai che stavano lavorando. “Ma che state costruendo?”, chiesi con l’aria ingenua del passante un po’ curioso. Uno di loro mi rispose che proprio lì sarebbero sorte le torri della televisione. Feci finta di niente e mi allontanai. Arrivato di corsa al giornale, chiamai il fotografo e insieme a lui tornai laggiù, in motocicletta». «Nasce la televisione», titolò Paese sera. E Pasqualino se la ride ancora oggi, ricordando l’impatto di quell’articolo sul dibattito parlamentare. «Urlavano tutti, alla Camera, sventolando all’indirizzo dei democristiani la prima pagina del giornale».
LA PENNA ROSSA DEL MIGLIORE. Tutto era cominciato a Lungro. Tremila anime e una minoranza albanese a settecento metri dal livello del mare, in provincia di Cosenza. È nato laggiù, Pasquale Laurito, figlio di un medico socialista e di una donna devota. «Mia madre mi fece battezzare di nascosto», ricorda oggi ostentando con orgoglio il suo essere, insieme, cattolico e comunista. «La gran parte delle sezioni comuniste nella provincia di Cosenza le ho inaugurate io. La prima tessera del Pci la presi da cattolico, nel 1945. E ancora oggi vado a messa tutte le domeniche. Sono un vero cattocomunista». Arrivato a Roma, dice, «cominciai a fare il cronista politico a Democrazia del lavoro. Per 90 lire al mese raccontavo le sedute della Costituente dalle tribune di Montecitorio, visto che all’epoca i giornalisti non potevano entrare in Transatlantico». In quel periodo, Pasqualino incontra le due persone che gli hanno «cambiato la vita»: Palmiro Togliatti e Federico Caffè. «Togliatti – racconta Laurito – lo conobbi una sera del ’45 a via Quattro novembre, all’Unità. Presi dalla taschino la mia tessera del Pci e gli chiesi di firmarla». Delle prime volte col Migliore, Pasqualino ricorda la grande stima che il segretario nutriva nei confronti di certi democristiani («Palmiro aveva grande considerazione di La Loggia, fine economista»), le sue camminate in Transatlantico («Nilde stava sempre quattro passi indietro») e l’ideale penna rossa con cui correggeva il giornale di Gramsci. «Era molto attento all’Unità, soprattutto a come venivano scritti i pezzi di cronaca. Vede, quasi tutti i giornalisti della redazione dell’epoca erano reduci dal confino, gente che era stata a lungo tenuta lontana dai propri affetti. Per questo, nel dare notizia di una morte, facevano spesso dei lunghissimi preamboli sui genitori distrutti dal dolore, le mogli disperate, i figli che piangevano. E la notizia finiva, inesorabilmente, in coda. Tutto questo faceva andare in bestia Togliatti. Che iniziando a leggere quegli articoli, non di rado, esclamava: “Perché piangono ’sti genitori? Perché si disperano ’sti figli? Possibile che dobbiamo leggere tutto l’articolo per capire che c’è stata una morte, per sapere chi e come?”. Finiva che molto spesso li faceva riscrivere, quei pezzi». Nel raccontare i suoi primi anni da cronista, Laurito salta spesso da Caffè a Togliatti e da Togliatti a Caffè. «Federico l’ho conosciuto quand’era collaboratore di Meuccio Ruini. Un economista unico, un riformista straordinario, di fronte a cui fior di comunisti si levavano il cappello», sottolinea Laurito anche quando, lasciando volontariamente terreno alla sua ben nota vis polemica, invita «tutti i cialtroni che oggi si dicono riformisti a rileggere quello che scriveva Caffè». L’economista che sapeva di non poter prescindere da Marx. Il riformista che si schierò contro il decreto con cui Craxi tagliò di quattro punti la scala mobile. Pasqualino ripensa ancora oggi ai decenni passati a chiacchierare con Caffè. E di fronte agli interrogativi sulla misteriosa fine dell’economista, inghiottito dal nulla in un giorno di primavera del 1987, Laurito offre le sue certezze. «Si fidi di me, che l’ho conosciuto e frequentato per quarant’anni: Caffè non si è suicidato». Poi guarda il mare dell’Argentario e indica il Sud. «La Calabria… Caffè è finito laggiù, a rinchiudersi dentro la Certosa di Serra San Bruno. Tra i monaci, in quel posto dove entra soltanto chi non vuole uscire più».
DA CHAGALL ALLA CARDINALE. «Mio padre non voleva che facessi il giornalista», dice Paqualino Laurito con l’espressione di chi vuol negare al genitore persino un barlume di ragione postuma. «E comunque di giornalismo non si campava», spiega tirando nuovamente fuori la vecchia storia delle 90 lire al mese che gli passava, agli esordi, Democrazia del lavoro. Furono proprio le ristrettezze da taccuino ad avvicinare Laurito sia alle opere d’arte che al mondo del cinema. «Tutti dicevano che in fatto di quadri – racconta sventolandosi l’indice sulla punta del naso – avevo un gran fiuto. E così nel ’48 mi misi in testa di aprire una galleria d’arte a via Alibert, la stradina che incrocia sia via Margutta che via del Babuino. Riuscii ad avere qualche Chagall e un paio di Mirò, che però non potevo vendere. L’esposizione di quelle opere doveva durare quindici giorni; invece, tanto fu l’afflusso di gente che la tenemmo in piedi per un mese e mezzo. Su quei quadri non avremmo guadagnato una lira, era chiaro. Ma immaginammo che l’esposizione di Chagall e Mirò avrebbe dato la visibilità giusta alla galleria». Il fiuto per i quadri diventa per Laurito un passpartout per i paradisi romani. «Pertini l’ho conosciuto così, consigliandogli le opere d’arte da comprare…». Sempre nel ’48 Pasqualino fa il suo ingresso nel mondo della celluloide, con i galloni di «generico». Appare in Anni difficili di Luigi Zampa. Quindi veste i panni dell’usciere in Un giorno in pretura di Steno. «Andavo a mangiare da Otello, in via della Croce, un posto frequentato da molti cinematografari dell’epoca». Tra questi Mauro Bolognini, che nel 1960 porta Laurito sul set del Bell’Antonio. «Facevo la parte dell’avvocato mandato dal Vaticano in Sicilia per indagare sull’impotenza di Mastroianni e sul suo matrimonio con la Cardinale, visto che il padre di lei si era rivolto alla Sacra Rota per l’annullamento delle nozze». Di quell’esperienza, a Pasqualino, rimangono tre cose. L’antipatia nei confronti di Claudia Cardinale, «pedante e piena di sé», com’ebbe a dire ricordare tempo fa in un’intervista al Corriere della sera. Il compenso a sei cifre, «non avevo mai guadagnato tanto». E le parole di suo padre: «Mi disse: “Finora hai giocato. Adesso però lascia stare il cinema”». All’epoca, Pasqualino lavorava a Paese sera. La sua giornata tipo? «Entravo al giornale prima dell’alba e uscivo verso le tre. Nel pomeriggio, andavo sul set oppure mi dedicavo alle opere d’arte fino alla sera». Poi, arrivava l’ora della dolce vita. «Il Club 84 di via Emilia – racconta Laurito pescando a caso nell’album dei ricordi – era un posto piccolo e affollato. Quando quelli dell’orchestra si accorgevano che ero arrivato, subito partivano le note di L’amore è una cosa meravigliosa». Dormire, a quei tempi, non era affar suo.
LA VELINA ROSSA. Un pomeriggio del giugno del 1978, Laurito, che nel frattempo è passato all’Ansa, si trova a Botteghe Oscure. Da lì a poco avrebbe avuto inizio una riunione della segreteria del Pci. Il racconto di Pasqualino parte da una telefonata: «Chiamai la redazione dell’Ansa e mi feci passare il direttore, Sergio Lepri. Gli dissi, semplicemente: “Guarda che il Partito comunista sta per chiedere ufficialmente le dimissioni del presidente della Repubblica”». Dopo la morte di Moro, le polemiche sul presunto coinvolgimento di Giovanni Leone nello scandalo Lockheed erano riprese, e più forti di prima. «Ma Lepri – prosegue il racconto di Laurito – non credette a quello che gli stavo dicendo. E iniziò a urlare al telefono frasi del tipo: “Ma che ti inventi? Ma cosa dici? La riunione non è nemmeno iniziata e tu dici che i comunisti chiederanno le dimissioni di Leone? E perché non fanno un comunicato stampa?”». Di fronte al possibile scoop, Pasqualino insiste. «Non mi arresi. Non foss’altro perché al mio fianco c’era Tatò (segretario di Berlinguer, ndr) che sentiva la telefonata. E feci un ultimo tentativo: “Senti, Lepri, diamo la notizia con una formula tipo a quanto si apprende da fonti qualificate, il Pci… e guadagniamo cinque ore rispetto agli altri”. Ma lui niente, non ne volle a che sapere: “L’Ansa non fa giornalismo in questo modo”, mi rispose prima di attaccare il telefono». La notizia finisce in una velina che salta di mano in mano, prima di essere lanciata dalle altre agenzie. E l’Ansa passa dallo scoop al buco. In quel giorno di giugno, circolò la prima versione «clandestina» di quella che sarebbe poi diventata la nota politica di Pasquale Laurito: la Velina rossa. In quel tempo, racconta Pasqualino, «l’unica Velina che circolava era quella di Vittorio Orefice, che però sulla sinistra non aveva neanche l’ombra di una notizia. Tra gli abbonati lui aveva anche le istituzioni e qualche azienda. Io ho invece scelto di mandare la mia nota politica solo alle redazioni, per essere più libero. E per rispetto l’ho sempre sospesa durante i congressi del Pci». Ufficialmente la Velina rossa nasce all’inizio degli anni Ottanta. «Venni a sapere – racconta Laurito – che Craxi aveva convocato una riunione notturna dei maggiorenti socialisti per chiedere la testa del suo capogruppo alla Camera, Silvano Labriola, il cui nome era emerso nella lista degli iscritti alla P2. Scrissi tutto sulla Velina. Finì con Bettino che s’incazzò come una belva e smentì la notizia. E con Labriola che, non avendo capito la trama alle sue spalle, si mise a urlare contro di me in Transatlantico. “Brutto stronzo – mi disse Silvano – siamo amici e tu cerchi di farmi fuori?”. Dovettero passare degli anni prima che Labriola, dopo aver appreso che la riunione segreta c’era stata davvero, venisse da me a scusarsi e ad ammettere che la Velina rossa gli aveva salvato il posto».
MASSIMO&WALTER. La nota politica di Pasquale Laurito resiste all’incedere, spesso tutt’altro che elegante, del tempo. Anche se col passare degli anni, è cambiata la ragione sociale che le attribuisce chiunque la riprenda: da nota «vicina a Botteghe oscure» ad agenzia «notoriamente vicina a Massimo D’Alema». Una cosa è certa: se c’è un socio anziano del club dalemista, quello è Pasqualino. «Massimo ha una cultura, un’intelligenza politica…», ripete Laurito, la cui passione per l’ex premier lo porta spesso e volentieri, quando parla di lui, a non arrivare mai al verbo. Quando il lider maximo fu candidato al Quirinale, più d’uno sentì Pasqualino lasciarsi andare a un felicissimo «ora posso pure morire contento». Salvo poi ricredersi quando la nomination dalemiana per il Colle più alto si arenò. Sull’affaire, Laurito offre un distillato di Velina. Rosso, s’intende. «Ciampi – giura Pasqualino – non aveva alcuna voglia di fare il bis. Dovendo far arrivare il messaggio a palazzo Chigi, su al Colle scelsero come ambasciatore Mastella. Convocarono Clemente al Quirinale e gli dissero chiaramente: “Il presidente vede bene una candidatura giovane…”. Era un’apertura a D’Alema. Ma Romano Prodi, che invece puntava su Amato, rispedì quelle parole al mittente. Il povero Clemente venne da me per dirmi della furibonda reazione prodiana al messaggio del Colle. E toccò a me dire a D’Alema che Mastella doveva parlargli urgentemente…». Va da sé che al dalemista Laurito non piaccia Veltroni. «La Velina rossa – ricorda con orgoglio – indovinò al millesimo, e con tre giorni di anticipo, l’esito del consiglio nazionale che decise la sfida tra D’Alema e Veltroni per la segreteria del Pds. Era l’estate del ’94. Quando arrivò il voto finale, che dimostrò l’esattezza della mia previsione, ero su una barca a vela, in mezzo al mare». Il Pd targato Veltroni, a Pasqualino, non piace per nulla. «Ma che partito è – s’inalbera – un partito in cui non è possibile neanche discutere? Il vecchio Pci era un’altra cosa. Magari le decisioni le prendevano solo i vertici ma quantomeno si parlava, ci si confrontava, si litigava». Qualche tempo fa, incrociandolo, Veltroni si è lasciato scappare un «chissà se, un giorno, anche Laurito diventerà più buono». Ma Pasqualino niente. «Laurito – dice lui stesso – non diventerà buono neanche da morto, capito?». Gli stessi toni furenti che ha opposto «a un personaggio molto autorevole, che mi ha suggerito di cambiare l’aggettivo della mia Velina da rossa a democratica». Niente da fare. Laurito è uno di quelli che non molla, neanche di un millimetro.
QUEL «NO» A PERTINI. A ottant’anni e passa, per tre stagioni su quattro, continua presentarsi a Montecitorio la mattina presto. Alle 9 è già in Transatlantico da un pezzo, con la mazzetta dei giornali sotto il braccio. Non di rado capita che persino Gianfranco Fini, che della Camera oggi è il presidente, lo cerchi per parlare con lui al riparo da sguardi indiscreti. La sua Velina è pronta nel pomeriggio. Due cartelle al massimo, rigorosamente vergate a mano (Laurito delle tastiere è nemico assai), che qualche collega (un tempo era Rina Gagliardi, oggi l’onere e l’onore sono di Alessio Falconio di Radio radicale) si prende la briga di digitare. «Che vuol fare? Non riesco a vivere senza fare il giornalista», spiega Pasqualino. Che ricorda: «Quand’era presidente della Camera – siamo nel ’78 – Sandro Pertini pretendeva di pranzare con me quasi ogni giorno. Era ossessionato dall’idea di diventare capo dello Stato e aveva paura che il Pci, alla fine, gli avrebbe preferito un democristiano. Temeva soprattutto Alessandro Natta, evocando fantomatiche gelosie tra liguri. “Laurito, dammi una mano, diglielo tu…”, diceva sempre». Quando Pertini viene eletto presidente della Repubblica, «come gli avevo pronosticato, mi chiese di seguirlo al Colle. “Adesso non puoi lasciarmi da solo”, ripeteva ad ogni mio rifiuto. Mandò persino la moglie, Carla Voltolina, a parlare con me. Non ne volli a che sapere anche perché, se mi fossi rinchiuso al Quirinale, sarei morto da un pezzo». Il Transatlantico di Montecitorio, Pasqualino, ce l’ha nell’anima. E ora che se ne sta a Porto Ercole, sembra quasi che non veda l’ora che Montecitorio riapra i battenti. L’altro giorno l’hanno chiamato dalla sua Lungro. «Vogliono darmi la cittadinanza onoraria. Ma dico io, come si fa a ricevere la cittadinanza onoraria dal luogo in cui si è nati? Bah…». Farà comunque un salto presto, Pasqualino, nella sua Lungro. «E, come ogni volta che ci vado, passerò un sacco di tempo al cimitero. L’unico posto in cui posso rivedere gli operai della salina, quelli che affollavano le prime sezioni del Pci, laggiù». Storie di sessant’anni fa, che la memoria di Pasqualino settesistenze conserva come se fossero successe ieri l’altro.