Il cavillo che fece dire a Giulio: «Silvio, io non mi chiamo Alfano, chiaro?»

Il primo capitolo di questa storia, che nonostante il ritiro dell’ennesima norma salvapremier potrebbe non essere arrivata all’epilogo, è stato scritto venerdì scorso. Il giorno del consiglio nazionale del Pdl che ha incoronato Angelino Alfano segretario del partito. Lo stesso in cui l’eterna sfida tra «Silvio» e «Giulietto» ha raggiunto, probabilmente, il suo punto massimo. Con una differenza: nel merito, questa volta, anche il fior fiore dei berlusconiani ortodossi era più d’accordo con l’ultimo successore di Quintino Sella che non col Cavaliere. «Anche se», è la magra consolazione del titolare dell’Economia, «so che nessuno lo ammetterà mai».
La sfida inizia nel momento in cui si spengono le luci dell’auditorium romano, che ha appena finito di ospitare l’assise pidiellina. Da Palazzo Chigi, infatti, «una manina» ha appena elaborato un ritocco alla manovra economica licenziata il giorno prima dal consiglio dei ministri. Ma non è un dettaglio. No. In quelle poche righe, inserite in calce all’articolo 37 del testo, c’è la norma che salverebbe Fininvest dall’esborso di 750 milioni che finirebbero nelle casse della Cir di Carlo De Benedetti se la sentenza civile sul lodo Mondadori – attesa a giorni – desse torto a Cologno Monzese.
Impossibile far luce sull’esecutore materiale, che probabilmente è un tecnico di Palazzo Chigi. Improbabile
risalire all’ispiratore, anche se a via XX settembre sospettano ora di Niccolò Ghedini ora di Angelino Alfano, che smentiscono. Facile però, nell’ottica tremontiana, intercettare «il mandante»: Silvio Berlusconi.

Quando viene avvertito della presenza della norma “salva Fininvest” nella sua manovra, «Giulietto» va su tutte le furie. E dà il la a un duello che durerà quasi quarantott’ore. Che continua anche domenica, quando il Colle fa sapere di non aver ancora ricevuto il testo approvato da Palazzo Chigi venerdì. In quelle ore succede di tutto. Compreso che Tremonti, a colloquio con il presidente del Consiglio, minacci la sua uscita di scena. Il senso del ragionamento che il titolare dell’Economia oppone al Cavaliere è, in fondo, semplicissimo: «Io devo fare una manovra di rientro dal debito. E, perché possa iniziare a “tagliare”, ho bisogno di cominciare dai costi della politica. E tu che fai? Mi chiedi di salvare la tua azienda?». Da qui al j’accuse finale, che rimanda al vecchio «scudo» che portava la firma del Guardasigilli (prima che la Consulta lo bocciasse), il passo è brevissimo: «Silvio, guarda che io non mi chiamo Alfano, chiaro?».

Il premier, ovviamente, insiste. E quando lunedì, dopo che il Sole 24 ore porta alla luce il «trucchetto salva Fininvest» e il Quirinale chiede spiegazioni, Tremonti torna a farsi sentire. Con un messaggio chiaro: «O va via quel comma o va via il sottoscritto». A quel punto, l’ultimo successore di Quintino Sella si sente con le spalle coperte. Anche perché, è la lettura che ne danno i suoi, crede che il Cavaliere sia davvero isolato.
La partita, però, non è ancora arrivata al fischio finale. Ieri mattina, sfruttando l’assist del maltempo, Tremonti annulla la conferenza stampa di presentazione della manovra. Il ritornello, che accompagna il suo rientro nella Capitale, si ripete sempre uguale a se stesso: «O la norma salva Fininvest o io». Berlusconi prima si sfoga, accusando il titolare dell’Ecomomia di «aver tradito». Poi, dopo aver vagheggiato coi fedelissimi sul fatto che «riproporremo questa norma sacrosanta in Parlamento», si arrende. L’ultimo comma dell’articolo 37 scompare dai radar. L’aggettivo con cui Palazzo Chigi accompagna il ritiro della leggina salva Fininvest – «era una norma giusta» – è il tassello che rende possibile la ricomposizione del quadro. Quello che rende chiara ed evidente l’assunzione di responsabilità da parte del premier. Anche se, scommette uno dei fedelissimi del premier a partita chiusa, «dopo questo scontro temo che il Presidente e Tremonti non si rivolgeranno la parola mai più». E dice proprio così, «mai più».
Rispondi